La pressione politica di Donald Trump spinge l’Europa verso la difesa comune
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È noto come, quasi sempre, i numeri contraddicano e smentiscano le sensazioni, le impressioni. Come la realtà apparente sia distante da quella vera. E come quest’ultima, nonostante tutto, faccia fatica a imporsi. Perché le convinzioni, quando si fanno profonde, mettono radici. E sono complicate da estirpare. Prendiamo, ad esempio, la questione della difesa comune europea, di cui moltissimo si sta parlando in queste settimane dopo le esternazioni del presidente americano Donald Trump sulla necessità che i 27 Paesi dell’Unione spendano il 5% del loro prodotto interno lordo in armamenti.
Le parole di Trump hanno indotto molti a pensare che l’Europa sia all’anno zero, o poco più, nelle politiche di difesa e che la NATO sia finanziata interamente, o quasi, da Washington. Falso. I soli Paesi dell’Unione europea hanno speso per la difesa, lo scorso anno, 326 miliardi di euro. Per capirci, 54 volte più di quanto ha fatto la Svizzera. Se si considera anche il Regno Unito, la cifra complessiva supera i 400 miliardi di euro.
Uno studio dell’Osservatorio dei conti pubblici (OCPI) dell’Università Cattolica di Milano, pubblicato 5 giorni fa, ha rivelato come la spesa militare europea, a parità di potere d’acquisto, sia stata nel 2024 superiore a quella russa del 58%: 729,8 miliardi di dollari internazionali (cosiddetti PPP) contro 461,6.
Indipendenti dagli USA
«È del tutto evidente che gli Stati dell’Unione europea, assieme al Regno Unito, spendono decisamente più della Russia. Ma la questione è: per che cosa lo fanno? - dice al Corriere del Ticino Massimo Bordignon, ordinario di Economia pubblica alla Cattolica di Milano, già consulente economico della presidenza del Consiglio italiano durante il Governo di Mario Draghi e attuale consulente della presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen - In questa fase storica, sarebbe bene che gli europei riuscissero a mettere in piedi un sistema di difesa comune. Per ragioni di sicurezza e per diventare, in qualche modo, indipendenti nei confronti dell’alleato americano. Perché è chiaro che siamo nella NATO e ci rimarremo, ma i messaggi che provengono dagli Stati Uniti di Trump non sono troppo rassicuranti».
Questa discussione, spiega Bordignon, non è nuova. «Va avanti da moltissimo tempo. In Europa, c’era stato un tentativo, immediatamente dopo la Seconda guerra mondiale, di costruire una unione della difesa. Non se ne fece nulla per la resistenza francese. Ora, se anche fosse vero che la presidenza Trump è un incidente nel percorso della storia, e che in futuro torneremo a rapporti atlantici più tranquilli, è altrettanto vero che gli americani da sempre ci chiedono di spendere di più, di organizzarci meglio, di essere più autonomi sulla difesa».
Il caso ucraino, riflette l’economista toscano, è in tal senso indicativo. «Una delle ragioni per cui l’Europa è stata silente e non è riuscita a far molto, ad esempio in termini di proposte di pace, è perché non ha un esercito credibile, né una capacità di difesa che le permetta di colloquiare su questo tema. Il problema non è, a differenza di quello che si dice, la spesa, modo sbagliato di approcciare la questione. È, piuttosto, l’efficacia di questa spesa. Ciascuno Stato nazionale e sovrano ha interesse a difendere i propri produttori, non si fida ancora totalmente delle altre Nazioni, e così questa spesa si articola e si spreca in tanti rivoli, con la duplicazione di progetti o di sistemi d’arma. Se l’Europa investe sulla produzione di 20 carri armati diversi, quando gli Stati Uniti invece puntano su due o tre, ogni possibilità di rendimento di scala è vanificata. Non solo: l’Europa rinuncia pure ai potenziali vantaggi in termini di innovazione tecnologica. Inoltre, non c’è coordinamento nei sistemi di comando. Ci sono 27 eserciti separati, che restano tali».
