Uzbekistan

A Khiva, Bukhara e nell’«incomparabile» Samarcanda

Un itinerario che si snoda lungo la mitica «Via della seta». Khiva, la città-museo con le sue pittoresche mura di fango che circondano il centro storico. Bukhara, la città sacra paragonabile alla Mecca per il mondo musulmano. Shahrisabz, dove vide i natali l’eroe nazionale Tamerlano. Samarcanda, l’incomparabile città dorata, gioiello dell’Islam.
Giò Rezzonico
01.10.2009 12:00

Itinerario

(ottobre 2009)

  • 1° giorno Ticino - Roma - Tashkent
  • 2° giorno Tashkent - Urgench - Khiva
  • 3° giorno Khiva - Bukhara
  • 4° giorno Bukhara
  • 5° giorno Bukhara - Shahrisabz - Samarcanda
  • 6° giorno Samarcanda
  • 7° giorno Samarcanda - Tashkent
  • 8° giorno Tashkent - Roma - Ticino

 

Durata del viaggio: 8 giorni

Operatore turistico: Kel12

 

  

 

 

Il nostro itinerario nell’Asia centrale, in Uzbekistan, si snoda lungo la mitica «Via della seta» e ha come mete principali le città di Bukhara e di Samarcanda, che rappresentavano nell’antichità strategici punti di sosta a metà del percorso tra la Cina e l’Occidente. Lungo il tragitto sorsero così numerosi caravanserragli che offrivano alloggio, stalle e magazzini alle carovane e che diedero vita a un’attività commerciale senza precedenti. La «Via della seta» non si sviluppò mai  lungo un unico percorso, ma era costituita una fragile rete di itinerari carovanieri intercontinentali. Le città che si trovavano lungo questi tragitti conobbero un grande sviluppo. Le devastazioni e i disordini provocati da Gengis Khan e da Tamerlano, che incontreremo più volte lungo il nostro itinerario, resero sempre più insicure queste vie e portarono come conseguenza alla crisi economica della regione. L’ultimo e definitivo colpo inferto all’ormai agonizzante «Via della seta» fu poi rappresentato dall’apertura delle rotte commerciali marittime tra Europa e Asia, che rendevano superflue le fatiche delle carovane. Si concludeva così un capitolo fondamentale nella storia dell’umanità: per la prima volta infatti, attraverso questi itinerari, si era sviluppato un interscambio di idee, tecnologie e convinzioni religiose, grazie ai contatti tra realtà culturali estremamente diverse.

Il diario di viaggio che segue si sofferma sulle tappe principali di un itinerario, effettuato in torpedone, che percorre tutto l’Uzbekistan, passando da un’oasi all’altra e attraversando l’inospitale steppa che separa alcune perle dell’Islam come Khiva, Bukhara e Samarcanda. 

 

Khiva, città-museo

Da Roma voliamo su Tashkent, la capitale del paese, che dista sei ore di aereo, dove giungiamo in serata. Il tempo per un breve sonno e il mattino di buonora ripartiamo in volo in direzione ovest per Urgench, da dove in mezz’ora di torpedone raggiungiamo la città-museo di Khiva, diventata tale nel corso di un programma di conservazione sovietico. 

La prima immagine è quella delle sue pittoresche mura di fango lunghe due chilometri e mezzo, che circondano tutto il centro storico. Tutti i monumenti sono a portata di mano. Si respira un’atmosfera orientale: minareti, moschee dalle cupole verdi, palazzi dei visir, madrasse e naturalmente il mercato.

La nostra visita inizia proprio dal souk, che caratterizzò questa città nel corso della storia per un fiorente mercato degli schiavi durato più di tre secoli, fino al 1873. Era il più grande dell’Asia centrale. Nelle pareti sono ancora visibili le nicchie dove venivano esposti gli sventurati in vendita. Il souk attuale è animato soprattutto da gente del posto. La merce esposta, destinata soprattutto agli indigeni, è variopinta, di cattivo gusto e dominata dai materiali sintetici. Non c’è traccia del ricco artigianato di un tempo. Non si vende seta, nonostante questa città si trovasse anticamente proprio sulla «Via della seta», e nemmeno cotone, sebbene qui attorno tutti vivano della coltura del cotone. Regnano i tessuti sintetici: persino i fiori sono di plastica. Come spesso accade, la parte più bella del souk è quella dedicata alla frutta, alla verdura e alle spezie. 

