A Saigon cinquant’anni dopo
Itinerario
- 1° giorno Partenza per Hanoi
- 2° giorno Arrivo ad Hanoi e trasferimento a Bac Ha
- 3° giorno Bac Ha – Coc Ly – Sapa
- 4° giorno Sapa
- 5° giorno Lao Cai - Partenza per Hanoi con treno notturno
- 6° giorno Arrivo ad Hanoi e pomeriggio alla scoperta dello street food di Hanoi
- 7° giorno Visita di Hanoi
- 8° giorno Partenza per la Baia di Ha Long. Ci spostiamo con l'imbarcazione nella meno turistica baia di Lan Ha
- 9° giorno Ancora una mattinata di crociera prima di partire per Hanoi. Nel pomeriggio, volo per Da Nang
- 10° giorno Visita di Hoi An e al villaggio di Tra Que
- 11° giorno Partenza per Hue; lungo il percorso sosta al Museo dell'arte Cham di Danang
- 12° giorno Giornata dedicata alla visita di Hue e volo per Ho Chi Minh (Saigon)
- 13° giorno Partenza per i tunnel di Cu Chi e di Ho Chi Minh
- 14° giorno Escursione in barca attraverso il delta del Mekong e trasferimento in aeroporto
- 15° giorno Arrivo in Italia
Durata del viaggio: 15 giorni
Operatore turistico: Kel12
Oltre cinquant’anni fa, negli anni Settanta, nel corso di un viaggio in Asia mi recai per un paio di giorni a Saigon. Giovane studente in scienze politiche a Firenze e aspirante giornalista, attratto dai reportage di guerra di Tiziano Terzani e dell’inviato della televisione svizzera Leo Manfrini, mio modello di giornalismo, volevo vivere sul posto quanto loro descrivevano. Di fatto vidi poco: di giorno la vita in città trascorreva quasi normale. Non si poteva uscire dal centro, dove qua e là le vie erano sbarrate da trincee erette con sacchi di sabbia. La notte si sentivano spari in lontananza. Durante quell’estate erano in corso di pubblicazione, dapprima sul New York Times e in seguito anche sul Washington Post, i «Pentagon papers», un rapporto del 1967, quindi di qualche anno prima, commissionato a un gruppo di analisti del Pentagono dal segretario alla difesa americano Robert McNamara. In esso si parlava dell’impopolarità del governo autoritario del presidente sudvietnamita Diem e si affermava che le possibilità americane di vittoria in quella guerra erano scarse. Una realtà nascosta sia ai cittadini americani, sia al Congresso. Sappiamo tutti come quella guerra è poi andata a finire.
La Saigon di oggi
Oggi della città che i francesi definirono la «perla» del loro impero in Indocina rimangono numerose testimonianze, tutte molto ben restaurate: palazzi di fine Ottocento con grande fascino che ospitano prestigiosi alberghi, il teatro municipale, l’ufficio postale con un’architettura ispirata alle opere del famoso ingegner Gustave Eiffel, il municipio, la cattedrale, il grande viale Nguyen Hue, recentemente valorizzato e pedonalizzato, che veniva considerato i Champs Elysées d’Oriente. Accanto agli edifici storici si è sviluppata una città frenetica ed elegante, proiettata verso il futuro con grattacieli altissimi – come il recente Landmark 81 che si eleva per 460 metri – , business centers, supermarkets, ristoranti e caffè di ogni genere (non mancano McDonald’s e Starbucks), boutiques di lusso. Attualmente è in corso la costruzione di una metropolitana che dovrebbe attutire l’impatto di 8 milioni di motorini su una città di 13 milioni di abitanti. Ho Chi Minh City, come è stata ribattezzata dopo la riunificazione del Vietnam nel 1975, si presenta come una moderna e dinamica metropoli asiatica, di cui è emblema la Tour Bitexco: progettata dall’architetto americano Carlos Zapata, evoca la forma di un fiore di loto, dal cui bocciolo si gode una splendida vista a 360 gradi su tutta la metropoli.
La statua dell’eroe nazionale, a cui è stata dedicata la città, troneggia davanti al municipio sui Champs Elysées d’Oriente. Alla sua destra si erge il lussuosissimo hotel Rex, che al piano terreno ospita boutiques con alcune tra le marche più prestigiose al mondo. Alla sua sinistra sorge un centro commerciale di grande lusso, dove trovano posto altri brands internazionali, tra cui Rolls-Royce, presente con due costosissimi modelli, uno bianco e uno nero.
