L'incontro

Dall'Afghanistan all'USI, storia di Parwiz

Studiosi, giornalisti ed ex politici provenienti dall’Afghanistan si incontrano in tutto il mondo, per architettare la struttura di un governo democratico
© CdT/Chiara Zocchetti
Matteo Casali
29.11.2024 06:00

Abbiamo incontrato Parwiz Mosamim, dottorando e assistente universitario all’USI, per parlare del futuro dell’Afghanistan e della diaspora che cerca di discutere e progettare un possibile assetto democratico per la Nazione. Parwiz è nato e cresciuto in Afghanistan e lì ha conseguito un Bachelor in Giornalismo. Ha poi lavorato come giornalista per alcuni anni. In seguito, si è trasferito in Indonesia e ha completato un Master in Public Administration. Durante il programma di Master, ha ricevuto una borsa di studio dall’ETH di Zurigo per scrivere la sua tesi sulle barriere che le donne afghane impiegate come funzionarie pubbliche incontrano all’inizio del processo d’integrazione. Questa esperienza ha stimolato il suo interesse nel continuare il dottorato in Svizzera. Dopo l’esperienza elvetica, ad aprile 2021, si è recato in Afghanistan per visitare la famiglia. Tuttavia, la situazione nel Paese era deteriorata, ciò lo ha costretto a tornare in Indonesia. Dopo il collasso del Governo afghano, Parwiz non poteva tornare a casa, a causa dei gravi rischi che correva in quanto giornalista e ricercatore.

Un canale di comunicazione

Una rete speciale chiamata Scholars at Risk (SAR) - la quale promuove un sistema internazionale di istituzioni e individui che cerca di proteggere accademici minacciati e trovare loro posizioni lavorative alle università partner della rete - è riuscita a creare un canale di comunicazione tra Parwiz e l’USI. Alla fine del 2021, il giovane ricercatore è stato accolto all’Università della Svizzera italiana, come candidato al PhD (dottorato) nel gruppo di ricerca condotto dal professore Jean-Patrick Villeneuve nell’Istituto di comunicazione e politiche pubbliche.

Il 20 settembre scorso, Parwiz ha partecipato a una conferenza a Washington chiamata Diversity and Inclusion in Afghanistan, ospitata da 8AM Media, un giornale indipendente afghano con sede nella capitale statunitense. «L’Afghanistan è una Nazione molto diversificata in termini di etnia, linguaggio e cultura», ci spiega il ricercatore. «Se guardiamo alla storia, uno dei principali fattori che hanno causato il collasso dei regimi era che i leader non hanno rispettato e capito quanto sia profondamente variegato il nostro Paese. Gli svariati gruppi etnici vogliono essere inclusi e partecipare nel processo politico, cosa che sfortunatamente non accade di questi tempi».

Il regime talebano

Gli Stati Uniti hanno lasciato l’Afghanistan nel 2021, a 20 anni dall’invasione del Paese a seguito degli attentati alle Torri Gemelle dell’11 settembre 2001, lasciandosi alle spalle un’eredità controversa e permettendo ai talebani di tornare al potere. «I talebani hanno la loro interpretazione di governo islamico, che non è la stessa di altri Stati musulmani. Per esempio, hanno impedito alle donne di ottenere impiego in questa amministrazione. Loro hanno una propria interpretazione della Sharia, un’interpretazione errata. Non permettono alle donne di studiare; ciò è completamente contro gli studi islamici! Perché l’Islam incoraggia chiunque a educarsi, donne e uomini». Parwiz vuole approfondire il tema, per chiarire il funzionamento del gruppo dei talebani: «Hanno un progetto politico: stanno stabilendo un modello di governo che dal loro punto di vista è unico e non si trova in Medio Oriente. I militanti hanno combattuto per vent’anni, poiché i loro leader glielo hanno ordinato, allo scopo di governare con una visione distorta della società; si può così capire come sia difficile apportare riforme, perché i combattenti potrebbero dire “Per quale motivo abbiamo combattuto se poi ci indirizziamo verso la visione occidentale di democrazia?”. Questo è anche uno dei motivi per cui i talebani raramente si confrontano con la comunità internazionale».