Khiva fu distrutta nel 1740 dai Persiani e in seguito ricostruita. La maggior parte dei suoi monumenti risale pertanto al XVIII secolo. La città, storicamente, era tristemente nota per la ferocia dei suoi regnanti, di cui si visitano due fastosi palazzi decorati con magnifiche ceramiche. Come spiega la nota viaggiatrice ginevrina Ella Maillart («Vagabonda nel Turkestan», Torino 2002) «per il mongolo nomade il lusso consisteva nell’applicare parati e tessuti ricamati alle pareti della sua tenda. Quando fissò la sua dimora volle che i suoi palazzi e le sue moschee gli restituissero con le loro decorazioni di ceramica la stessa sensazione». Ma a questa raffinatezza si accompagnava nei visir di Khiva una ferocia incredibile. Arminius Vámbéry, un viaggiatore ungherese dell’Ottocento, racconta di aver assistito nel 1863 all’esecuzione di trecento prigionieri impiccati o decapitati. «I loro capi con i capelli grigi erano invece distesi a terra in attesa di essere ammanettati, quando il boia si inginocchiò sui loro petti e cavò loro gli occhi, pulendo il coltello insanguinato sulle loro barbe. Tentarono di rialzarsi, ma sbatterono alla cieca gli uni contro gli altri e crollarono al suolo agonizzanti».

Questi truci racconti non si conciliano con il mio stato d’animo mentre visito questa città dall’atmosfera quasi ibernata, che ti fa sentire ai margini del mondo. La sua architettura è armoniosa. Il colore delle costruzioni, così come quello delle mura costruite in mattoni di argilla e paglia, è quello della terra e si mimetizza perfettamente con il paesaggio mettendo in risalto i verdi e i blu delle smaglianti maioliche. Queste immagini mi rimarranno impresse nella memoria per la loro diversità, per l’armonia e per le tinte dolci soprattutto al momento del tramonto.

 

Bukhara città sacra

Lunga trasferta in torpedone da Khiva a Bukhara, la città sacra. La strada percorre una zona desertica e disabitata lungo il confine con il Turkmenistan. La steppa è monotona e il viaggio dura quasi una giornata. Ben si può capire quanto fosse irraggiungibile questa città per gli eserciti che la volevano conquistare. Molti perdettero la maggior parte dei loro soldati e dei cammelli in queste steppe inospitali. Giungiamo a Bukhara, che «per più di mille anni – come osserva Tiziano Terzani («Buonanotte, Signor Lenin», Milano 1992) - nel mondo mussulmano fu considerata equivalente alla Mecca come importante centro di studi, per lo splendore delle sue moschee e il livello intellettuale delle sue madrasse, le scuole coraniche». Tanto che gli storici arabi la definirono «il paradiso del mondo». Ci si può bene immaginare come dovessero rimanere incantati i carovanieri che percorrevano la «Via della seta», quando dopo giorni di lunga e monotona marcia percorsi nella steppa giungevano all’ombra dei sontuosi monumenti di questa città sacra.

Anche qui come a Khiva gli emiri erano sanguinari. Esisteva una prigione, il cosiddetto «pozzo degli scarafaggi», dove venivano allevati insetti che scarnificavano i prigionieri. Un colonnello britannico vi passò alcuni mesi prima di essere giustiziato per essere entrato a cavallo nell’Ark, la città regale, dove solo l’emiro poteva cavalcare. L'Ark era una città nella città, abitata dal quinto secolo fino a quando Bukhara cadde in mano all’Armata Rossa. La sua visita è di grande interesse, così come il famosissimo minareto Kalon, uno dei simboli della città. Si narra che Gengis Khan, quando nel 1220 espugnò e distrusse Bukhara al grido «Io sono il castigo di Dio per i vostri peccati», rimase talmente esterrefatto alla vista di questo monumento che ordinò di risparmiarlo. È giunto fino a noi ben conservato con le sue quattordici fasce decorative, diverse l’una dall’altra, a testimonianza del primo utilizzo delle lucenti piastrelle blu che si diffusero in tutta l’Asia centrale sotto Tamerlano. Ai tempi dell’emiro i condannati a morte venivano messi in un sacco e lanciati dal minareto alto 47 metri, soprannominato dai bolscevichi «Torre della morte». Tiziano Terzani fa notare come gli abitanti di Bukhara, nonostante il dispotismo degli emiri, parlino oggi di quell’epoca come di tempi d’oro.