Cosa pensarà mai Ho Chi Minh di questo sviluppo? Gli occidentali sono stati insomma scacciati dalla porta dopo vent’anni di guerra di liberazione contro i Francesi (1946-1954) e quasi altrettanti contro gli Americani (1960-1975) e ora sono rientrati dalla finestra, portando però solo le caratteristiche peggiori della nostra civiltà – il consumismo – e non quelle migliori – lo stato democratico. In Vietnam, infatti, esiste un partito unico che non rispetta i diritti umani e non tollera nessun tipo di opposizione, né di critica, imprigionando attivisti e giornalisti (si consulti a questo proposito la Risoluzione del Parlamento Europeo del 21 gennaio 2021).
A proposito di atteggiamento nei confronti dell’Occidente, ho avuto spesso l’impressione durante il viaggio che il vero nemico sia ancora considerata la Cina, piuttosto che Francia e Stati Uniti. Forse in ricordo del millennio di dominazione, o delle invasioni al nord nel 1945 e nel 1979.
Man mano che ci si allontana dal centro si torna a respirare un'atmosfera più esotica legata all’antico mondo sino-vietnamita con il caotico mercato centrale e vie su cui si affacciano disordinati piccoli negozi che vendono merci di ogni genere. Senza dimenticare pagode e templi, testimoni di una storia millenaria. Tra tutti spicca la Pagoda di Giada, costruita dalla comunità cantonese all’inizio del Novecento e dedicata alla divinità taoista. Il taoismo, che pone l’accento sull’azione, l’intuizione e la spontaneità, fu importato in Vietnam da immigrati durante il millennio di dominazione cinese (111 a.C. – 939 d.C.).
Sul Delta del Mekong
Sul Delta del Mekong, a un centinaio di chilometri da Ho Chi Minh City, la vita scorre con un ritmo antico. Percorrendo questa regione in automobile o in barca si intravvedono templi e pagode in stile Khmer, cinese o vietnamita, a testimonianza delle diverse etnie che nel corso dei secoli hanno abitato queste terre. Si attraversano immense risaie, dove i bufali scorazzano nel fango e i contadini lavorano chini sui campi con i loro tradizionali cappelli a cono. Il Mekong, dodicesimo fiume più lungo al mondo, nasce in Tibet, attraversa la provincia cinese dello Yunnan, la Birmania, la Thailandia, il Laos e la Cambogia prima di giungere in Vietnam, dove si divide in un’infinità di affluenti e rigagnoli creando il territorio alluvionale che caratterizza il Delta, vasto quanto l’Olanda. Lungo questi numerosi flussi d’acqua, che sfociano nel Mare Cinese Meridionale, navigano imbarcazioni cariche di frutti di ogni genere, di noci di cocco e zucchero di canna. Grazie alle frequenti precipitazioni e alle acque limacciose degli affluenti queste terre sono infatti particolarmente fertili: vi cresce di tutto. Le merci un tempo venivano vendute in pittoreschi mercati improvvisati lungo i fiumi. Oggi, grazie alla costruzione di nuove strade e all’utilizzazione di motorini, i prodotti vengono commerciati nei mercati sulla terra ferma.
Man mano che ci si allontana da questo eden di campi coltivati, la natura tropicale, ai lati dei numerosi corsi d’acqua, diventa selvaggia e inospitale, come già la descrivevano viaggiatori cinesi nel XIII secolo.
Per tornare alle riflessioni sulla guerra, come non pensare a quei giovani Americani – per lo più neri o di umili origini latine – costretti a combattere un conflitto assurdo che non capivano, indossando abiti militari non adatti al clima caldo e umido del luogo, immersi in queste foreste preda delle imboscate dei Viet Cong. Prima degli Americani furono i Francesi ad occupare queste zone, di cui intuirono l’enorme potenziale economico già a metà Ottocento. Qui infatti, si raccoglie il riso tre volte all’anno, a differenza di quanto avviene nelle risaie del nord del paese al confine con la Cina, dove il raccolto si effettua una sola volta in autunno.
Nel 1975 sul Delta del Mekong il regime comunista vincitore della guerra impose per un decennio il regime della collettivizzazione. Ma l’esperimento diede pessimi risultati e a partire dal 1986 si tornò alla distribuzione della terra ai contadini e nel giro di pochi decenni il Vietnam è diventato il secondo paese esportatore di riso al mondo.
L’influenza della cultura Khmer in questa regione è dovuta al fatto che il Delta fino al XVIII secolo faceva parte dell’impero cambogiano, che lo definiva «Cambogia inferiore». Nel 1978 il governo dei Khmer rossi di Phnom Penh rivendicò questo territorio, ma il 25 dicembre dello stesso anno l’esercito vietnamita invase la Cambogia e destituì quel governo. La forte presenza cinese nella regione è invece dovuta a un’immigrazione legata alla caduta dell’impero Ming nel XVII secolo nel paese del dragone.
