L'intervista

Gino Roncaglia: «Credevamo ai supercomputer come HAL 9000, ci siamo sbagliati»

Qual è (e quale sarà) l'impatto dell'intelligenza artificiale sulla produzione culturale? Che ne sarà delle biblioteche? E dei lavori nel campo dell'editoria? La parola a Gino Roncaglia, ospite del Möbius venerdì a Lugano
© Tom Cowap
Marcello Pelizzari
02.10.2024 18:15

Filosofo e saggista italiano, Gino Roncaglia è docente di editoria digitale, filosofia dell’informazione e digital humanities presso l’Università di Roma Tre. È considerato fra i pionieri dell’uso di Internet in Italia e delle riflessioni sulle sue potenzialità culturali. Venerdì, affronterà la platea del Premio Möbius all’Università della Svizzera italiana, a Lugano, con un intervento dal titolo La biblioteca oggi e domani con l’IA (qui il programma completo). Dove IA, evidentemente, sta per intelligenza artificiale. Lo abbiamo intervistato.

Professore, innanzitutto: da ignoranti, crediamo che l’intelligenza artificiale non abbia nulla a che fare con la cultura o, meglio, con l’idea che abbaiamo di cultura. Non è così, giusto?
«Farei, innanzitutto, una premessa. C’è un primo, fondamentale rapporto fra i sistemi di intelligenza artificiale e noi. Ed è, banalmente, il fatto che siamo stati noi a crearli. Sono, quindi, un prodotto della nostra intelligenza. Possiamo parlare, allora, di un rapporto genetico. Un altro aspetto importante riguarda il cambiamento di paradigma degli ultimi decenni. L’intelligenza artificiale esiste dagli anni Cinquanta del secolo scorso, ma originariamente era basata su un paradigma logico-linguistico. Ovvero, sull’idea che la nostra intelligenza fosse basata sulla capacità di ragionare e di usare il linguaggio. E che, di riflesso, logica e linguaggio fossero sistemi governati da regole. Di qui l’idea che, per costruire computer intelligenti, bisognasse individuare quelle regole e darle alla macchina. Era, questa, l’idea alla base di HAL 9000, il supercomputer di 2001: Odissea nello spazio. Kubrick chiese la consulenza di Marvin Minsky, all’epoca il massimo esperto mondiale di intelligenza artificiale. Quando venne girato il film, riassumendo, Minsky credeva che entro il 2001 avremmo avuto supercomputer di quel tipo».

Così non è stato: perché?
«Per due motivi. Il primo: quel modello non era sufficiente, nella misura in cui logica e linguaggio sono due componenti importanti ma non è detto che siano alla base dell’intelligenza. O, se preferite, l’intelligenza in realtà è qualcosa di molto più complesso: gli aspetti logico-linguistici sono il risultato di un’evoluzione. Il secondo, strettamente legato al primo: la nostra intelligenza non è solo un obbligo logico e linguistico. Come individuare, allora, meccanismi che riproducano il nostro comportamento?».

E qui, immaginiamo, arriviamo a un nuovo paradigma.
«Negli ultimi anni, l’intelligenza artificiale ha lavorato su un paradigma completamente diverso. Legato alle cosiddette reti neurali. L’obiettivo, in questo caso, è imitare il funzionamento dei neuroni del nostro cervello. Ma partendo da premesse probabilistiche e non più deterministiche».

Come funziona, allora, un sistema di intelligenza artificiale moderno?
«In maniera, appunto, statistica e probabilistica. In maniera, quindi, in parte imprevedibile, sebbene noi conosciamo che cosa ci abbiamo messo dentro. Siamo stati noi a dettare i parametri e le regole, ma nonostante ciò non possiamo prevedere con esattezza il modo in cui questi sistemi si comporteranno».

