A metà strada fra cielo e terra lungo la Via dei Tubi
CAMOGLI/PORTOFINO - È come una gemma incastonata nel triangolo di territorio ligure delimitato dalle località di Portofino, Camogli e Santa Margherita. La gemma è uno smeraldo, con il verde dei suoi boschi e dei terrazzamenti, attraverso i quali scorrono sentieri adatti ai gusti di ogni escursionista e dove il contatto con la natura è molto stretto. Questa perla è il Parco di Portofino, un’oasi protetta che proprio quei comuni - Portofino, Camogli e Santa Margherita Ligure - hanno fortemente voluto quando sulle pendici del monte era stata ventilata l’intenzione di costruire una strada panoramica, a picco sul mare.
Correva il 1935, quando il Monte di Portofino divenne un’area protetta, su iniziativa delle autorità locali. Quindi, in piena epoca fascista, in tempi nei quali anche opporsi alla costruzione di una strada sarebbe potuto costare caro. Eppure, i liguri di quella zona l’ebbero vinta e quell’atto che ai nostri giorni possiamo considerare di grandissima lungimiranza ci permette di godercelo in santa pace. Magari non del tutto in pace, perché nella bella stagione il Parco è frequentatissimo da escursionisti e villeggianti che - gemma nella gemma - a piedi raggiungono la baia di San Fruttuoso per dare almeno un’occhiata alla sua abbazia medievale e bagnarsi nelle acque in cui si specchia.
In quella zona protetta del Levante ligure, dove le lucertole comuni hanno il dorso verde smeraldo, una particolarità tutta loro, si è sospesi fra natura e storia, fra mare e montagna. Un mix che permette proprio a tutti di godere il Monte di Portofino, fra l’altro importante fonte d’acqua già in tempi remoti. Non per niente l’abbazia di San Fruttuoso si è iniziato a costruirla nel X-XI secolo allo sbocco sul mare di una valletta percorsa da un ruscello, senza scordare la fiorente attività di mulini in un passato dove si macinavano castagne, si pestavano cortecce di albero per ricavarne il colorante con cui tingere le reti da pesca intessute con le fibre dell’erba lisca, a sua volta battuta grazie alla forza motrice dell’acqua per ricavarle.
Sì, l’acqua può proprio essere uno dei fili conduttori da seguire per andare alla scoperta del Monte di Portofino, come si può fare ammirando anche la flora che spazia da quella mediterranea a quella alpina, in un susseguirsi più unico che raro, in quel fazzoletto di terra. Lungo una novantina di chilometri di cammini e sentieri - alcuni dei quali dedicati esclusivamente agli appassionati delle escursioni in mountain-bike - si incrociano infatti ruscelli, fonti, fontanelle e pure lavatoi. Spesso era solo salendo a piedi lungo le sue pendici che le donne ai tempi potevano trovare l’acqua per lavare i panni, magari dopo essere partite in barca da Camogli per raggiungere l’approdo più vicino al sentiero che le avrebbe poi condotte al lavatoio.
Una storia di fatica e sudore fra le molte che ci racconta Valerio Lastrico, guida del Parco che abbiamo trovato grazie a Dafne, acronimo che sta per Divulgazione ambientale e formazione naturalistico-ecologica. A Valerio ci affidiamo - come obbligatorio - per percorrere quello che è uno dei cammini più spettacolari del Monte di Portofino. È la Via dei Tubi che segue le condutture dell’acquedotto che dalla parte alta della valle di San Fruttuoso portava l’acqua potabile fino a Camogli. Un’opera di circa cinque chilometri di lunghezza costruita in due soli anni fra il 1897 e il 1899, lavorando a mano con martelli e tagliando il versante più ripido del monte. C’è voluta anche la dinamite, per costruire quatto brevi gallerie nei tratti dove il conglomerato di Portofino era ancor più a picco sul mare. E se proprio non c’era neppure verso di ricavare un tratto in galleria, ecco che la condotta è stata agganciata alla roccia e per mettere i piedi sono stati solo abbozzati degli scalini. In tempi più moderni in quei tratti così esposti, dove gettando un’occhiata a valle quasi si vede solo il mare, le cui onde si infrangono alcune centinaia di metri più in basso.