«La Bukhara mussulmana – osserva Colin Thubron («Il cuore perduto dell'Asia», Milano 1994) – era cinta da 12 chilometri di mura e di porte fortificate e le sue moschee e medresse erano innumerevoli. I bukharioti erano considerati gli abitanti più distinti e civilizzati dell’Asia centrale. I loro modi e il loro abbigliamento divennero un parametro dell’eleganza orientale…Tutto questo splendore – prosegue lo studioso inglese – nascondeva però a malapena l’intimo squallore… Chi faceva il bagno o beveva nelle piscine pubbliche contraeva la ributtante filaria della Medina, che soltanto un barbiere esperto era in grado di estrarre dalla carne incidendo la pelle con una lama e attorcigliando il verme – a volte lungo più di un metro – su un ramoscello».

Un altro edificio di rara bellezza giunto dal X secolo fino a noi è il mausoleo di Ismail Samani: «uno degli edifici più eleganti dell’Asia centrale - secondo la guida turistica Lonely Planet – che cambia gradualmente «carattere» nel corso della giornata man mano che mutano le ombre». L’abile intreccio dei mattoni in terracotta presenta una sorta di affascinante ricamo, che alleggerisce questo sobrio monumento, giunto fino a noi grazie a un espediente dei bukharioti. «Quando gli abitanti videro gli invasori mongoli bruciare e distruggere tutta la città – spiega ancora Tiziano Terzani – corsero al mausoleo di Samani e seppellirono l’intera costruzione sotto una collina di terra perché gli uomini di Gengis Khan non la vedessero». 

Nella piazza Lyabi-Hauz, costruita nel 1620 attorno a una vasca, all’ombra di gelsi antichissimi, abbiamo gustato ottimi spiedini al grill, una specialità del luogo. Ma Bukhara è famosa in tutto il mondo anche per i suoi tappeti, che costituiscono per noi il modello classico della nostra idea di «tappeto orientale». Eseguito su fondo rosso di tutte le tonalità, propone una composizione costituita da un susseguirsi di forme essenziali, rigorosamente geometriche: ottagoni tagliati diagonalmente da un disegno bianco e nero sempre uguale.

 

A Shakhrisabz, città natale di Tamerlano

Il trasferimento da Bukhara alla mitica Samarcanda richiede una giornata in torpedone. Partiamo il mattino di buonora per Shahrisabz, città natale di Tamerlano, che richiede una deviazione rispetto al percorso più diretto. Attraversiamo la lunga periferia di Bukhara, particolarmente squallida. Le case sono alte solo un piano, ma molto trasandate. Man mano che ci allontaniamo dalla città ricompare il deserto con la sua monotonia, ma anche con la sua armonia. Di tanto in tanto si incontra un’oasi: non quelle idilliache, bensì insignificanti agglomerati di case trasandate. Sul tragitto passiamo anche davanti a due impianti di vitale importanza per il paese: uno per l’estrazione dal sottosuolo di gas e l’altro di petrolio. Giunti nella città natale di Tamerlano, che il regime autoritario uzbeco sembra avere adottato come eroe nazionale, ci imbattiamo subito nel monumento dedicato al condottiero. Molte persone sono radunate attorno ad esso, diverse orchestrine suonano motivi locali. È una giornata freddissima, ma le giovani spose avvolte in leggerissimi e scollati abiti bianchi non rinunciano a una foto ricordo davanti alla statua del nuovo eroe, che ha sostituito quella di Lenin. 

