Il reportage

Slogan, restrizioni e sgomberi: la tensione corre nei campus

La guerra in Medio Oriente e le manifestazioni negli Stati Uniti - Viaggio nella Columbia University tra gli studenti in mobilitazione
©EPA/JUSTIN LANE
Davide Mamone
26.04.2024 21:30

Che il conflitto tra Israele e Hamas stia cambiando il volto di Columbia University a New York lo si capisce pochi attimi dopo essere usciti dalla metropolitana sulla 116esima strada: bandiere israeliane e palestinesi sono visibili in ogni dove e massiccia è la presenza della polizia. Sono ore delicatissime negli Stati Uniti, dove è in corso un sit-in permanente in più di sessanta università del Paese, organizzato dal movimento nazionale a sostegno della causa palestinese. E come fu quattro anni fa per le proteste Black Lives Matter, New York è di nuovo epicentro delle mobilitazioni, che durano da ormai più di una settimana e potrebbero rivelarsi decisive per il voto di novembre.

A Columbia, studentesse e studenti camminano a passo spedito, musica alle orecchie, forse per divincolarsi dalle domande di decine di giornalisti intenti a capire che cosa stia succedendo. In pochi sono incoraggiati a parlare. Haleigh, una studentessa italo-americana del programma di scrittura creativa, è una di questi. Nativa del Rhode Island, dice di simpatizzare per i manifestanti che dall’interno del campus chiedono la fine delle ostilità a Gaza e ai vertici dell’università di divincolarsi dai legami finanziari con lo stato di Israele, ma di non sopportare le frange più estreme che si sono rese protagoniste di isolati episodi di antisemitismo negli scorsi giorni. Parla in modo più maturo di altri studenti più giovani di lei, forte dei suoi quasi 27 anni. E riconosce quello che secondo una fetta significativa di persone qui rappresenta la voce maggioritaria dimenticata di questi giorni: il silenzio scoraggiato di chi teme di esprimersi. «Si può essere a favore dello stato di Israele, della fine della guerra a Gaza, dei diritti umani dei civili e contrari ad Hamas, ma se dici una cosa del genere sei spesso frainteso da entrambe le parti, e così molti evitano proprio di parlare», dice Haleigh. «Abbiamo un po’ perso la capacità di confrontarci».

Dentro il campus e la tendopoli

Il tutto ha avuto inizio all’alba del 17 aprile, quando un centinaio di attivisti pro-Palestina si è recato nel chiostro centrale di Columbia e ha piazzato una manciata di tende. Due gli obiettivi della protesta: chiedere un cessate il fuoco permanente a Gaza, dove secondo le stime del ministero della salute l’esercito di Israele ha ucciso più di 35.000 persone; chiedere a Columbia di cedere le partecipazioni dell’università in fondi e imprese, come Google e Airbnb, che trarrebbero profitto dall’invasione della striscia e dalle occupazioni in Cisgiordania.

La rettrice di Columbia, Nemat Shafik, ha risposto con il pugno duro, permettendo alla polizia di sgomberare il sit-in qualche ora dopo. Il risultato: gli attivisti non arrestati sono tornati, il numero delle tende si è quintuplicato e le negoziazioni per evitare l’uso della forza sono durate fino a ieri notte.

Dal 17 aprile a oggi il campus ha cambiato volto: niente libero accesso per tutti, controllo rigido dei documenti e cancelli aperti ai giornalisti solamente dopo le ore 14. Passeggiare per l’ateneo, sorprendentemente silenzioso, permette di toccare con mano le due anime del conflitto. Da una parte un gruppo di israeliani che mostra le foto di coloro che sono ancora ostaggio dal 7 ottobre, sventola bandiere sioniste e chiede la fine delle ostilità ad Hamas; dall’altra, l’inizio delle tendopoli dove da più di una settimana almeno 400 attivisti sventolano bandiere palestinesi, occupano il campus e chiedono la fine delle ostilità al premier Benjamin Netanyahu e al presidente Joe Biden, accusato di non aver saputo controllare l’alleato.

Tra questi ci sono persone come Ahmed, i cui membri della sua famiglia sono riusciti a evacuare dal nord della striscia di Gaza mesi fa ma combattono contro fame e bombe. Ahmed considera l’operato di Columbia e del Governo americano interconnessi, perché «entrambi hanno modo di fare la loro parte per fermare certi crimini contro l’umanità ma hanno scelto di essere complici della violenza di Israele».

