Finanza, standard, distorsioni, investimenti

Il mondo finanziario è impegnato a promuovere investimenti sostenibili in termini di criteri ESG, ecologici, sociali e di governance, effettuando selezioni settoriali e di mercato anche sulla base di pressioni regolamentari più o meno soft se non addirittura di indirizzi ideologici che dovrebbero rimanere avulsi dal contesto finanziario, in quanto causa di distorsioni e di mancata efficienza degli investimenti.
Anni orsono Christine Lagarde, Presidente della Banca Centrale Europea (BCE) ebbe a dichiarare, quando a Francoforte si operavano acquisti selettivi di bond corporate, che l’istituto avrebbe dovuto, nelle sue decisioni, terner conto di non meglio definiti criteri di sostenibilità dell’emittente. Ovviamente gli esclusi sarebbero stati danneggiati per i maggiori costi di finanziamento. Ora il mondo bancario in generale si appresta a valutare i criteri ESG nella concessione dei crediti, escludendoli od appesantendone le condizioni sulla base di standard definiti da organismi burocratici ed autoreferenziali. Il rapporto fra mondo finanziario e sostenibilità, termine peraltro fumoso, è complesso. In tempi non sospetti Milton Friedman, padre dell’economia monetarista, affermava che lo scopo di un’azienda è il profitto, essa è responsabile verso i propri azionisti e non verso la società in generale. Ancorchè questa affermazione possa apparire radicale, è fuor di dubbio che un’allocazione dei fondi sulla base di criteri distorti od ideologici nuoce, a breve o medio termine, in termini economici, creando anche danni di tipo sociale.
I mancati investimenti nelle energie tradizionali, ad esempio, e l’enfasi utopistica posta su quelle rinnovabili, accrescerà il prezzo di petrolio, gas e delle stesse materie prime, scarse e di non sempre affidabile provenienza, necessarie per la transizione energetica. Tutto ciò per non parlare delle implicazioni di natura geopolitica che queste tendenze inducono. Fissare obiettivi di incerta raggiungibilità da parte di istituzioni sovranazionali burocratiche e non elette, in regime di «sovranità limitata» per i Paesi interessati, conduce anche a distorsioni di ordine sociale e, per rimanere nell’ambito finanziario, a pressioni inflazionistiche.
Per le aziende, oltre ai maggiori oneri ed alle eventuali esigenze di ristrutturazione e di accettazione passiva di normative talvolta arbitrarie, si pone un altro problema. E’ probabile che gli standard ESG così come fissati ed applicati dalle istituzioni dei Paesi avanzati come quelli europei (per non dire dalla Svizzera, che ama porsi sempre quale «prima della classe»), trovino invece interpretazione e soprattutto implementazione più flessibile ed accomodante su altri mercati con cui le nostre imprese sono in concorrenza. La transizione ha molti costi, non solo finanziari, tanto più alti quanto più i target sono ravvicinati e le risorse limitate, genera appetiti di natura fiscale (ad iniziare dalla tassa sul CO2 ma non solo), distrugge ricchezza e risparmio, finendo col pesare soprattutto sulle fasce più deboli della popolazione.