Conferenza a Washington

Come molti si aspettavano, non c’erano rappresentanti dei talebani alla conferenza di Washington, ma Parwiz e gli organizzatori erano soddisfatti dell’evento: «È stata un’iniziativa utile e necessaria, poiché i talebani non sono ancora riconosciuti internazionalmente. Stiamo cercando di farci ascoltare e di promuovere un governo democratico e inclusivo. La diaspora afghana sparsa nel mondo vuole assicurarsi che la comunità internazionale conosca meglio la realtà del nostro Paese. Ho vissuto lì 22 anni, perciò conosco molto bene l’Afghanistan, e come molti altri posso informare i politici stranieri con una prospettiva diversa e accurata. Noi, in quanto afghani che hanno avuto la possibilità di studiare, abbiamo il dovere di informare. Se stiamo in silenzio, nulla cambierà». Buona parte della discussione era sul tema dell’inclusione e della diversità, e Parwiz ci dà alcuni numeri: «In questo caso l’inclusione riguarda il ruolo delle donne nella nostra Nazione. Dall’arrivo dei talebani, la loro condizione è peggiorata, sia in pratica, sia nell’immaginario collettivo. Prima del collasso ad agosto 2021, quasi il 28% delle posizioni dell’amministrazione pubblica apparteneva a donne, un numero molto incoraggiante. In aggiunta, occupavano anche l’11% degli incarichi in posizioni di leadership nel settore pubblico, e il 27% del Parlamento era composto da donne. Tutto questo è stato cancellato da un regime estremista. Ragazze e donne non sono nemmeno accettate nelle scuole e nelle università, inoltre la loro libertà sociale è stata limitata severamente. I talebani stanno a tutti gli effetti implementando una politica d’apartheid di genere».

Dialogo in America?

Abbiamo domandato se organizzare una conferenza negli Stati Uniti, un Paese che li ha invasi, abbia causato malumore tra i partecipanti. Il nostro interlocutore ha risposto senza esitazione: «Dopo il collasso del governo precedente, gli accademici afghani, giornalisti, ex politici, così come tanti altri, sono fuggiti dal Paese e vivono ora sparsi per il mondo. Negli ultimi tre anni, ho viaggiato in svariate città come Ginevra, Doha, Antalya, Istanbul e ora Washington. È una mia e nostra responsabilità avere conversazioni libere, ed eventualmente comunicare agli americani che le loro policy non funzionavano e stavano facendo solo il loro interesse, non il nostro. Ad ogni modo, la politica statunitense è importante per noi, perché negli ultimi vent’anni ha cercato di stabilire un governo democratico in Afghanistan; perciò, abbiamo bisogno di discutere negli Stati Uniti e in qualsiasi altro Paese. Personalmente invece, sono un ricercatore, dunque quando ho delle scoperte, devo condividerle, non solo con la comunità accademica». Il giovane ricercatore ha un punto di vista razionale su come funziona la politica internazionale: «La politica sfortunatamente è un gioco, quando invadi una Nazione, ci sono molti interessi da tenere in considerazione. Pensa ai costi come l’equipaggiamento dei soldati, armi, veicoli, con un’intera industria dietro a questo meccanismo. Il clima di tensione era già sparso in tutto il Medio Oriente all’inizio del secolo, ma se si guarda ai fatti, nessuno degli attentatori dell’11 settembre era afghano. Le basi di Al Qaeda erano presenti in Afghanistan con il benestare dei talebani, questo è un fatto molto grave, ma anche se l’obiettivo primario era sradicare il terrorismo nella regione, perché dopo l’uccisione di Bin Laden nel 2011, che oltretutto accadde in Pakistan, gli americani non hanno lasciato il Paese, ma ci sono stati per altri dieci anni? Era forse per sfruttare le nostre risorse? Oppure per avere una presenza militare in un’area strategica della regione? Chi lo sa».

Vita in stato di guerra

Abbiamo avuto la possibilità di sentire dalla fonte come è stato crescere in Afghanistan durante questi decenni tumultuosi. «Quando uscivo di casa la mattina, non ero sicuro di tornare salvo la sera. Era orribile sentire, di continuo, esplosioni oppure colpi d’arma da fuoco. Un messaggio importante è che tutte queste avversità non mi hanno fermato dall’ottenere una buona educazione e cominciare a lavorare. Sono fortunato di avere avuto la possibilità di studiare, perché da dove vengo c’è un grande problema di analfabetismo. L’alfabetizzazione è molto importante, perché grazie a essa le persone possono essere più consapevoli, fare scelte calcolate e non essere manipolate».

Speranza per il futuro

Parwiz è felice di dirci che in Ticino e all’USI ha trovato un ambiente sicuro dove vivere e lavorare. «Qui posso continuare la mia ricerca in tutta libertà e partecipare a conferenze, dibattiti, viaggiare senza limitazioni. C’è anche un’associazione afghana, durante l’anno ci si incontra e abbiamo momenti di riflessione e discussione sul nostro Paese». Lui crede che l’Afghanistan troverà la giusta strada verso un futuro più luminoso: «Chiunque, anche i talebani, devono essere inclusi in un nuovo governo democratico. Una rappresentazione varia dev’essere garantita. Conferenze come quella di Washington ci aiuteranno nel cammino verso la pace e la democrazia».

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