Nella testa dell'«alieno Mourinho»

Intervista a Sandro Modeo, biografo del tecnico lusitano
Oliver Broggini
18.03.2011 06:00

Vi proponiamo la versione integrale dell'intervista a Sandro Modeo, giornalista italiano e autore del libro «L'alieno Mourinho», recentemente apparso per Isbn edizioni. La versione breve di questo colloquio è pubblicata sul CdT di oggi.

Sandro Modeo, l'attualità ci obbliga anzitutto a parlare del povero Rafa Benitez – ormai ex allenatore dell'Inter campione del Mondo – caduto vittima dell'ingombrante eredità di Mourinho.

«Il "povero" Rafa Benitez – ottimo tecnico, forse il primo della "seconda fascia" quanto a valori assoluti – è stato vittima di un'incompatibilità biunivoca con l'ambiente Inter. Lui si è mosso un  po' come un elefante in una cristalleria, ignorando deliberatamente i metodi di training e coaching del predecessore (errore fatale, concausa della catena di infortuni) e pretendendo un impossibile riazzeramento; la squadra lo ha invece rifiutato dal principio, da una parte proprio per la cesura delle sedute di allenamento (più tradizionali e alienanti: fondo, carichi, e così via), dall'altra perchè ancora troppo legata affettivamente a Mourinho. In sintesi, il legittimo orgoglio professionale e personale di Benitez (la tensione a distiguersi da Mourinho, con cui peraltro i rapporti erano pessimi) è andato in collisione con un gruppo che ha poi reagito a sua volta in maniera radicale, con un boicotaggio – più o meno conscio – per cui Eto'o si è di recente scusato. Scuse tardive e inutili, perchè il rapporto Benitez-Inter è il caso classico in cui una contingenza sfavorevole trascende colpe e ragioni delle parti in causa».

Non le pare che l'allenatore spagnolo si sia trovato, suo malgrado, in un remake calcistico del film di Alfred Hitchcock Rebecca, la prima moglie?

«Nel libro, io evoco tanto Rebecca quanto La donna che visse due volte, discutendo per il rapporto Herrera-Mourinho. A  lungo all'Inter il post-Herrera è stato vissuto come un post-Rebecca, con le lettere HH idealmente impresse ovunque a perseguitare ogni successore, la cui unica colpa era proprio quella di non poter essere HH. L'irruzione di Mourinho – con tutti i paralleli col Mago – ha invece convinto molti che quel ritorno impossibile fosse diventato possibile: Mourinho reincarnazione di HH, l'"uomo che visse due volte". Forse, quello schema si è clonato: Mourinho è stato vissuto a sua volta come Rebecca. Ma la morale è che tifoseria e ambiente interista dovrebbero scuotersi una volta per tutte da questo incantamento; Mourinho non era la reincarnazione di HH, e oggi è improduttivo aspettare il suo ritorno (improbabile, anche se non impossibile)».

Il suo libro si concludeva con l'arrivo di José Mourinho a Madrid, e la prospettiva della gigantomachia contro il Barcellona di Josep Guardiola. È quindi d'obbligo, in apertura, un commento sull'incredibile esito del primo round di questa sfida, con il 5-0 per i catalani il 29 novembre scorso.

«Il 5-0 del 29 novembre è un round perso seccamente – per brutale ko – in un match " in lunga durata" che caratterizza l'avanguardia calcistica dei nostri anni: il sistema-Barca contro la prospettiva-Mourinho. Il sistema-Barca è il frutto del quarantennale trapianto olandese in Catalonia: dal '71 con Rinus Michels e dal'73 con Cruijff giocatore, anche se a essere pedanti già dal '69, col predecessore blaugrana di Michels, Vic Buckingham, inglese tra i padri Fondatori dell'Ajax e mentore di Cruijjff stesso. Quel trapianto si è armonizzato con la politica della "cantera" (il celebre vivaio), producendo molte squadre vincenti proprio sotto tecnici orange (il "Dream Team" del Cruijff tecnico, quella di Van Gaal, quella di Rijkaard) e sfociando nell'attuale squadra-monstre di Guardiola, ricca di talenti indigeni (Piquet e Busquets, Xavi, Iniesta e Pedro) e coronata da Messi (plasmato a sua volta nella "cantera"). Insomma, un progetto di coerenza e rigore unici».

