Il personaggio

I novant'anni di Giorgio Armani

Quello che si celebra l'11 luglio non è un compleanno come tanti altri: e questo perché Armani non è solo un marchio ma anche un uomo in carne e ossa con il suo stile, le sue idee e la sua azienda
©SEBASTIEN NOGIER
Stefano Olivari
10.07.2024 10:46

I novant’anni di Giorgio Armani, l’11 luglio 2024, non sono un compleanno come tanti altri. Perché lui non è solo un marchio internazionale comprato dall’Arnault o dal fondo di investimento di turno, ma un uomo in carne e ossa con il suo stile, le sue idee, la sua azienda conosciuta in tutto il mondo. Un’azienda che gli sopravviverà, se rimarrà fedele alle sue disposizioni testamentarie e a una storia iniziata nel 1974, quando Armani a un certo punto ha iniziato a lavorare per sé stesso dopo avere raggiunto il successo con Nino Cerruti.

Minimal

Le differenze fra Armani e gli altri grandi stilisti sono così tante che non si finirebbe di elencarle. La principale, a detta anche dei suoi antipatizzanti, è quel suo lavorare per sottrazione, da inventore di quello stile minimal che negli anni Settanta, Ottanta e Novanta non era certo prevalente nell’alta moda ma che poi lo è diventato. Sia al maschile sia al femminile. Per gli uomini Armani ha tolto rigidità alle giacche, intuendo con enorme anticipo che le differenze fra abbigliamento da lavoro e da tempo libero si sarebbero quasi annullate. Quindi giacche destrutturate, levando le imbottiture e lavorando sui dettagli, dalle tasche ai revers, senza mai esagerare. Esiste quindi nella moda l’uomo Armani, così come esiste la donna Armani: pantaloni morbidi, colori non troppo sgargianti, molto grigio, molto beige (e anche il greige), fino all’iconico tailleur. Un’alta moda con un valore in sé ma anche trainante per il prêt-à-porter, senza grandi strategie di marketing ma soltanto con la sensibilità necessaria per inseguire chi vuole essere sé stesso e non un manichino al servizio del vestito.

American Gigolo

Cosa sarebbe Giorgio Armani senza Richard Gere-Julian Kay? Sarebbe uno stilista famoso, perché nel 1980 già lo era, ma forse non sarebbe l’Armani entrato nell’immaginario collettivo per ciò che evoca e non soltanto perché riesce a vendere vestiti a gente benestante, come i principali concorrenti. Perché è in American Gigolo che nasce una nuova idea di uomo, attento a vestirsi bene senza essere effeminato e senza strizzare l’occhio a un’estetica gay. Lino e seta fanno la loro comparsa nel guardaroba maschile, che non è più una divisa o una serie di divise da indossare: la scena in cui Gere dispone gli abiti, le camicie e le cravatte sul letto per scegliere gli abbinamenti con cura è fra le più famose della storia del cinema. Armani c’era. Fra l’altro lui aveva vestito anche la prima scelta per il ruolo del protagonista, cioè John Travolta, che si tenne gli abiti di Armani e curiosamente ne diventò un testimonial gratuito quasi al pari di Gere, sfoggiandoli su tutti i red carpet.

Non francesi

Tanti grandi stilisti italiani e non solo italiani hanno venduto l’azienda per stanchezza, debiti, beghe familiari o umana voglia di monetizzare le fatiche di una vita. Per non parlare del motivo più convincente, cioè la morte, con eredi poco creativi o molto pigri. Impossibile mettersi a fare la storia di tutti, da Gucci (ora di Kering) a Versace (di Michael Kors), da Valentino (di Kering e di un fondo qatariota) a Fendi (LVMH), da Trussardi a tanti altri, ma interessante è anche vedere chi resiste. A partire ovviamente da Armani, allergico alla Borsa e alle architetture finanziarie: possiede il 99,9% della sua azienda, il cui ultimo fatturato ufficiale, quello del 2022, è di 2,35 miliardi di euro. È lui l’uomo simbolo di un’industria in cui l’aspetto umano e familiare è centrale: secondo un’inchiesta del Sole 24 Ore il 57% delle aziende italiane di moda che fatturano oltre 50 milioni di euro annui è di proprietà dei fondatori o degli eredi. Fra queste, oltre ad Armani, svettano Prada, nel 2023 4,7 miliardi di fatturato e per l’80% in mano alla famiglia, Dolce & Gabbana (dei fondatori e dei loro parenti al 100%), Missoni (per quasi il 60% in mano ai vari eredi) e Ferragamo.

