L'isola di Brissago nasconde un tesoro (a tavola)

Esperienze in giro per il mondo, origini portoghesi. No, non stiamo parlando né di Magellano né di Vasco da Gama sebbene anche lui, in un certo senso, sia un avventuriero. Del gusto e dei sapori. Da quattro anni Joao Antunes è sbarcato all’Isola di Brissago, dove tra le piante esotiche che popolano questa meraviglia naturale è lo chef di Villa Emden, l’unico ristorante svizzero di alta gastronomia su un’isola, dove però la cucina non si perde nella scenografia. Botanica, ricerca, contaminazioni e rigore etico: è questa la formula che gli è valsa il titolo di Chef emergente dell’anno secondo la guida Gault&Millau Svizzera.

João, un premio importante, in un contesto del tutto particolare: non temi che la location finisca per pesare più dei piatti?
Me lo chiedo anch’io, a volte. È vero, l’isola colpisce subito. Ma proprio per questo, lavoriamo ogni giorno per fare in modo che i piatti restino impressi tanto quanto il paesaggio. Il contesto può affascinare, ma se il piatto non emoziona, l’esperienza non regge. L’isola non è una scusa, è uno stimolo a fare meglio.
La tua cucina si basa su erbe, foglie, fiori: non rischi di cadere nel cliché «verde = sostenibile»?
È un rischio, sì. Ma qui il verde è sostanza, non solo immagine. Non mettiamo un fiore nel piatto per bellezza: ogni elemento ha una funzione. Lavoriamo con quello che l’isola ci dà, dalle erbe spontanee alle fermentazioni. La sostenibilità non è un’etichetta: è attenzione quotidiana, anche alla coerenza tra luogo e piatto.
Hai lavorato in mezza Europa. Come si concilia quel bagaglio con una cucina locale?
Cerco un equilibrio. Non voglio importare ingredienti esotici, ma evocare suggestioni globali con ciò che cresce qui. Magari uso un’erba che sa di ostrica, o una foglia dal profumo tropicale. Così creo un ponte tra le esperienze vissute in viaggio e questo luogo unico.

Lavorare su un’isola: poetico o faticoso?
Entrambe le cose. Se c’è vento forte, la barca non parte. I fornitori devono adattarsi ai nostri ritmi. Ogni giorno è una sfida. Ma poi arrivi, senti il silenzio, cammini tra le piante... e tutto ha senso. Anche per i clienti: il tragitto in barca è già l’inizio del viaggio.
La tua è una cucina di ricerca. Come scegli le materie prime, specie quelle più difficili, come il pesce di lago?
Cerchiamo di valorizzare anche le parti considerate meno nobili. Non solo filetto, ma lische, pelle, interiora: tutto può avere un senso se trattato con rispetto. Il pesce di lago è delicato, complesso, va capito. Ma può regalare emozioni e gusti incredibili. Collaboriamo con pescatori locali e costruiamo i piatti attorno a ciò che arriva, non il contrario. È un lavoro di ascolto, prima che di tecnica.
Chef emergente dell’anno: un importante premio individuale. Ma nella tua cucina si percepisce l’importanza del lavoro di squadra.
Sono consapevole che da solo non vado da nessuna parte. La cucina è lavoro di gruppo, di fiducia, di collaborazione. E poi c’è la mia famiglia: loro sono il mio equilibrio. Quello che mi permette di avere la libertà per essere creativo al lavoro ed esprimermi al meglio.
Ti senti parte di una nuova generazione di chef svizzeri?
Sì, e mi fa piacere. C’è un bel movimento, fatto di cuochi giovani che vogliono fare le cose con più etica, più consapevolezza. Meno ego, più rispetto per il prodotto. Penso a colleghi come Marco Campanella, Federico Palladino, Piero Roncoroni: condividiamo valori forti. La tecnica serve, certo, ma non basta. Serve una visione.
Qual è la prossima tappa del tuo viaggio gastronomico?
Vogliamo continuare a crescere. Consolidare quello che funziona, sperimentare ancora. Ogni stagione sull’isola è diversa, e offre nuovi spunti. Il vero obiettivo? Che chi viene da noi torni a casa con qualcosa in più. Un’emozione, un gusto mai provato, o magari solo la memoria di un’erba che non sapeva nemmeno esistesse.