E la prospettiva-Mourinho?

«È la concezione di un tecnico originale e innovativo, che ha rivoluzionato (col suo secondo Rui Faria) le metodiche di training e coaching, e ha prodotto a livello tattico una "sintesi" successiva alle rivoluzioni dello stesso Barça e del Milan sacchiano, con il possesso-palla alternato a una "scienza" delle ripartenze come risposta al pressing sistematico. Ora, l'incontro del  29 novembre è stato senza storia per vari motivi: un Barca rodatissimo contro un Real in corso d'opera; un ambiente blaugrana sovraccarico di risentimento dopo l' "onta" di Champions subita dall'Inter; l'avversione "ontologica" per Mourinho, nemico assoluto. Si tratta di vedere se il portoghese e i suoi hanno subito un ko traumatico – di quelli che compromettono tutto l'incontro, ovvero la stagione – o se sapranno riprendersi. Il recente cedimento in Liga – pareggio con l'Almeria e caduta con l'Osasuna – sembrerebbe lasciare aperto solo il discorso Coppe, la Champions e quella Nazionale. Nonostante le negazioni recise di Mourinho, quel 5-0 ha inciso in profondità, così come i successi a raffica del Barça (con molti gol segnati e pochissimi subiti) sembrano aver eroso le capacità di resistenza del Real. Però, con Mourinho, non si sa mai».

Perché, nello scrivere il suo saggio, ha scelto proprio l'«alienità» come chiave di lettura del protagonista?

«La metafora dell'alieno concentra tante forme di estraneità del protagonista: rispetto alla cultura e all'antropologia italiane, che infatti l'hanno rigettato come un sistema immunitario rigetta un agente patogeno; rispetto ai metodi di allenamento tradizionali e convenzionali (tanto che Benitez, per averne sottovalutate le implicazioni, ha finito col bruciarsi); e persino rispetto a se stesso, perché Mourinho – a dispetto della volitività e perentorietà esterne – è un tecnico in perenne evoluzione e ricerca, sempre al penultimo gradino della propria scala di acquisizioni e convinzioni. A sintesi di tutto, quell'estraneità diventa il sinonimo della sua solitudine, una solitudine insieme cercata e inevitabile».

Tra le altre cose, il suo libro è una sorta di risposta a quella larga parte del mondo calcistico italiano che, sbrigativamente, ha bollato i successi del Mourinho interista come frutti – in sostanza – di abile comunicazione mista a buona sorte. Perché questa tesi non regge?

«La tesi della fortuna di Mourinho rappresenta – né più né meno – la versione attualizzata del "culo di Sacchi", cioè del tecnico più innovativo e mediaticamente più ingombrante prima di Mourinho. Alla base, almeno in Italia, incide il pregiudizio antropologico-ideologico che cementa il tifoso-medio con la quasi totalità della stampa e delle tv locali: il calcio è semplice, le partite le decidono i giocatori, il tecnico migliore è quello che non fa danni, e via con simili adagi rassicuranti (e avvilenti). L'incidenza della fortuna, in quest'ottica, conta molto più della possibilità di limitarla – se non di incanalarla – con la programmazione e l'organizzazione. Nel caso di Sacchi, per esempio, è sintomatica la prima Coppa Campioni vinta: la "nebbia di Belgrado" (quella che permette di rigiocare il match compromesso con la Stella Rossa) obnubila i detrattori al punto da non fargli vedere i tre gol annullati – tutti validi – proprio nel match ripetuto con gli slavi, in quello col Werder e in quello col Real al Bernabeu. Insomma, una Coppa strameritata e giocata tutta in salita (con un calcio magnifico) è diventata la Coppa della "nebbia di Belgrado"».

