Le ostriche, prelibatezze che ti portano il mare in bocca
Il santo
precetto degli appassionati di ostriche è che il mollusco vada mangiato unicamente
nei mesi con la erre. Dunque da settembre ad aprile, compreso gennaio, perché
quando si parla di ostriche il pensiero corre alla Francia, Paese che vanta una
lunga tradizione nell’ostricoltura. E lì gennaio fa janvier…
Se c’è un
periodo nel quale procurarsi delle ostriche anche al supermercato è
facilissimo, questo è quello delle festività di fine anno, durante il quale
anche i diffidenti si lasciano tentare, complice il concetto che lega il
consumo di questo cibo all’immaginario erotico e alla tradizione gastronomica.
In verità,
non è vero che nel corso dei mesi estivi non si possano consumare le ostriche,
ma bisogna sapere che in quel periodo il mollusco si riproduce, approfittando
di un mare più caldo, e diventa un po’ lattiginoso, il che a qualcuno a livello
gustativo può procurare un po’ di fastidio. Nessun pericolo però per la salute,
come per anni qualcuno ha cercato di far credere.
Questa
storiella delle ostriche da consumarsi solo nei mesi con la erre nasce essenzialmente
per due motivi: il primo legato alle condizioni igieniche e di trasporto del
mollusco nel corso dell’Ottocento, che in estate non erano certo paragonabili a
quelle che abbiamo oggi grazie alla possibilità di controllare la temperatura;
il secondo che si rifà invece alla proibizione di raccogliere le ostriche
durante il periodo della riproduzione, decisa da Re Luigi XIII nel XVII secolo,
per proteggere le coltivazioni dall’impoverimento dei banchi a cui erano
sottoposte a causa del largo consumo.
Un po’ di storia
L’ostrica è
comparsa milioni di anni fa e i primi ad allevarla furono i cinesi. Anche gli
antichi greci sembra che ne fossero ghiotti, per non parlare dei romani. Verso
la fine del ‘600 sono segnalate piccole coltivazioni nei pressi de La Rochelle
in Francia, dove si allevava soltanto una specie, l’ostrica piatta (Ostrea
edulis), ma eravamo assai lontani da un’idea di ostricoltura dai grandi numeri,
che comincia solo dopo la metà dell’Ottocento, quando la riproduzione naturale
delle ostriche era messa a repentaglio dal vasto consumo e sul bacino di
Arcachon per le coltivazioni si cominciò ad importare ostriche dal Portogallo (Crassostrea
angulata) dette ostriche concave (o huitres creuses).
L’ostrica
portoghese era scarsamente considerata dai francesi e si diffuse alla grande
per due motivi: dapprima perché un carico che stava andando a male venne
scaricato in mare dal comandante di una nave che non riusciva ad attraccare per
le cattive condizioni meteo. Le ostriche che sopravvissero trovarono buone
condizioni sulle coste francese e proliferarono. Fu una fortuna per i
coltivatori di Francia che amavano soprattutto l’ostrica piatta (detta anche
Belon), la quale venne decimata da una malattia nel 1920/21. La portoghese
prese allora il sopravvento, ma fu a sua volta vittima di un’epidemia negli
anni ’70 del secolo scorso e la sua presenza venne integrata con quella di
un’ulteriore varietà importata dal Giappone.
Per farla
breve, oggi in Europa abbiamo a che fare con due tipi di ostriche, la piatta e
la concava, e la Francia è il Paese maggiormente implicato nella loro produzione
e commercializzazione, grazie a bacini di allevamento che si situano in sette
zone: la Normandia, la Bretagna del Sud e quella del Nord, la Loira, le
Marennes-Oleron, il bacino di Arcachon (nei pressi di Bordeaux) e quello del
Mediterraneo situato nell’Etang de Thau poco lontano da Montpellier. I dati
europei dicono che la produzione è al 70% francese, il 20% irlandese e il 10%
italiana, proveniente grosso modo da due zone, quella sarda di San Teodoro e
quella veneta situata sul Delta del Po, che produce una qualità eccellente
denominata ostrica rosa per le particolari striature della conchiglia.
Per farle crescere ci vogliono anni
Premesso che parlare di ostriche è un po’ come parlare di vini, con denominazioni di origine, “cru” particolari, label assegnati dalle differenti zone di produzione, insomma, roba da intenditori, è importante sapere che prima di arrivare in tavola uno di questi molluschi deve crescere nell’acqua per anni. Tra i mesi di giugno e agosto le ostriche madri lasciano le piccole larve in balia della corrente e queste nel giro di due settimane si fissano su corpi duri presenti nel mare. Gli ostricoltori le catturano con degli speciali collettori (tegole, tubi di cemento, ardesie, conchiglie infilate su delle corde), sui quali una volta appiccicata la larva sviluppa la conchiglia. All’incirca dopo 8 mesi le piccole ostriche hanno raggiunto la dimensione di 4 cm e hanno bisogno di più spazio per svilupparsi. Dopo essere state separate una per una, perché altrimenti non potrebbero svilupparsi, le baby-ostriche vengono portate nei parchi marini, dove ingrassano e in tre o quattro anni, sempre dopo diradamento, sono pronte per essere commercializzate e consumate. Alcune però vengono ulteriormente affinate in bacini ricchi di plancton e in acque meno salate: sono definite “claire” o “fines de claire” e crescono meglio quando sfruttano le acque dolci di qualche estuario, come avviene nel distretto francese di Marennes-Oléron dove passa il fiume Seudre. Da qui arrivano quelle che gli intenditori definiscono le migliori ostriche al mondo.
