L'intervista

«Non vogliamo fare concessioni interne su temi senza alcun nesso con i bilaterali»

A colloquio con il presidente dell'USAM Fabio Regazzi
© CdT/Gabriele Putzu
Giovanni Galli
28.04.2024 14:45

Martedì a Berna Fabio Regazzi sarà rieletto per altri due anni alla presidenza dell’Unione svizzera arti e mestieri (USAM), la più grande organizzazione mantello dell’economia in rappresentanza di oltre 600 mila piccole e medie imprese. Un’occasione per un bilancio dei primi quattro anni al vertice dell’organizzazione e per parlare dei problemi aperti, dai negoziati con l’UE alla tutela del mercato del lavoro, al canone radiotelevisivo.  

Dal COVID, che ha caratterizzato l’inizio del suo mandato, ai problemi interni per la nomina del nuovo direttore, che ha segnato l’ultimo anno. Qual è il bilancio del suo quadriennio?
«È stato un periodo molto intenso, iniziato in piena pandemia con le misure restrittive decise dalla Confederazione, che toccavano da vicino anche il settore produttivo, e proseguito con i contraccolpi della guerra in Ucraina, come i problemi energetici e i rincari. Come vertice dell’associazione mantello più grande del Paese (ndr l’USAM rappresenta più di mezzo milione di imprese e le associazioni economiche cantonali) siamo stati messi molto sotto pressione. Ma è stato anche un lavoro entusiasmante. Dal profilo personale il bilancio è positivo».     

Per la prima volta l’USAM, che ha una forte impronta svizzero-tedesca è presieduta da un ticinese. Ha incontrato difficoltà?
«Non sono il primo presidente latino. Va ricordato che il mio predecessore era un friburghese, Jean-François Rime, il primo francofono a presiedere l’associazione sempre guidata in 150 anni da svizzero-tedeschi. All’inizio ho percepito una certa diffidenza, che però è stata superata. Il modo con cui ho affrontato la crisi interna per la nota questione della direzione ha contribuito a far sì che venga riconosciuto a tutti gli effetti come presidente». 

Il caso Henrique Schneider, l’allora vicedirettore designato direttore e poi costretto a lasciare prima di entrare in carica per le accuse di plagio, ha lasciato scorie?
«La mia priorità era di salvaguardare l’immagine dell’associazione. Non ci potevamo permettere di avere come direttore una figura così discussa. Il bene principale dell’associazione è la credibilità. Comunque, non ci siamo certo basati sulle speculazioni giornalistiche, abbiamo fatto verificare le accuse tramite un mandato esterno e agito di conseguenza. C’è chi ha voluto delegittimare il comitato chiedendo la revoca della decisione da parte del «parlamento» interno. La nostra linea è poi stata avallata a larga maggioranza. È stato un periodo difficile, non lo nego, ma ora la questione è alle spalle e guardiamo avanti con fiducia. Il 1. maggio inizierà il nuovo direttore Urs Furrer».

A Bruxelles sono in corso i negoziati per un nuovo accordo con l’UE. Qual è la posizione dell’USAM? La Svizzera va bene e sta meglio dell’Unione, è davvero così fondamentale avere un’altra intesa?
«L’approccio a pacchetto del Consiglio federale è una buona soluzione ed è sicuramente impostato meglio del precedente fallito accordo quadro. Non abbiamo preclusioni. Il 40% delle piccole e medie imprese è orientata all’export. Una quota importante dei nostri membri ha interesse a una soluzione duratura. Ma restano ancora punti critici. Una volta terminati i lavori faremo una valutazione complessiva. Sull’importanza economica non ho dubbi. L’UE è il nostro principale partner e gli accordi attuali si stanno erodendo. In diversi ambiti andrebbero aggiornati. Siamo aperti a compromessi, ma non siamo d’accordo con i sindacati che stanno sfruttando l’occasione per conseguire obiettivi interni che esulano dal trattato con Bruxelles, come i salari minimi nazionali e le condizioni per dichiarare obbligatori i contratti collettivi di lavoro».  

Che cos’è più importante per voi? Mantenere la flessibilità del mercato del lavoro o un accordo con l’UE?
«Vogliamo mantenere l’attuale livello di protezione del mercato del lavoro ma non intendiamo fare concessioni interne senza alcun nesso con gli accordi bilaterali. I sindacati cercano di sfruttare la loro posizione di forza per portare avanti rivendicazioni di lunga data. Al momento, quindi, dico no. Ovviamente, dovremo fare una ponderazione una volta pronto l’accordo fra Berna e Bruxelles. Ne discuteremo al nostro interno, dove convivono sensibilità diverse. Sarà un processo abbastanza complicato. Senza dimenticare che alla fine ci sarà comunque una decisione popolare». 

Le regole sulla protezione del mercato del lavoro sono sufficienti e adeguate. Il mercato del lavoro flessibile è uno dei punti di forza della nostra economia

Perché le richieste dell’USS vanno troppo lontano?
«Le regole sulla protezione del mercato del lavoro sono sufficienti e adeguate. Il mercato del lavoro flessibile è uno dei punti di forza della nostra economia. Non c’è necessità di cambiare. La questione dei salari minimi va affrontata in un’ottica federalistica. Quanto ai CCL deve rimanere la contrattazione dei partner sociali. Legare gli accordi con Bruxelles a rivendicazioni sindacali interne è scorretto e strumentale».

Come giudica il fatto che l’USS si sia ritirata dal tavolo di lavoro?
«Lo trovo deludente. L’USS è sempre stata coinvolta. Ora sbatte la porta e se ne va con argomenti a mio avviso pretestuosi. È una prova di forza che denota una certa arroganza».

