L'intervista

ChatGPT ed evoluzione della lingua: dove sta andando l'italiano?

In vista della serata a tema nell'ambito di Möbius Incontri abbiamo fatto una chiacchierata con Claudio Marazzini, storico della lingua e presidente onorario dell’Accademia della Crusca
Creato con Midjourney/OpenAI
Marcello Pelizzari
12.10.2023 10:00

La lingua evolve. Quante volte è stato detto e ribadito? Tante, tantissime. La novità, ora, è che la lingua evolve (anche) grazie alle macchine. O, meglio, a ChatGPT e in generale all’intelligenza artificiale generativa. Detto ciò, quale direzione sta prendendo, nello specifico, l’italiano? E ancora: ChatGPT ha imparato a scrivere, ma possiamo ritenere il chatbot pronto? Se ne parlerà, venerdì, nell’ambito di Möbius Incontri all’Auditorium dell’USI, a Lugano, dalle 17.30. Ospiti di Alessio Petralli saranno Luca Gambardella, direttore del master in intelligenza artificiale USI e prorettore USI, e Claudio Marazzini, storico della lingua e presidente onorario dell’Accademia della Crusca. Ci siamo intrattenuti proprio con Marazzini per approfondire la tematica.

Dottor Marazzini, uno potrebbe pensare che l’Accademia della Crusca sia, aprioristicamente, contro l’intelligenza artificiale. E invece…
«E invece no, assolutamente no. Ho fatto alcuni esperimenti, anche con l’amico Petralli. E devo dire che ChatGPT, beh, fa un uso corretto della lingua italiana. Ma anche delle altre lingue, come il neogreco o il basco. Sì, questo chatbot è ottimo sia nella comprensione sia nella scrittura. Rimanendo all’italiano, si comporta come un parlante nativo. Direi anche piuttosto colto. Non posso parlare a nome dell’Accademia della Crusca, ma personalmente sono grato ai programmatori per aver addestrato la macchina così bene. Soprattutto se pensiamo che l’italiano, numeri alla mano, non è così potente come altre lingue. Penso all’inglese o al cinese».

Le faccio subito una provocazione, allora: significa che, da storico della lingua, lei è più preoccupato dell’uso che noi esseri umani italofoni facciamo dell’italiano?
«Qui, in effetti, si apre un discorso interessante. Riguardante il significato e il valore che diamo alla competenza linguistica di una macchina. Un discorso che coinvolge l’opinione di esperti della statura di Noam Chomsky. E che ruota attorno all’impossibilità, per una macchina, di impadronirsi davvero di un linguaggio. Il modo in cui ChatGPT ha imparato l’italiano, per dire, è diverso rispetto a quello proprio degli esseri umani. C’è chi dice, ad esempio, che il chatbot di OpenAI in realtà è come un pappagallo. Può darsi, ma il risultato è tutto fuorché un decadimento della lingua. ChatGPT si esprime in un italiano medio-alto. Un italiano quasi del tutto privo di difetti. Significa che, a differenza di molti umani, c’è una buona e giusta padronanza del lessico e della sintassi».

L’Accademia della Crusca, anni fa, intervenne sull’oramai celebre neologismo petaloso. Se ChatGPT, pur esprimendosi correttamente, non padroneggia l’italiano significa che non avrà mai la nostra fantasia e, quindi, anche la capacità di trovare nuove parole?
«Credo che da un punto tecnico non sia difficile insegnare un meccanismo del genere a una macchina. Ma l’obiettivo di una lingua non è necessariamente creare neologismi. Trovo più coerente il fatto che ChatGPT abbia setacciato l’italiano già esistente. Senza inventare alcunché. Non solo: davvero vogliamo affidare a un’intelligenza artificiale questo compito? Perché dovrebbe svolgere pure funzioni creative? E chi ci dice che eventuali neologismi inventati da ChatGPT, poi, entrino concretamente nel circuito della lingua? No, ritengo che i chatbot spinti dall’intelligenza artificiale debbano limitarsi a compiti di servizio».

È un problema che, fra gli altri, ha sollevato il New York Times per la lingua inglese. Certo, per sapere come ha fatto ChatGPT a imparare così bene l’uso dell’italiano o appunto dell’inglese dovremmo avere al nostro tavolo di discussione il cosiddetto convitato di pietra: i creatori di questa macchina

Lei ha lodato chi ha allenato la macchina. Ma negli Stati Uniti, in particolare, c’è chi ha chiesto a OpenAI di non usare i propri lavori o i propri scritti. Non le sembra, al netto di questioni legate al copyright, un atteggiamento da egoisti?
«È un problema che, fra gli altri, ha sollevato il New York Times per la lingua inglese. Certo, per sapere come ha fatto ChatGPT a imparare così bene l’uso dell’italiano o appunto dell’inglese dovremmo avere al nostro tavolo di discussione il cosiddetto convitato di pietra: i creatori di questa macchina. Personalmente, vorrei sapere come hanno insegnato al chatbot a rispondere con un italiano, volendo, diverso dal nostro. Se chiediamo all’interfaccia di risponderci come Dante, attraverso un sonetto, ChatGPT è in grado di fornire un risultato soddisfacente. Anche se si inceppa sulle rime, producendo più che altro assonanze. Il sonetto, da un punto di vista letterario, può anche essere bruttino. Ma l’italiano di Dante non viene usato a vanvera, anzi. Il che mi porta a dire, allargando il campo, che i testi usati per allenare ChatGPT sono stati scelti con un determinato livello qualitativo. Se avesse imparato raccogliendo i dati dalla rete in maniera indiscriminata, ad esempio, avremmo avuto risultati ben diversi».

In effetti, più di uno studente ha ammesso di farne uso…
«Vero, ChatGPT sa produrre ottime tesine scolastiche. Ma non finisce qui: ha superato più di una prova, passando i test di ammissione per varie Facoltà universitarie».

Concludendo, che futuro si immagina rimanendo sull’insegnamento dell’italiano? È plausibile che, un domani, gli allievi a scuola si ritrovino degli insegnanti cyborg? Dei robot che, tramite l’intelligenza artificiale, tramandino la conoscenza dell’italiano agli studenti?
«È un tema che tratteremo anche al Möbius. Ma non penso che ci spingeremo fino a quel punto. A maggior ragione se pensiamo che l’insegnamento, cioè la scuola, non è soltanto correttezza linguistica. Non si tratta, insomma, di fare solo buoni temini. No, c’è anche tutto il discorso del dialogo, del rapporto con i professori. E qui, perdonatemi, ma ChatGPT non sembra sul pezzo. Insiste con questa infinita gentilezza, con questo garbo che porta il chatbot a scusarsi di continuo se sbaglia a interpretare una nostra richiesta, ma quando si tratta di immaginare e produrre dei contenuti, il discoro cambia. Eccome se cambia».

C’è anche un problema di fonti, giusto?
«Sì, confermo. Tant’è che per ottenere un’informazione, al momento, è molto più funzionale un motore di ricerca. Con Bing, è vero, le cose vanno meglio. Ma c’è poca profondità: si tratta di fonti cui riuscirei ad accedere anche, se non soprattutto, tramite ricerche classiche. Non sopravvaluterei, per farla breve, il sapere di questa macchina. Che, di per sé, è modesto rispetto a quello che già sappiamo grazie a Google. Al momento, l’intelligenza artificiale è ancora piuttosto elusiva nel verificare una fonte o la veridicità di un’affermazione».

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