Luganese

La lotta giudiziaria dietro a un presunto insulto su Instagram

Una giovane che si ritiene offesa da un commento pubblicato sul social da un ex compagno di liceo con cui aveva rapporti pessimi ha ottenuto la promozione dell’accusa malgrado un non luogo a procedere del magistrato inquirente
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Federico Storni
12.03.2024 06:00

Un commento, forse diffamatorio, e tre «mi piace» sotto a un post su Instagram, ruggini liceali sullo sfondo e il desiderio della presunta vittima di avere giustizia, di veder condannato per diffamazione il quartetto, anche contro il parere di chi quell’indagine era chiamato a istruirla. Sono questi gli ingredienti base di una vicenda che sta impegnando da ormai oltre un anno e mezzo magistratura e tribunali, con la persona che si ritiene diffamata che per due volte ha ottenuto ragione dalla Corte dei reclami penali: «Si giustifica che il caso venga esaminato e deciso da un giudice - si legge nell’ultima decisione della CRP, pubblicata negli scorsi giorni e risalente a metà novembre. - Al magistrato inquirente è chiesto di procedere con l’emanazione di un decreto di accusa» nei confronti del quartetto, «atto che questa Corte può ordinare».

Il contesto

La vicenda ha origine un paio d’anni fa: la giovane denunciante, residente nel Luganese, era stata intervistata in seguito a un lavoro per cui aveva ottenuto un riconoscimento, e l’intervista era stata pubblicata su Instagram, dove un suo ex compagno di scuola aveva postato il commento incriminato, poi «piaciuto» agli altri tre, pure ex compagni. Quanto al commento (nel frattempo rimosso dalla piattaforma), si trattava di un «insulto a sfondo sessuale», a detta della denunciante. Un insulto «oscuro» però, tanto che la giovane afferma di aver appreso solo dopo due mesi da un amico cosa esattamente significassero quelle parole, e questo pur avendo cercato delucidazioni anche sui motori di ricerca, senza successo. Di conseguenza anche la querela è giunta tardi. Ma non tardivamente. Meglio: era stata ritenuta tardiva dal procuratore pubblico Zaccaria Akbas, titolare dell’incarto, ma la giovane aveva ricorso e la CRP le aveva dato ragione, riconoscendo un raro caso di «querela dislocata nel tempo».

Le versioni

Stabilito che vi erano le premesse per indagare, Akbas ha esaminato il caso e optato per un non luogo a procedere, ritenendo - come riassume la CRP - che il presunto insulto «non era atto a esporre la giovane al disprezzo in quanto essere umano. Non era infatti pensabile sostenere che con tale commento ella fosse stata incolpata o resa sospetta di condotta disonorevole o di un fatto che nuocesse alla sua reputazione. Sicuramente era un commento infelice e probabilmente non era inteso come complimento; altrettanto sicuramente non rendeva la persona disprezzabile dal punto di vista del suo valore come essere umano».

Di diverso avviso la ragazza, che ha ricorso di nuovo alla CRP contro il non luogo a procedere, sostenendo che la conclusione del pp sarebbe «soggettiva, superficiale, errata e arbitraria». La giovane, riassume la CRP, «non accetterebbe che la sua integrità sessuale e psichica venga così danneggiata. Chiederebbe solo giustizia e correttezza. Avrebbe sperato che gli autori del reato si ravvedessero e si scusassero con lei. La circostanza che non l’avrebbero fatto, dimostrerebbe che l’intendimento dei querelati era quello di nuocere. Non si sarebbe trattato di una battuta da spacconi o da faciloni, ma di un vero e proprio attacco cattivo e vile al suo onore. Attacco che avrebbe avuto purtroppo successo, perché l’avrebbe ferita nel profondo del suo animo. Per questo avrebbe inoltrato la querela».

La decisione

Da tutto ciò, la CRP ha concluso che vi siamo gli elementi per promuovere l’accusa. Per portare cioè il caso davanti a un giudice per un giudizio di merito. Secondo la CRP infatti il termine in discussione è stato utilizzato «con il fine evidente di colpire e umiliare» la giovane. Nemmeno ha convinto la Corte, presieduta dal giudice Nicola Respini, la tesi del giovane che ha postato il commento per cui esso avesse in realtà accezione positiva: «Non spiega le ragioni per cui, in quel contesto, avrebbe dovuto rivolgerle tali commenti positivi. A dire della reclamante, infatti, i querelati avrebbero avuto con lei rapporti più che pessimi, circostanza che chi ha scritto il commento non contesta».

Come detto, la sentenza è di qualche mese fa. Da allora, ci conferma il Ministero pubblico, il procuratore Akbas ha dato seguito alle indicazioni delle CRP. Ma non vi è ancora una decisione cresciuta in giudicato.