Martin Dalsass va in pensione: «E pensare che sono finito in cucina per caso»
Al ristorante l’ultimo piatto è importante come il primo. Perché un dessert sbagliato può rovinare un’intera cena. Lo sa bene Martin Dalsass, come potrebbe non saperlo uno chef dalla lunga e fulgida carriera come la sua. Una carriera di oltre 40 anni che lo scorso 17 ottobre è però terminata. «Fino all’ultimo istante dell’ultimo servizio mi sono concentrato sul lavoro. Ma a dire il vero lo sono anche adesso: questa è una grande famiglia e per questo voglio esserci ancora per Kevin Fernandez, che prenderà il mio posto in cucina».
Prima al Santabbondio di Lugano e dopo a St.Moritz con il Talvo, Dalsass è stato uno dei grandi protagonisti dell’alta gastronomia svizzera. E pensare che è tutto nato per caso. «Avevo terminato la scuola di piastrellista in Alto Adige e avevo già trovato impiego in un’azienda. Soltanto che, pochi giorni prima di cominciare, il titolare si era ammalato gravemente e quindi è saltato tutto. Dopo essere rimasto senza lavoro, mio padre ha scoperto che un albergo in Val Badia cercava un apprendista cuoco: mi ha comprato due paia di pantaloni e due giacche e mi ha accompagnato in quella struttura, dove appena arrivato mi hanno messo in una camera che era poco più di una cantina. Avevo 15 anni ed è andato via senza dire nulla, soltanto anni dopo mi disse che mi avrebbe riportato subito a casa».
Un segno del destino, che quindi non è stato affatto facile da cogliere. «Non solo per l’alloggio, anzi quello era il minore dei problemi. All’inizio facevo tutto tranne che cucinare: mi mandavano in giro per l’albergo a pulire e fare lavori di manovalanza. Avrei voluto mollare perché non mi piaceva per niente, ma ripensavo ai sacrifici fatti da mio padre per comprarmi i vestiti da usare a lavoro e ho resistito. Dopo qualche mese ho però avuto l’opportunità di fare, all’Hotel Laurin di Bolzano, la scuola da cuoco e finalmente mi sono ritrovato in cucina. E mi sono subito innamorato di questa professione, tanto che in quel 5 stelle ho cominciato a fare le stagioni». Fino all’arrivo in Svizzera, a 19 anni. «I primi sei mesi da mia zia, a cucinare solo rane che erano la sua specialità, e dopo al Bellevue di Gdstaad, che mi ha fatto capire quanto fosse alto il livello che avrei dovuto raggiungere se avessi voluto fare per bene questo mestiere. È stato come un secondo apprendistato». Che lo ha portato, intorno ai 30 anni, a decidere di mettersi in proprio, arrivando così in Ticino. «A Gdstaad stavo benissimo: il lavoro mi piaceva e nel tempo libero potevo dedicarmi alle mie passioni come il tennis, lo sci e l’arrampicata. Ma sentivo che il mio ciclo era finito, avevo bisogno di nuovi stimoli. C’erano diverse opportunità, ma la migliore mi era sembrata quella del Grotto del Renzo di Sorengo, che ho poi trasformato nel Santabbondio».
Un’esperienza, quella luganese, lunga 26 anni e che segnerà inesorabilmente la sua vita professionale e pure quella personale. «Lugano mi è piaciuta sin da subito, anche perché ha molto punti in comune con Bolzano, dalla natura alla presenza del lago, ma soprattutto per l’anima italiana che convive con un ordine un po’ più nordico. E poi ho conosciuto tante persone che col tempo sono diventate grandi amici e con le quali ho condiviso esperienze indimenticabili nei miei viaggi in montagna e in giro per il mondo. Da chef-patron ho anche capito la responsabilità nei confronti del personale, non solo durante le ore lavorative. Ad esempio, chi viene da lontano a Natale può rischiare di sentirsi solo, ho sempre cercato di coinvolgerli anche in quei giorni per non sentire il distacco dai propri cari. Ed è grazie allo spirito di unione che siamo riusciti a superare le difficoltà, come nel 2001 quando, a causa della chiusura del Gottardo, il lavoro si era dimezzato. Sarebbe stato più facile mandare a casa qualcuno, o rinunciare alla qualità delle materie prime: ma per me ogni passo indietro sarebbe stata una giustificazione per non dare il meglio, sarebbe stato contro i miei principi».
Coerenza e valori che hanno permesso a Dalsass di ottenere una stella Michelin, 18 punti Gault Millau e il premio di Chef dell’anno. «Senza ipocrisia, i premi fanno estremamente piacere ma non ho mai impostato un menù con l’idea di ricevere un riconoscimento. Semplicemente perché se si lavora in quel modo e poi i premi non arrivano si rimane delusi, ho preferito che il primo riconoscimento fosse quello di avere il ristorante pieno di clienti che si trovano bene e non vedono l’ora di tornare, andando a dormire con la consapevolezza di aver fatto il meglio e di non dover fare i salti mortali per pagare i collaboratori a fine mese. Inoltre credo nella bellezza dell’imperfezione: le cose fatte troppo bene rischiano di diventare noiose, io ancora ho voglia di emozionarmi».
Forse è proprio perché le cose andavano troppo bene anche a Lugano che lo chef altoatesino ha cercato nuove emozioni a St.Moritz. «Il Santabbondio praticamente andava da solo. Ormai mi sentivo imbrigliato in una routine che rischiava di impigrirmi, mentre sentivo la voglia di sperimentare ancora e trovare nuove declinazioni per la mia cucina. Quando sono arrivato al Talvo, con il proprietario abbiamo parlato di tutto tranne che di ristorazione: ho capito subito che sarebbe stato il posto giusto. E infatti sono in Engadina da 13 anni: un’esperienza bellissima dove, pur con tutto l’affetto e la gratitudine che nutro verso il Ticino, non mi sono mai guardato indietro. Anche perché è nella mia indole non rimuginare sul passato ma guardare avanti».
Ma adesso come si guarda avanti? «In questo lavoro non si va mai realmente in pensione. Non fosse altro che almeno in casa bisognerà pur cucinare… In generale ho avuto la fortuna di fare per tutta la vita un mestiere che è una passione, se vedrò un’occasione interessante la coglierò volentieri. Che sia per cento o per quattro persone, in un ristorante lussuoso o in un grottino con amici: l’unica cosa che conterà è quella di vivere insieme belle esperienze».