Come si è riverberata su Mourinho questa maledizione?

«Nel suo caso, tutto è acuito dalle facoltà affabulatorie: da un'abilità retorico-dialettica che viene dilatata a sola componente del "talento" di Mourinho. Ne fanno le spese tutte le qualità che ho citato: le innovazioni nelle sedute di allenamento, l'inedita gestione del gruppo e soprattutto la plasticità tattica implicita nei suoi principi di gioco. Del resto, se è vero che diversi tecnici cominciano a cogliere le implicazioni delle metodiche mourinhane, per esempio in Germania (vedi Thomas Tuchel del Mainz e Jurgen Klopp del Dortmund, non caso denominati rispettivamente il Mourinho di Renania-Palatinato e di Westfalia), è altrettanto vero che finora la maggior fortuna, per Mourinho, è consistita proprio nel fatto che i suoi successi fossero stati ricondotti (quasi) solo alla fortuna».

Pur cercando di smentire il cliché che vuole le squadre di Mourinho come poco attente allo spettacolo, lei ammette che la maturazione del tecnico – in questo ambito – è ancora incompleta: che direzione possiamo aspettarci che prenda il suo gioco, con il materiale – anagraficamente fresco e di eccezionale qualità – che ha trovato a Madrid?

«Il cliché del Mourinho pragmatico e "risultatista" è in larga parte infondato. Solo la pigrizia, la sbrigatività o la malafede possono impedire di vedere, nella sua parabola, un'evoluzione tattico-estetica molto complessa, estesa dal 4-4-2 fiammeggiante e iper-sacchiano del Porto (con fuorigioco e pressing alto) al gioco composito del Chelsea (insieme british per ritmo e atletismo e inedito per l'economia delle ripartenze-laser) all'ulteriore evoluzione interista, con  partite di fraseggio e costruzione – specie in campionato – alternate ad altre di maggiore attendismo scientifico, sempre con ripartenze fluide e organizzate. Anche qui, due partite anomale 2 il ritorno col Barça al Camp Nou, con la coazione in 10 a  una partita difensiva, e la finale col Bayern, essenziale e controllata – hanno fatto rimuovere una serie di match di ben altra matrice, e tra loro molto diversi: il secondo tempo a trazione integrale a Kiev, con un finale con due difensori e un forcing ai limiti del collasso; la partita a San Siro col Kazan, con pressing alto e possesso per tutto il match; e soprattutto il capolavoro col Barça a San Siro (3-1), con la squadra che sotto di un gol non si deprime ma gioca un pressing mirato con ripartenze taglienti, unificando sincronismi e velocità. Dopo di che,  non c'è dubbio che Mourinho – davanti a se stesso – è diverso da come appare in certe dichiarazioni sprezzanti».

In che senso?

«Quando replica a Cruijff – che gli imputa un certo deficit estetico – di "non voler imparare come si perde una finale di Champions per 4-0", Mourinho non dice tutta la verità. Nell'intimo, sa di non aver ancora ottenuto la quadratura del cerchio tra risultato e gioco. Il punto, forse, è che non l'otterrà mai, perché in  lui la pulsione alla vittoria trascende la pur pronunciata pulsione estetica. Nel libro, scrivo come l'esperienza madrdista possa essere teoricamente un'occasione per avvicinare tale quadratura: grandi risultati con una maggiore continuità di gioco avvincente. E in effetti, gli inizi sono stati molto promettenti: certe partite di Liga e soprattutto di Champions (a partire dai due incontri col Milan) hanno mostrato un Real aggressivo e armonioso, con tagli e incroci offensivi spesso ammirevoli. Adesso, però, le tensioni interne con il dt Valdano e con Florentino Perez (nel libro puntualmente prefigurate) e la coazione a vincere, potrebbero inibire la linearità di quel progetto. Vedremo, soprattutto in Champions».