Il suo omologo di Economiesuisse Christoph Mäder ha fatto dichiarazioni critiche sull’immigrazione e ha auspicato che l’UE faccia concessioni alla Svizzera. Lei condivide l’idea di una clausola di salvaguardia?
«Il tema deve essere affrontato. Il problema esiste ed è ovvio che la Svizzera, grazie agli alti stipendi e al benessere che garantisce, è un Paese molto attrattivo per gli abitanti della zona UE. Una clausola di salvaguardia a tutela del nostro Paese potrebbe indubbiamente contribuire ad aumentare il grado di accettazione di questi accordi quando ci sarà la votazione popolare. Sarà tuttavia difficile che ci venga riconosciuta questa eccezione ma bisogna per lo meno provarci, anche perché gli argomenti li abbiamo.

In settembre si voterà sul secondo pilastro. Qual è la posizione dell’USAM ora che per finanziare la 13. AVS si prospetta già un aumento del costo del lavoro?
«Sosteniamo la riforma, seppur a denti stretti. In fin dei conti ci sono più vantaggi che svantaggi. D’altra parte, il costo della manovra è il prezzo da pagare per dare risposte in termini di previdenza ai bassi salari, in particolare alle donne impiegate a tempo parziale, che finora sono la categoria più penalizzata. Certo che se si continuerà ad aggiungere prelievi sui salari, la situazione diventerà critica, specie nei settori più deboli. Al nostro interno c’è già chi, alla luce della recente decisione popolare sull’AVS, ha chiesto di rivedere la presa di posizione sulla previdenza professionale».

Perché il mondo economico fa così fatica a far passare le sue posizioni a livello popolare?
«I tempi sono molto cambiati da quando le associazioni economiche esprimevano un preavviso e le urne rispondevano di conseguenza. Far passare i nostri messaggi è sempre più difficile. La sinistra è molto abile a livello comunicativo, sicuramente più di noi. Si pensi alla 13. AVS. Solo qualche anno fa non avrebbe avuto la benché minima chance. Certo, ha beneficiato di fattori contingenti che noi non potevamo influenzare, come l’inflazione che ha ridotto il potere di acquisto della popolazione e in particolare del ceto-medio. Paradossalmente, la sinistra ha anche più mezzi finanziari di noi. Non è il fattore decisivo, ma aiuta. Non ho ancora una risposta su come invertire la tendenza. Ma il problema c’è e va affrontato». 

Quando ho assunto la presidenza, i rapporti fra USAM e Economiesuisse, ma anche con l’Unione Svizzera degli imprenditori erano pessimi. Basti ricordare i dissidi personali emersi in occasione della campagna di voto sulla responsabilità delle imprese

Il mondo dell’imprenditoria paga le divisioni interne?
«Ci sono state, ma la situazione è molto migliorata. In proposito, posso rivendicare il merito di avervi contribuito. Quando ho assunto la presidenza, i rapporti fra USAM e Economiesuisse, ma anche con l’Unione Svizzera degli imprenditori erano pessimi. Basti ricordare i dissidi personali emersi in occasione della campagna di voto sulla responsabilità delle imprese. Per me era inaccettabile. Poi sono stati fatti progressi. È stato creato anche il gruppo di interessi "Perspektive Schweiz", che raggruppa le tre associazioni mantello dell’economia anche l’Unione conta. C’è la consapevolezza di serrare le file. È inevitabile che esistano divergenze. L’obiettivo non è di mettere d’accordo tutti. Ma nell’80% dei casi abbiamo posizioni comuni. In altri ambiti, come ad esempio nel caso dei dazi industriali, vi erano delle divergenze ma siamo riusciti a trovare un compromesso. Ci sono e saranno invece temi sui quali non riusciremo a trovare un accordo. Bisogna semplicemente farsene una ragione e accettarlo, ma questo non mette in discussione la validità della nostra alleanza».   

Come valuta la proposta del consigliere nazionale del PLR Simon Michel, anch’egli imprenditore, di aumentare provvisoriamente di 1 punto percentuale l’imposizione delle persone giuridiche per finanziare le spese militari?
«Di principio siamo contrari agli aggravi fiscali sulle aziende. Se del caso consulteremo la nostra base, ma non credo che questo genere di proposta possa ottenere consensi fra i nostri associati».

L’altro giorno la Commissione della politica di sicurezza, di cui fa parte, ha proposto un contributo straordinario per finanziare l’esercito senza sottostare ai vincoli del freno all’indebitamento. Lei è d’accordo?
«Purtroppo, non ho potuto essere presente a questa seduta. Ammetto di essere rimasto sorpreso da questa decisione. Personalmente sono molto scettico ma prima di esprimermi definitivamente voglio analizzare bene la proposta e confrontarmi con i colleghi del mio partito che l’hanno sostenuta».

Questione canone. Che cosa farà l’USAM? Continuerà a sostenere l’iniziativa sui 200 franchi o prenderà in considerazione anche la proposta del Governo di 300 franchi?
«L’iniziativa sui 200 franchi prevede l’esenzione delle aziende dal pagamento del canone, un obbligo che riteniamo iniquo e ingiustificato. La mia iniziativa sull’esenzione per le PMI è stata respinta dal Parlamento. Se fosse stata accolta come USAM ci saremmo ritirati dalla futura campagna sui 200 franchi. Quanto alla proposta di compromesso del Consigliere federale Rösti abbiamo già espresso la nostra contrarietà, visto che si limita ad aumentare la soglia di esenzione in base alla cifra d’affari. È un’operazione di cosmesi che non modifica la sostanza delle cose. La palla è ora nel campo del Governo e del Parlamento. La nostra posizione è chiara: se non sarà tolto il canone almeno per le PMI sosterremo l’iniziativa».