Sistemi decisionali inadatti
È chiaro, allora, che fondamentale diventa la creazione di un solo esercito e di un sistema di difesa unico. Un passaggio che deve necessariamente passare dalla decisione di Francia e Gran Bretagna di «condividere, in qualche misura, l’arma nucleare. L’Europa in realtà, ha fatto alcuni tentativi negli ultimi anni - dice Bordignon - ad esempio, nel 2017 il Consiglio dell’UE ha creato la Permanent Structured Cooperation (PESCO) con l’obiettivo di sviluppare congiuntamente le capacità di difesa e condurre assieme progetti d’armamento e di interoperabilità delle forze armate; progetti cui, in alcuni casi, ha aderito anche la Svizzera. Purtroppo, però, finora non si è andati troppo lontano, anche perché non sono state investite sufficienti risorse. C’è bisogno di un accordo politico, altrimenti non si faranno veri progressi».
Un accordo politico che non è semplice. Tutt’altro. «Tra i 27 Paesi dell’Unione ce ne sono almeno un paio (Slovacchia e Ungheria, ndr) non in linea con una politica comune di sicurezza, Paesi che vorrebbero cioè allearsi con Vladimir Putin - sottolinea Bordignon - Se una delle grandi ragioni per fare la difesa comune è proteggersi dalla possibile aggressione russa, nei confronti soprattutto dei Paesi baltici o dei Paesi nordici, è ovvio che non possiamo metterci dentro chi persegue un obiettivo diverso. Inoltre, parlare di difesa comune in Europa senza coinvolgere in qualche modo il Regno Unito non avrebbe senso. In realtà, per fortuna, così come dimostra il vertice convocato da Keir Starmer a Londra per domenica, stiamo già andando in quella direzione».
Scelte strategiche
Intesa politica, quindi, e chiarezza nelle scelte strategiche. la prima cosa da fare, sostiene Bordignon, «è l’Iron Dome europea, la cupola di ferro. L’Europa non ha un sistema unificato di difesa missilistica simile a quello israeliano, per esempio. A fronte di un attacco dall’Iran o dalla Russia, non saremmo protetti abbastanza. Poi c’è il problema di unificare i comandi, di avere cioè una sola direzione militare. Ma, in prospettiva, bisognerebbe costruire progetti comuni anche su altri fronti. L’Europa ha un’eccellente industria di produzione di armi che tendenzialmente sono esportate verso Paesi terzi. Non produce per obiettivi propri, cosa che prospetticamente dovremmo invece fare, anche per recuperare i vantaggi tecnologici che spesso riescono a espandersi nel settore privato e nell’industria civile».
Le ultime mosse di Trump hanno costretto l’Europa a reagire. Sono state una sorta di shock, un po’ come la pandemia, che ha obbligato il mondo a fare scelte rapide. Trump sta imponendo all’UE di uscire dai suoi tentennamenti e dai suoi temporeggiamenti.
«È così - concorda Bordignon - Nell’Europa a 6 o a 12, i sistemi decisionali unanimistici potevano avere anche un senso e hanno comunque permesso di fare la moneta unica e altre cose. Gli stessi sistemi decisionali non sono adatti per un’Unione di 27 Paesi, alcuni dei quali di dimensioni, con tutto il rispetto, minuscole, ma con la possibilità di veto su molte materie. Ci vuole un salto di qualità. Dispiace soltanto che questo salto, in un certo senso, debba avvenire sul tema della difesa e su spinta americana. Ma il vero nemico di Donald Trump, in questo momento, sembra sia proprio l’UE, come ha scritto ancora l’altro giorno Martin Sandbu sul Financial Times. Un’Unione capace, speriamo, di mantenere saldi certi valori che contrastano la visione sostanzialmente imperiale, per zone di influenza, portata avanti dall’amministrazione USA».