Le analogie con il nostro cervello si limitano alle reti neurali o c’è di più? Questa imprevedibilità, per farla breve, può essere paragonata all’intuito umano? Al famoso sesto senso?
«C’è una somiglianza con la nostra intelligenza, sì. Ma questi sistemi non sono uguali al cervello umano. Che rimane più complesso, anche perché lavora con un insieme di mediatori chimici ed elettrici. Quello delle intelligenze artificiali è, ancora, un modello troppo semplicistico se applicato a noi. Però, questo sì, abbiamo fatto un passo avanti notevole in termini di creatività».

I ricercatori, al riguardo, sono divisi. Non c’è neppure un’opinione che faccia la maggioranza. Il ventaglio di queste opinioni comprende chi dice che non ci arriveremo mai, alla creatività delle macchine, e chi invece vede il risultato vicino, molto vicino

Ecco, la creatività. Le intelligenze artificiali sono creative, pensando alla produzione culturale?
«I ricercatori, al riguardo, sono divisi. Non c’è neppure un’opinione che faccia la maggioranza. Il ventaglio di queste opinioni comprende chi dice che non ci arriveremo mai, alla creatività delle macchine, e chi invece vede il risultato vicino, molto vicino. Possiamo tuttavia affermare che, proprio per la loro imprevedibilità, i sistemi odierni hanno una certa originalità nel dare risposte alle nostre richieste. Quando dialoghiamo con ChatGPT, ad esempio, stiamo dialogando con un sistema di intelligenza artificiale generativa. Un sistema che non copia, pedissequamente, dal suo corpus di addestramento. Ma che, al contrario, produce testo nuovo. Quindi sì, c’è una capacità di originalità».

Ma è pura creatività o semplice rimasticazione?
«È una scelta filosofica, questa. Dipende che valore e senso diamo, noi, alla creatività. Che cosa intendiamo, in ultima analisi, per creatività. Se è il punto di arrivo di un processo intenzionale, allora attribuire intenzionalità ai sistemi di intelligenza artificiale di oggi è sbagliato. Se, invece, consideriamo la creatività come originalità e capacità di stupire, allora alcuni risultati ottenuti da questi sistemi potrebbero essere considerati creativi».

Parlando sempre da ignoranti, spesso siamo portati a pensare che una forza bruta come questa, o come poteva essere Internet all’epoca, finisca per distruggere o quantomeno stravolgere il panorama culturale. In quest’ottica, e pensando al suo intervento a Lugano, che ne sarà delle biblioteche, luogo-simbolo del sapere umano?
«Attenzione, per prima cosa, a considerare le biblioteche come un semplice deposito di libri. Le biblioteche sono un insieme di servizi legati alla mediazione informativa e all’accesso a contenuti informativi. Il digitale, di per sé, è già ampiamente utilizzato in questi ambienti. È una risorsa, non una minaccia. Possiamo allora immaginare che le intelligenze artificiali estendano le capacità di una biblioteca e ne accrescano utilità e funzioni. Il punto, semmai, è capire se questa mediazione informativa può essere svolta da un sistema artificiale».

Lei che ne pensa?
«Penso che alcune funzioni di mediazione informativa possano essere automatizzate o affidate all’intelligenza artificiale. Ma è qualcosa che già accade: vi dicono nulla i sistemi di raccomandazione dei libri? Riprendono una capacità, storica, dei librai e dei bibliotecari, quella di consigliare dei libri in base a una richiesta o ricerca specifica».

Verrebbe da dire: ma dov’è il cuore?
«È chiaro che serve qualcuno che progetti e validi i meccanismi di raccomandazione. Che, dietro, ci sia l’uomo. Non a caso, la necessità di queste competenze, oggi, è fortissima. Sia in termini di progettazione di sistemi sia pensando all’addestramento delle intelligenze artificiali. Tornando a noi, le competenze che possiede una bibliotecaria o un bibliotecario sono preziose, molto preziose per chi lavora nell’intelligenza artificiale».