«Qui siamo proprio a metà strada fra mare e cielo e anche a cavallo tra Alpi e Africa», spiega Valerio mentre facciamo una sosta lungo il cammino, dove i tubi sono interrati ma lo spazio per camminare è largo poco più di un paio di spanne, a occhio e croce. «Vedi, qui sulla sinistra, verso il mare, cresce l’erba lisca, usata una volta per costruire le reti da pesca e che è di origine africana. Su questa roccia a destra c’è invece una sassifraga, pianta che cresce nelle fessure delle rocce ed è tipicamente alpina», prosegue la nostra guida che aggiunge: «Le sorgenti e quindi le riserve d’acqua del Monte di Portofino si formano nelle fratture dell’omonimo conglomerato, che è molto impermeabile. A crearle non contribuiscono solo le piogge ma anche le nuvole che spesso vediamo rimanere impigliate nelle parti più alte del monte, pure durante l’estate. Le goccioline delle nubi condensano e ricadono a terra, per poi penetrare nel terreno e dare vita alle sorgenti».
Ecco quindi che lungo la Via dei Tubi ci sono zone umide particolarmente adatte agli anfibi, che qui vivono e si riproducono, proprio a strapiombo sul mare, dove forse meno te l’aspetti o credi sia possibile. «Facciamo attenzione, camminiamo solo sul tubo», dice Valerio quando affrontiamo l’ultima galleria, giusto prima di arrivare alla sorgente delle Caselle, nella parte alta della valle che porta giù verso l’abbazia di San Fruttuoso e segna la conclusione del nostro cammino. E il perché dell’accortezza - camminare sul tubo - è presto detto, una volta che siamo dentro, con tanto di pila frontale accesa per non andare a sbattere con la testa da qualche parte. «Queste, in questo filo d’acqua, sono uova di rospo. Qui nidificano pure rane e le salamandrine dagli occhiali, perciò dobbiamo proprio stare attenti a non fare danni, nell’acqua che si raccoglie ai lati del tubo».
La manciata di chilometri dello storico acquedotto, però, è anche un viaggio nella storia. Infatti, i primi passi del cammino, affrontato a partire dalla frazione di San Rocco sulle alture di Camogli, ci hanno portato a quel che resta delle batterie della Seconda guerra mondiale, volute dall’esercito italiano, dotate di cannoni antinave la cui gittata sfiorava i venti chilometri e mitragliatrici antiaeree. «Quest’opera difensiva è stata progettata e costruita dopo che la Royal Navy, la marina militare britannica, aveva bombardato Genova nel 1941, durante l’operazione Grog. Ma una volta diventata operativa, a quanto se ne sa, i cannoni di questa batteria non hanno sparato neanche un colpo. Anzi, addirittura i soldati italiani li avevano manomessi dopo che era stata rotta l’alleanza con i tedeschi, i quali si erano comunque impossessati di queste batterie, che avevano riparato rendendole nuovamente operative, anche se a conflitto ormai avanzato e soprattutto segnato».
Il Monte di Portofino, comunque, narra anche storie lontanissime nel tempo, risalenti a milioni e milioni di anni fa, quando l’uomo non era ancora nei progetti della natura, se possiamo dire così. «Il conglomerato di Portofino - racconta infatti Valerio a un certo punto dell’escursione - si è creato fra i 45 e i 20 milioni di anni fa. È composto da una base sabbia e calcare che contiene ciottoli di varia origine e natura che si sono cementati tra loro. Per immaginarci come siano andate le cose in quei tempi così remoti, possiamo immaginarci il letto e le sponde di un fiume dei nostri giorni, dove appunto troviamo sassi e sabbia più o meno fine che prima o poi potrebbero dare origine a un conglomerato dello stesso tipo, dopo essere stati mescolati e rimescolati dall’acqua nel corso dei millenni».
Un mesta e rimesta che un giorno potrebbe anche interrompersi, dando magari vita, con la morte altrui, a un’altra chicca del Monte di Portofino. «Ecco, vieni, guarda qui!», esclama Valerio Lastrico incuneandosi in una grotta appena abbozzata. «La vedi questa striscia nera che separa la parte inferiore del conglomerato da quella superiore. Per un certo periodo l’acqua ha smesso di scorrere ma è rimasta formando così una palude che ha ospitato degli esseri viventi, vegetali e animali. Questi morendo si sono depositati sul fondo della palude e grazie alla decomposizione si sono trasformati in questa striscia nera che stiamo osservando ora. E sai cosa è? È carbone!».
Il Monte di Portofino e l’omonimo parco sono proprio una gemma che non smette di sorprendere, percorrendoli passo dopo passo. E se davvero volete imparare a conoscerli a fondo, non possiamo che consigliarvi di affidarvi a una delle guide del Parco, magari una di Dafne. Vi garantiamo che ne vale assolutamente la pena, perché è continuo scoprire bellezze della natura e anche della storia, antica o meno che sia.