Condottiero valoroso e intelligente, Tamerlano riuscì a costituire un impero che aveva il suo confine orientale in India, mentre verso occidente arrivava ad affacciarsi sul Mediterraneo. Si creò la fama di uomo spietato e sanguinario, perché le sue campagne consistevano essenzialmente in guerre di occupazione e di saccheggio, piuttosto che nell’organizzazione sistematica, amministrativa e politica dei territori conquistati. Nel suo paese fu però anche un grande mecenate, un protettore di artisti: Samarcanda rimane la sua opera più duratura. Eppure è probabile che Shahrisabz, la sua città natale, prima di essere distrutta nel XVI secolo dall’emiro di Bukhara, mettesse in ombra la stessa Samarcanda. Del palazzo reale, che richiese 24 anni di lavoro e fu probabilmente il progetto più ambizioso di Tamerlano, rimangono solo alcuni frammenti del gigantesco ingresso alto 40 metri. Oggi si può soltanto immaginare ciò che doveva essere il resto dell’edificio per grandezza e splendore. Proseguiamo la nostra visita incamminandoci verso il mausoleo dove è custodito il corpo di Jahangir, figlio prediletto di Tamerlano morto a 22 anni per una caduta da cavallo e descritto dalla tradizione locale come un eroe mancato. Il monumento è decorato con dipinti della fine del XIV secolo di particolare finezza. 

 

Il presepe vivente dei villaggi collinari

Riprendiamo il nostro tragitto verso Samarcanda scegliendo la strada meno diretta che aggira le montagne. Il percorso è particolarmente suggestivo. Piove e siamo verso sera, d’autunno. Le poche foglie che rimangono sugli alberi sono ingiallite. Il terreno è arido, desertico, ma abitato. Mi colpisce l’armonia di quei paesaggi collinari. Le case sono costruite in argilla e ricoperte da tetti in paglia. Gli uomini si spostano a dorso d’asino o a cavallo. Le donne portano abiti colorati e i bimbi al passaggio del nostro torpedone salutano affettuosamente. Capre e pecore sono ovunque. Quà e la qualche mucca. La luce del crepuscolo, la stagione che annuncia il freddo inverno alle porte e forse il mio stato d’animo mi danno la sensazione di assistere a un presepio vivente, tale è l’armonia dei colori e delle forme. A poco a poco cala la notte e quel paesaggio magico si spegne davanti ai miei occhi. Ma siamo ormai alle porte di Samarcanda, che ci accoglie con le sue smaglianti luci cittadine, per la verità poco affascinanti.

 

Samarcanda, l’incomparabile

«Samarcanda l’incomparabile», così titola il capitolo dedicato alla «città dorata» Ella Maillart, la nota viaggiatrice ginevrina che visitò questi luoghi negli anni Trenta, in piena era staliniana. Dedichiamo l’intera giornata alla visita di questo gioiello dell’Islam. E se ci fosse stato un po’ più di tempo sarebbe stato meglio! Perché Samarcanda è davvero quella città mitica che immaginavo e che sognavo. I suoi monumenti, anche se ormai immersi nel tessuto di una città moderna, sono davvero degni della loro fama. Questa è stata certamente la giornata più straordinaria di tutto il viaggio. Anche Alessandro Magno, quando nel 329 a.C. la conquistò, esclamò: «Tutto quello che ho udito di Markanda è vero, tranne il fatto che è più bella di quanto immaginassi». 

Nessun nome richiama alla mente la «Via della seta» quanto quello di Samarcanda, che si trovava al crocevia delle strade che conducevano le carovane in Cina, India e Persia. Quando Gengis Khan la distrusse completamente nel 1220 avrebbe potuto essere la fine della sua storia, ma nel 1370 Tamerlano decise di fare di Samarcanda la sua capitale e nei successivi 35 anni forgiò una nuova città, che diventò «giardino dell’anima», «specchio del mondo» e assurse a epicentro culturale ed economico dell’Asia centrale. Tamerlano (1336-1405) è infatti il personaggio attorno a cui ruota tutta la storia dell’epoca d’oro di questa città e dei suoi monumenti. Persino di quelli postumi a Tamerlano. Penso alle due madrasse del Registan, la piazza principale, costruite due secoli più tardi copiando lo stile della Samarcanda di Tamerlano.