La misura dell’ostrica, che concorre a determinare il suo prezzo, si fissa in calibri. Per le ostriche concave si va da 5 a 0, dove il cinque sta per un’ostrica che pesa tra 30 e 45 grammi (la meno pregiata) e lo zero indica invece una misura di oltre 150 grammi. Analogo discorso per l’ostrica piatta, dove il calibro 0 indica però un peso tra 80 e 90 grammi e dunque si va oltre, fino al triplo zero, che significa un peso tra 100 e 140 grammi.
Freschezza assoluta
È il presupposto necessario per poter mangiare le ostriche. E la freschezza assoluta si trova ad una sola condizione, ossia che l’ostrica sia viva al momento dell’apertura. Il consiglio è di comprare la confezione intera, che permette di verificare la data del confezionamento, invece delle ostriche singole che potrebbero essere state dimenticate dal pescivendolo.
Di regola, se le valve sono già aperte prima del consumo e nella conchiglia non c’è acqua è meglio buttarle per non incorrere in gravi problemi intestinali. Si capisce, dunque, che per vivere le ostriche necessitano assolutamente della presenza di un po’ d’acqua nella conchiglia e l’ostricoltore le allena a questo scopo, vuotando e riempiendo i bacini in concomitanza con le maree due volte al giorno. Quando non sono sott’acqua, le ostriche trattengono il liquido serrando le valve e in questo modo si preparano ad affrontare il viaggio che le porterà sulla tavola del consumatore. Quanto riescono a sopravvivere fuori dall’acqua? Da un minimo di dieci giorni a due settimane.
E come si mangiano allora questi prelibati molluschi che
qualcuno ritiene afrodisiaci? Qui le opinioni divergono. Intanto c’è la
categoria dei “crudisti”, quella secondo i quali un’ostrica va sempre e solo mangiata
cruda. E se il galateo dice che andrebbero mangiate con una forchetta apposita (c’è quella per le
ostriche, piuttosto piatta e con rebbi larghi), la maggior parte degli
estimatori considera che la miglior soluzione sia quella di «succhiare»
l’ostrica direttamente dal guscio, senza far troppo rumore. Poi ci sono i puristi,
che considerano blasfemo qualsiasi condimento: si mangiano al naturale, punto e
basta, senza masticarle. La maggior parte di noi però aggiungerà due gocce di
limone e una spruzzata di pepe. Personalmente dico no al limone, che ne altera
il gusto di mare, e sì al pepe, ma con moderazione. Poi c’è il metodo francese,
da non trascurare, dato che in Francia sono veri intenditori: si assaggiano con
scalogno marinato in aceto, pepe e in accompagnamento a pane tostato con burro
salato. Napoleone le adorava condite con un’emulsione a base di poco olio,
sale, pepe, succo di limone e Cognac. Quante? In genere se ne servono sei a
testa, ma dipende dalla nostra voglia e dal nostro amore per un mollusco che non
solo è simbolo di raffinatezza e ci porta il mare in bocca, ma divide
profondamente: o lo si ama alla follia, o lo si detesta.
L’ostrica cotta? Certo, si
può e ci sono infinite ricette in proposito. Negli Stati Uniti va di moda
cucinarla sulla griglia, ma secondo me è un delitto.
Muscadet piuttosto che Champagne
E il vino? Anche qui pareri divisi. C’è chi dice che le bollicine
uccidono i sapori dell’ostrica e sia preferibile un bianco fermo, meglio se
Muscadet e meglio ancora se Sèvre et Maine, un bianco della Valle della Loira.
È di questo avviso anche Anna Valli, presidente della sezione Ticino dell’Associazione
Svizzera dei Sommelier Professionisti (ASSP). “Il Muscadet Sèvre et Maine è un
vino che sta parecchio sui lieviti e ciò gli conferisce un bel corpo e un bel
volume. Ha una grande sapidità e un tenore alcolico piuttosto basso. Il tutto
si sposa bene con le ostriche, che danno una bella succulenza con una tendenza
al dolce e una salinità molto pronunciata. Non solo, ma l’ostrica ha una
persistenza olfattiva e dunque necessita di un vino di carattere, molto
avvolgente” dice la sommelière.
Il classico abbinamento con lo Champagne è dunque bocciato? “Sì –
risponde Anna – perché secondo me è un abbinamento cliché, che richiama il
lusso, l’esclusività, ma occorre andare oltre. Lo Champagne con la sua
componente molto acida confrontato con la salinità dell’ostrica tende a creare
una sensazione metallica che a me non piace”.
Se proprio vogliamo abbinare alle ostriche una bollicina, meglio
allora un Franciacorta nella versione Saten, che è morbido e ha un finale dolce:
su questo punto è d’accordo anche Anna Valli, dalla quale arriva l’abbinamento
a sorpresa.
“Se vogliamo essere sconvolgenti, proviamo ad abbinare un ottimo
Moscato d’Asti con le ostriche”.
Chi scrive, dopo essere stato ospite dei produttori del Moscato in
Piemonte ed aver provato l’abbinamento, è un sostenitore dell’accoppiata Moscato-acciuga,
che sembra strana, ma ci azzecca di brutto: chissà, magari il Moscato funziona
davvero anche con l’ostrica, ma ammettiamolo, è necessaria una certa dose di
coraggio...