In poco meno di 200 pagine, il libro tocca svariati ambiti «alti»: dalle neuroscienze all'arte sacra, dal cinema d'autore alla storia e alla letteratura lusitane. L'oggetto della sua attenzione si merita davvero un simile trattamento?

«Questa interdisciplinarità è possibile (anzi necessaria) per due motivi. Primo, perché Mourinho richiama "naturalmente" luce da ambiti non calcistici, sia per le metodiche di training (in cui psicologia e neurobiologia hanno un ruolo egemone e inedito), sia per la varietà delle sue strategie mediatiche e della sua sintesi tattica. Secondo, perché il libro non è "solo" su Mourinho: il tecnico portoghese è un crocevia cronologico e tematico tra storia e filosofia calcistica tout court, un crocevia che sollecita comparazioni e apparenti digressioni (una su tutte: il metodo Lobanovskij). E poi, più in generale, se ho sempre trovato equivoco e mistificatorio l'atteggiamento "postmoderno" che degerarchizza tutto (i fumetti e Proust sullo stesso livello), ho sempre trovato discutibile anche l'atteggiamento opposto dei livelli ("alto" e "basso") accademicamente impermeabili. "Alto " e "basso" possono e devono entrare in dialettica: tutto dipende dalla necessità interna della trattazione e dal rigore delle argomentazioni. Non c'è nessun oggetto, apriori, indegno di un'attenzione complessa».

In un passaggio venato di lirismo, lei scrive – tracciando un paragone con Harry Houdini – che nella sua ossessione per la vittoria, in realtà, Mourinho «vorrebbe persuadere tutti noi della possibilità di vincere la morte», o almeno «trasmetterci l'illusione che quella vittoria sia possibile». Ci può essere davvero una simile vertigine di significato, dietro 22 uomini che rincorrono un pallone?

«Questa è proprio un'applicazione particolare del principio appena espresso. In assoluto, può sembrare sproporzionato evocare categorie così estreme per un "gioco" , per un'attività, come il calcio, in ibridazione tra spettacolo, business e componente estetica. Potrei cavarmela facilmente ricorrendo all'Homo ludens di Huizinga, un classico che riconduce il gioco alle profonde componenti sociali e cognitive del Sapiens. O citando il grande Bill Shankly, Padre Fondatore del moderno Liverpool, un cui adagio spirega tutto "Il calcio non è una questione di vita o di morte: è molto di più". Ma nel caso di Mourinho agiscono elementi più specifici».

Quali?

La morte percorre sotterraneamente tutta la sua parabola: lui stesso a cinque anni rischia di morire per una peritonite, e la sorella Teresa muore a 37 anni per complicazioni di un diabete che l'ha resa quasi cieca (dopo un percorso di tossicodipendenza). Mourinho ne ha parlato in rare occasioni, con pudore e reticenza ("E' stato il giorno peggiore della mia vita"), così come ha parlato con reticenza dei fallimenti e delle umiliazioni del padre Felix, tecnico tante, "troppe" volte esonerato. E tutti sappiamo come il fallimento professionale implichi a sua  volta un "down" depressivo, rappresenti un'imitazione "in minore" della morte. Naturalmente, la pulsione alla vittoria è connaturata a ogni giocatore e a ogni tecnico: ma quando – come nel caso di Mourinho – diventa così esclusiva e ossessiva, direi "eccessiva", c'è un furore aggiuntivo. Il suo desiderio di gloria anticipata – la sua "fretta" – ricorda, si parva licet, la fretta di certi creatori, come Mozart. Anche se forse – sul piano simbolico, a livello inconscio – tutti noi cerchiamo nella vittoria una "sutura" del pensiero della morte, pensiero sottostante e immanente a ogni nostra attività, come dice bene Stanley Kubrick in un'intervista che cito nel libro».