Diverse persone di fede ebraica, come Aharon Dardik, il fondatore del movimento “Jews for Ceasefire”, concordano: «Un numero consistente di ebrei all’interno dei campus d’America sostiene l’idea che il futuro del nostro popolo e del popolo palestinese sia nella stessa regione», dice. Dardik dice di non essere a conoscenza di alcun episodio antisemita all’interno del campus, ma altre testimonianze raccontano storie diverse.

Vicino alle tendopoli, a parlare con i giornalisti, c’è l’attivista Khymani James, ripreso settimana scorsa a coordinare una catena umana per non far accedere un gruppo di studenti israeliani nelle aule dell’università. James ha fatto scandalo per un video di gennaio in cui diceva che «i sionisti non meritano di vivere». Scusandosi, ha giustificato le sue parole dicendo di essere stato aggredito verbalmente da un gruppo online perché afroamericano e dichiaratamente omosessuale. Secondo Asher, uno studente ebreo di Columbia, è questa retorica violenta ad aprire le porte della discriminazione all’interno del campus. Al Corriere del Ticino racconta di essere stato aggredito da un manifestante la sera dello sgombero della polizia, il 18 aprile: «Si è fermato di fronte a me mentre scappava e con fare minaccioso mi ha detto: “Sono di Hamas e prima o poi ucciderò te e la tua famiglia”».

«From the River to the Sea»

La sera del raid è cambiato tutto, con le lezioni trasferitesi spesso online e lo zoccolo duro dei manifestanti pro-Palestina a prendere di petto gli episodi più estremi e isolare le frange più violente, spesso giunte dall’esterno dell’università. A non essere cambiato è però l’uso del canto “From the River to the Sea” (tradotto: “Dal fiume Giordano al mar Mediterraneo”), molto usato nelle proteste di questi giorni. Secondo lo storico americano Robin Kelley, la frase nacque come slogan sionista per indicare i confini dello stato di Israele agli albori della sua nascita, tanto è vero che il concetto apparve in un manifesto del partito politico Likud, oggi guidato da Netanyahu, nel 1977. Ma lo slogan, prolungato ora con le quattro parole “Palestine will be free” (“La Palestina sarà libera”) è entrato in possesso del movimento palestinese per rivendicare il ritorno ai confini sotto il controllo britannico della Palestina prima del 1948.

Quale che sia la lettura storica, Omer Lubaton-Granot, un ricercatore di Columbia che si dice preoccupato del silenzio forzato di molti in università, impauriti a prendere una posizione sul tema, non ha dubbi: è uno slogan che non aiuta nessuno. Omer è il coordinatore del forum “Hostages and Missing Families” che fa rete per aiutare le famiglie vittime dell’attacco di Hamas del 7 ottobre. Quel giorno suo cugino è stato ucciso e sua cugina presa in ostaggio, ma lui non si scompone. Rappresenta il prototipo dell’elettore americano di religione ebraica e di fede politica liberal che dice sì alla soluzione a due stati, è a favore dell’autodeterminazione dei popoli e capisce le sofferenze provocate dalla guerra a Gaza per i civili. «Ma chi canta quello slogan dubito sia interessato alla pace o comprenda il ruolo di Hamas, anche per i palestinesi», dice. Nonostante le frange più violente siano state isolate, Omer non si sente più sicuro a camminare per le strade del quartiere vicino a Columbia, dove suo figlio va all’asilo e lui vive con la moglie. «Lo vedi quell’uomo?», dice riferendosi a un manifestante che, con il volto coperto da un passamontagna, subito fuori dal campus mostra un cartello «Israele ha ucciso 15.000 bambini». «È mascherato di nero, ma mica per motivi religiosi: lo fa per intimorirci. Per come la vedo io, se sei orgoglioso delle tue battaglie non hai bisogno di nascondere la tua identità».

In queste ore, diversi sit-in all’interno di università a Austin, Los Angeles, Minneapolis e Boston sono stati sgomberati con la forza dalla polizia o dalla guardia nazionale dei singoli Stati. Ma questo non sembra aver fermato gli studenti - e i loro professori, alcuni dei quali arrestati - che continuano ad annunciare l’avvio di nuovi accampamenti in ogni parte del Paese. Intanto, mentre a New York i sit-in aumentano – nelle ultime 48 ore sono stati avviati a New York University, City College e The New School –, a Columbia continuano le negoziazioni. Le parti hanno detto di aver fatto progressi giovedì sera mentre un ultimatum agli studenti da parte della rettrice Nemat Shafik è stato prolungato fino a questa mattina.