Versace

L’unico vero rivale, percepito come tale da Armani, è sempre stato Gianni Versace. Ancora di più dopo la morte avvenuta nel 1997 a Miami per mano di uno squilibrato, che ha fatto entrare Versace nel mito e in ogni tipo di dietrologia. Se Armani cerca la perfezione, e vestiti in qualche modo eterni, Versace puntava molto di più sulla provocazione e sulla creatività fini a sé stesse. Entrambi si erano fatti da soli, partendo dal basso (Armani più in basso), ma avevano un’idea diversa di moda visto che Armani non si è mai ritenuto un artista incompreso, diversamente da Versace e della maggior parte dei suoi colleghi. La grande rivalità non era mai diventata odio quando Versace era vivo, anzi fra i due c’era una sorta di cameratismo. E proprio una confidenza di Versace, rivelata da Armani al Sunday Times nel 2015, gli ha procurato gli attacchi della sorella (di Versace) Donatella. In pratica Versace avrebbe detto ad Armani che loro erano complementari, con una frase abbastanza sintetica: «Io vesto le troie, tu le suore». Cioè quello che pensano, ma non scrivono, molti giornalisti di moda e non solo quando la sfilata è di Versace.

Gay

Armani non ha mai nascosto la sua vita privata, e del resto l’azienda è stata fondata insieme al compagno Sergio Galeotti, morto nel 1985, ma diversamente da altri stilisti non è mai stato un’icona gay. Anzi, non ci ha mai tenuto a esserlo, proponendo una moda per uomini e donne in senso biologico, senza entrare nel merito della loro sessualità. Altra frase celebre di Armani: «Un omosessuale è un uomo al cento per cento, non ha bisogno di vestirsi da omosessuale». Di sicuro Armani è sempre stato mal digerito dagli alfieri del politicamente corretto: non è da loro criticabile, ma il fatto di non essersi mai esposto politicamente ne ha fatto in automatico un personaggio di destra. Certo è che pur essendo profondamente milanese, e non solo perché risiede a Milano da quando ha 15 anni, non si è mai mescolato a quel mondo radical chic che in campo creativo decreta successi e insuccessi. Lui partendo come commesso della Rinascente il successo se lo è costruito da solo e volendo metterla sul piano dei soldi in questo inizio di 2024 risulta essere il terzo uomo più ricco d’Italia, dopo Giovanni Ferrero e Andrea Pignataro, con i suoi 11,1 miliardi di euro di patrimonio personale, ma davvero personale.

Futuro

Non è di cattivo gusto parlare del dopo Giorgio Armani, visti i 90 anni e soprattutto il fatto che lui stesso abbia già sistemato tutto per la successione fin dal 2016. Armani non ha figli e la sua lucidità ha tenuto alla larga i cacciatori di eredità. Pochi i parenti e tutti che da anni lavorano insieme a lui, per non dire sotto di lui: la sorella Rosanna, le nipoti Silvana e Roberta (figlie di Sergio, il fratello scomparso), Andrea Camerana (figlio di Rosanna e marito di Alexia, proprio l’Alexia di The Summer Is Crazy), più qualche collaboratore fidatissimo, su tutti Pantaleo Dell’Orco che per lui ha gestito anche l’avventura nella pallacanestro con l’Olimpia Milano, fra sponsorizzazione e proprietà arrivata a 20 anni. A prescindere dalle quote di legittima e dalle disposizioni di Armani, la parte fondamentale della successione è quella che riguarda la filosofia dell’azienda, che Armani ha delineato con precisione. Lo statuto rivelato qualche anno fa dalla Reuters, ma presumibilmente fatto circolare dallo stesso Armani, crea un’architettura societaria abbastanza complessa, con tre obiettivi: mantenere lo stile di Armani pur adattandolo ai tempi, difendere l’occupazione (il gruppo ha circa 8.700 dipendenti) e l’italianità del gruppo, non fare finanza ma limitarsi ad acquisizioni coerenti con un’azienda di moda. Tutto è definito nel dettaglio e la famiglia non sembra di quelle litigiose. Armani vuole essere eterno e forse ci riuscirà.