Un Primo Maggio per restituire dignità al lavoro
Chi non ricorda l’emozione, ma soprattutto la gioia del primo giorno di lavoro? Chi ha avuto la fortuna di trovare una occupazione ricorda inoltre la speranza unita a quella sensazione di stabilità dettata dall’avere una busta paga alla fine mese. Quella speranza del primo giorno per molti si è lentamente sgretolata. E il «posto sicuro» è diventato unicamente un mezzo per portare a casa i soldi necessari per vivere. Fa davvero impressione sentire un ragazzo - non tutti fortunatamente -alla prima esperienza dire che vuol lasciare l’ufficio o la fabbrica prima dei sessant’anni perché non ha più passione, non crede in quello che fa, lo ritiene vuoto, non è soddisfatto. Se dunque si vuole sottrarre alla retorica la festa del Primo maggio che si celebrerà anche quest’anno nelle piazze, bisognerebbe riflettere a fondo su questo aspetto: la qualità dell’occupazione.
E bisogna farlo partendo da un dato: viviamo in una società malata dove si è smarrito il senso profondo del lavoro, dove il mercato chiede sempre più alle aziende che per restare a galla ed essere competitive alzano l’asticella degli obiettivi ai loro collaboratori e creano nel contempo ambienti tossici, con dinamiche interne che finiscono per incattivirsi. Chi ha la corazza e riesce a reggere l’urto (soprattutto psicologico) di queste dinamiche si salva, gli altri sono tagliati fuori. Non per nulla sono aumentati enormemente i casi di burnout, non per nulla ci sono lavoratori che affollano i Centri del sonno negli ospedali e nelle cliniche, tanti non riescono a chiudere occhio durante la notte. Si sta creando una realtà in cui il lavoro espropria la vita, diventa totalizzante. Ecco, davvero vogliamo andare avanti per questa strada? O è necessario un patto sociale che guardi al lavoro come strumento capace di offrire alle persone la possibilità di realizzarsi e alla società di crescere? Serve un patto per eliminare le profonde disuguaglianze - a partire dalla condizione delle donne, alla precarietà, alla mancanza di adeguamenti salariali davanti a all’inflazione - che se lasciate macerare innescheranno conflitti.
Offrire condizioni di lavoro migliori anche sul piano salariale vuol dire evitare le «fughe di cervelli» e valorizzare i talenti, significa guardare al futuro economico, sociale e culturale. Diverse «aziende modello» da tempo stanno battendo strade alternative, partendo dal «valore sociale» del lavoro, che vuol dire «responsabilità sociale», che vuol dire che i lavoratori sono un capitale, un «capitale umano» come amano dire gli economisti. E che appunto il «valore sociale» del lavoro supera il normale rapporto contrattuale fra aziende e dipendente e sconfina nel territorio dove si vive portando benessere.
Non sempre è facile. Soprattutto oggi dove si assiste a un aumento della longevità legato a un calo della natalità; in definitiva si vive di più ma nascono pochi bambini rispetto a ieri. Questo fenomeno porta riflessi su più piani: in quello delle casse dell’Avs, in quello delle casse pubbliche con meno gettito d’imposta, in quello delle città con meno popolazione e delle aziende che non trovano certe professioni (pensiamo solo alla ristorazione). Per questo oggi più che mai è necessario reinventarsi, adeguare l’offerta scolastica. E per questo serve flessibilità e capacità di adattarsi ai tempi nuovi. Oggi ci sono facoltà che sfornano disoccupati di lunga data e altre dove gli studenti non fanno in tempo a discutere la tesi che già hanno in tasca una proposta di lavoro. Domanda e offerta viaggiano sempre più a due velocità e se non si troverà un aggiustamento, una messa a fuoco rapida, ci sarà una carenza in molti settori.
Davanti a queste dinamiche la politica ha una grossa responsabilità. Può dettare le regole, indicare le strade da percorrere, agevolare chi vuole impegnarsi davvero per cambiare. In questo Primo maggio bisogna ricordare a tutti che la dignità del lavoro è il metro che misura la civiltà raggiunta da un Paese.