I tunnel di Cu Chi
A una cinquantina di chilometri da Ho Chi Minh City si trovano i tunnel di Cu Chi, una rete di gallerie sotterranee che si diramava per 250 chilometri ed era collegata con la pista Ho Chi Minh, che dalle montagne del nord del paese scendeva a sud attraversando Laos e Cambogia allo scopo di garantire supporto logistico ai Viet Cong del sud. La rete di gallerie giungeva fino alla città, dove gli Americani avevano la loro base. Simbolo della tenacia dei Viet Cong, questi tunnel sono il frutto dell’ingegno rurale contro la potenza militare. La tecnica, fondamentale per l’esito del conflitto era quella di nascondersi sotto terra per difendersi dai colpi dell’artiglieria, emergere dal sottosuolo per contrattaccare di sorpresa e scomparire di nuovo nel nulla. Si trattava di una sorta di città sotterranea scavata nel terreno argilloso sopra il livello del fiume, con cunicoli larghi 60 centimetri e alti 80 che portavano a spazi più ampi – a una profondità di 10-12 metri – adibiti a dormitori, cucine, sale riunioni, ospedali, latrine. Le entrate erano sempre ben camuffate e all’interno le condizioni di vita erano difficilissime a causa della mancanza di ossigeno, del caldo, dell’umidità, del buio, della convivenza con topi, serpenti, scorpioni, millepiedi, formiche. Eppure alcuni Viet Cong ci hanno vissuto per mesi, nutrendosi di foglie e radici, dato che le risaie erano state distrutte dai diserbanti chimici. Per evitare di venire individuate le cucine erano collegate con lunghi tubi sotterranei di canne di bambù che uscivano in superficie solo quando il fumo si era ormai già raffreddato. I marines cercavano le botole d’ingresso ai tunnel – strettissime e ben mimetizzate – impiegando i cani. Per ingannare il loro olfatto i Viet Cong le ricoprivano di pepe. Quando questo espediente venne scoperto, rubarono sapone americano dalle caserme per ingannare i cani offrendo loro un odore noto.
A beneficio dei turisti che li visitano, alcuni tunnel originali sono stati rialzati fino a 1 metro e 40 e allargati a 80 centimetri, ma risulta comunque ostico percorrerli.
Per i soldati americani, di corporatura più robusta rispetto ai vietnamiti, questi cunicoli risultavano praticamente inaccessibili. L’esercito USA era al corrente della loro esistenza, ma non riuscì mai a distruggerli, nonostante vari tentativi con bombardamenti e con l’introduzione di gas tossici, acqua o soldati minuti. Il presidente Diem per impedire il collegamento dei tunnel con i villaggi, che garantivano cibo e armi ai Viet Cong arrivò persino a trasferire interi villaggi in accampamenti fortificati con file di bambù appuntiti. Ma non riuscì mai a bloccare l’attività dei guerriglieri, che godevano del sostegno della popolazione ostile al suo governo.
A Cu Chi sono pure esposte atroci trappole, che venivano camuffate sul terreno delle foreste, dove malcapitati marines finivano trucidati da frecce di bambù avvelenate.
Il Museo della guerra
Le cifre della guerra americana in Vietnam sono impressionanti. Si giunse nel 1969 a una presenza massima di 550 mila marines, con un turnover di 3 milioni di giovani inviati a combattere. Gli Stati Uniti hanno registrato 58 mila morti e 153 mila feriti e hanno riversato sul Vietnam 14 milioni di tonnellate di bombe contro i 5 impiegati nella seconda guerra mondiale.
Le perdite vietnamite sono più incerte: stime occidentali parlano di 1,5 milioni di caduti, mentre secondo il governo vietnamita il conflitto fece in totale 3 milioni di morti: 1 milione di soldati e 2 di civili.
La visita del museo della guerra è straziante e angosciante. Attraverso un percorso fotografico a temi si toccano con mano la brutalità e gli orrori del conflitto, che sono purtroppo quelli di tutti i confronti bellici: mutilazioni, torture, ustioni, malformazioni provocate dalle armi chimiche. La guerra è raccontata dalle vittime, ma anche da fotografi occidentali morti facendo il loro difficile e rischioso mestiere. Famosa la foto esposta della bimba che fugge nuda e terrorizzata lungo una strada con il corpo ustionato dal napalm urlando per il dolore. Oggi quella bimba è diventata un’ambasciatrice della pace per l’Unesco e vive in Canada. Un’ampia sezione del museo è dedicata ai movimenti pacifisti americani e di tutto il mondo che si sono battuti per la fine dell’intervento USA in Vietnam.
Per saperne di più
- Vietnam, Le guide Vert Michelin, Boulogne 2020
- Vietnam, Lonely Planet, Torino 2019
- Vietnam, Feltrinelli Rough Guides, Milano 2018
- Vietnam, Guide per viaggiare Polaris, Faenza 2018
- Vietnam, National Geographic Traveler, Milano 2019
- Vietnam, Le guide Mondadori, Milano 2019