Tornando al transito interista, lei interpreta le difficoltà vissute dall'allenatore portoghese  – confrontato all'ostracismo del mondo pallonaro italiano – anche come una severa diagnosi sullo stato del Paese. «Il calcio», lei osserva, «non è la malattia, ma un sintomo, uno dei tanti, di una fase di decadenza civile ormai giunta al redde rationem. [?] Ecco perché, per una parte di noi italiani, [c'è] la tentazione di seguire Mourinho, non solo simbolicamente».

«È uno snodo centrale. Il rigetto italiano di Mourinho è soprattutto un rigetto di cultura e di costume. Per usare le categorie molto calzanti di Gherardo Colombo – ex pm di Mani Pulite – Mourinho ha proposto la "trasparenza del conflitto" a un corpo sociale affezionato invece al "compromesso opaco". Coi suoi modi estremi e a volte sprezzanti (basti ricordare l'invettiva contro la "prostituzione intellettuale"), il portoghese ha scoperchiato molte ipocrisie sedimentate, tanto che a certi inviti ad "abbassare i toni" ha risposto a muso duro come proprio coi toni bassi sia stata incubata Calciopoli. Stupisce, al proposito, che in diversi abbiano istituito e continuino ostinatamente a sostenere l'analogia Mourinho-Berlusconi».

Perché?

Tralasciando differenze fenotipico-comportamentali (non si può confondere il sorriso corsaro di Mourinho con il ghigno orwelliano del Premier), la distanza siderale consiste soprattutto nell'atteggiamento verso le Istituzioni. In Inghliterra, Mourinho ha fatto dimettere David Dein (doppio incarico all'Arsenal e in Federazione) dirimendo un conflitto d'interessi; Berlusconi, al contrario, è un concentrato grottesco di conflitti d'interessi. Per tacere del fatto che l'anno scorso Mourinho ha più volte attaccatto direttamente Galliani (per esempio a proposito della manipolazione dei calendari). Ma il rigetto di Mourinho, in questa prospettiva, è anche il rifiuto di un Paese intero a uscirre dalla propria compiaciuta arretratezza. Salvo rare eccezioni, la corporazione dei tecnici l'ha liquidato appunto come un "comunicatore" privo di sostanza tecnica, senza peritarsi di studiarne minimamente training e tattica. Quanto a media e opinione pubblica, la sua uscita di scena è stata una liberazione, la martellata assestata da una comunità di Pinocchi e Lucignoli a un molesto Grillo Parlante. Quando dico che viene la tentazione di seguirlo – cioè di migrare – mi riferisco alla tentazione di seguire per esempio, tanti nostri ricercatori o scienziati, costretti a trovare i Paesi culturalmente più strutturati contesti idonei alle loro ambizioni e alla loro tensione conoscitiva».

Prima di concludere, una domanda che ammicca alla citazione mourinhiana che lei ha posto in copertina («Chi sa solo di calcio non sa niente di calcio»). La parabola ancora incompleta che lei racconta ha qualcosa da dire, o da insegnare, anche a quei bibliofili che non sanno – e non vogliono sapere nulla – di calcio?

« In realtà la citazione del sottotitolo è uno dei Leitmotiv di uno degli insegnanti di Mourinho all'ISEF, un motto che lui ha eletto a timone della propria visione del calcio e della vita. La prima ambizione del libro è rovesciata: mostrare ai calciofili quanto il calcio sia diverso (più ricco, più complesso, meno legato alla pulsione basica del "tifo") di quanto vogliano far loro credere le tribune ammiccanti dei Semplificatori mediatici. Ma certo non mi spiacerebbe se cadesse anche qualche pregiudizio intellettualistico sul calcio. Al proposito, quelli che girano con Beckett sotto il braccio compatendo con un rictus di commiserazione le masse decerebrate, dovrebbero sapere che Beckett – eccellente battitore e lanciatore di cricket – leggeva avidamente,  sui giornali, le pagine sportive. L'anti-intellettualismo populista e il veteroumanismo snob, in fondo, sono due forme di disprezzo integrate e simmetriche».