Al riguardo si parla, spesso, di rischi e opportunità. È un binomio che, allargando il campo, riguarda l’intero settore dell’intelligenza artificiale: porterà benefici alla società o la distruggerà? Rispetto ad altre tecnologie, ritengo che il rischio di una forte, fortissima perdita di posti di lavoro nel caso dell’intelligenza artificiale sia concreto

Quindi, un domani, che ne sarà dei lavori «classici» che animano il settore dell’editoria e della cultura in generale? Andranno perduti, si trasformeranno, o che cosa ancora?
«Al riguardo si parla, spesso, di rischi e opportunità. È un binomio che, allargando il campo, riguarda l’intero settore dell’intelligenza artificiale: porterà benefici alla società o la distruggerà? Rispetto ad altre tecnologie, ritengo che il rischio di una forte, fortissima perdita di posti di lavoro nel caso dell’intelligenza artificiale sia concreto. Se ne perderanno più di quanti ne guadagneremo, stando alla maggior parte delle analisi. Come rispondere, allora, a questa minaccia? Riprendendo un vecchio slogan: lavorare meno, ma meglio, ovvero riducendo il carico per tutti noi. E lasciando che l’intelligenza artificiale si occupi di alcuni processi. Ragionamenti di questo tipo, tuttavia, richiedono ripensamenti su larga scala. Partendo dall’istruzione. Abbiamo sempre pensato al sistema scolastico e formativo come a un sistema adatto a una prima, primissima fase della nostra vita. Fino ai venticinque anni, circa, poi ognuno si trova un lavoro. E invece, dobbiamo abituarci all’idea che ci serviranno sempre di più dei richiami scolastici, degli aggiornamenti, delle formazioni continue. Di imparare lungo l’arco di una vita intera».

Rimanendo nel campo dell’editoria e della cultura, possiamo immaginarci in futuro come consumatori di prodotti interamente concepiti dall’intelligenza artificiale? Uno scrittore, rovesciando la questione, sarà sempre più tentato dall’usare l’intelligenza artificiale o no?
«Ecco, intendiamoci: c’è una differenza fra la sostituzione vera e propria, come un romanzo scritto interamente da una macchina, e la collaborazione. Nel primo caso, la macchina finirebbe per produrre sempre e solo lo stesso tipo di cose, proprio per un discorso probabilistico. La collaborazione, invece, è decisamente più interessante, perché l’essere umano e un sistema di intelligenza artificiale possono, ciascuno, cercare di fare al meglio quello che sanno fare. Noi umani abbiamo una capacità di creare e fare collegamenti, la chiamiamo intuizione, che i sistemi possono solo cercare di imitare al momento. Un giornalista, già oggi, potrebbe farsi scrivere un articolo. Ma poi, comunque, vorrebbe controllarlo, verificarlo, aggiungere qualcosa. A interessare è il risultato di un’interazione, perché quando interroghiamo ChatGPT o simili ci mettiamo sempre e comunque del nostro».

Le lanciamo una provocazione: che ne sarà dei traduttori di testi, ora che i sistemi automatizzati stanno raggiungendo delle capacità impensabili solo pochi anni fa?
«È vero, ci sono dei campi – e questo è uno – in cui è ipotizzabile una sostituzione vera e propria. L’obiettivo, come dicevo prima riguardo alla perdita di lavori, è farci trovare davanti alla tecnologia e non dietro. Trovare un nostro spazio».

Questo spazio sarà accessibile a tutti? Riassumendo e concludendo: l’intelligenza artificiale è, e sarà, democratica?
«Parliamo di sistemi che, per certi versi, possono facilitare le cose. Pensiamo ai programmi per l’apprendimento delle lingue e, in generale, agli strumenti di intelligenza artificiale che migliorano la qualità del nostro apprendimento. Il rischio di esclusione, ovviamente, c’è. Proprio per questo è necessario lavorare, tantissimo, sulla formazione. Ed è necessario diffondere la conoscenza di questi sistemi ovunque nel mondo».