 

Al mausoleo di Tamerlano

Il nostro itinerario inizia il mattino con la visita del mausoleo Guri Amir, che ospita la tomba di Tamerlano, nonché quelle del suo nipote e del suo maestro preferiti. «Chiunque aprirà questa tomba – recava un’iscrizione – sarà sconfitto da un nemico più terribile di me». Gli archeologi comunisti non si fecero però fermare da questa avvertenza e aprirono il sarcofago per sapere se era vero che Tamerlano, «la tigre zoppa», era claudicante a causa di una ferita ricevuta in battaglia e per verificare se a suo nipote Ulugbek, quando fu deposto, venne mozzata la testa. Ebbene i due interrogativi ebbero conferma positiva, ma il giorno dopo la scoperta, il 22 giugno 1941, Hitler attaccò l’Unione Sovietica. 

Ulugbek successe al trono dello zio e regnò fino al 1449, quando venne deposto da un complotto di fondamentalisti islamici (già allora imperversavano), che non gradivano le sue scoperte scientifiche in campo astronomico. Più famoso come astronomo che come sovrano, trasformò la città in un centro intellettuale e costruì un centro di ricerca astronomico articolato su tre piani con un immenso astrolabio per l’osservazione della posizione delle stelle. È sopravvissuta solo la parte interrata. Il resto è stato distrutto. 

 

Shahr-i-Zindah, un viale di tombe

Ma eccoci alla visita del luogo certamente più suggestivo di questa incredibile città: Shahr-i-Zindah, un viale di tombe. Lastricate di maiolica all’interno e all’esterno, longitudinalmente, così da creare un percorso lungo una via, questi sepolcri ricoperti di piastrine che vanno dal blu al verde rendono questo luogo di un fascino incredibile. Tamerlano fece seppellire qui alcune delle persone a lui più care. Il posto era sacro perché ospitava già la tomba di un cugino del profeta Maometto. «La leggenda vuole che il santo – racconta Terzani (op. cit.) – venuto qui a combattere gli infedeli, fosse catturato e decapitato. Ma lui non se ne fece un cruccio. Raccattò la testa che gli avevano appena mozzata, se la mise sotto il braccio e andò a stare in fondo a un pozzo che era lì nei pressi. Il pozzo c’è ancora e la gente dice che il Re Vivente (da qui il nome del luogo) è sempre laggiù che dorme e aspetta l’occasione per uscire e riprendere la sua guerra contro gli infedeli». Questa destinazione è meta di pellegrinaggi per i mussulmani di tutto il mondo: tre viaggi qui equivalgono a uno alla Mecca. 

 

La moschea omaggio di Tamerlano a una moglie

Prima del pranzo visitiamo ancora il Museo Afrasiab. Ospita i frammenti di alcuni affreschi interessanti del VII secolo, che raffigurano scene di caccia, un corteo di ambasciatori e visite di regnanti locali. 

Dopo il pranzo a base di spiedini – specialità del luogo – ci rechiamo a visitare la moschea Bibi-Khanym, fatta costruire da una moglie di Tamerlano come regalo-sorpresa durante un’assenza del marito. La moschea, molto ricostruita, è particolarmente imponente e nota per una leggenda, secondo cui l’architetto progettista s’innamorò pazzamente della regina e rifiutò di terminare il lavoro a meno che lei non gli desse un bacio. Tale gesto lasciò un segno sulla guancia della donna e quando Tamerlano lo vide fece giustiziare l’architetto, condannò la moglie a essere murata viva nel suo mausoleo e ordinò che le donne portassero il velo per non rappresentare una tentazione per gli altri uomini al di fuori del matrimonio. 

Accanto alla moschea si trova il frenetico e pittoresco, ma particolarmente ordinato, mercato agricolo coperto. Poco distante il souk con la sua offerta di vestiti, scialli, cappelli, turbanti di ogni genere e ogni altra sorta di oggetti.

Dulcis in fundo il Registan, la piazza principale di Samarcanda. Nel medioevo era il centro commerciale della città e l’intera piazza era probabilmente occupata dal bazar. Oggi è dominata da tre palazzi e al centro offre ampi spazi. L’edificio principale è la Madrassa di Ulugbek del XV secolo, ai lati altre due madrasse edificate due secoli più tardi riprendendo i modelli architettonici dell’era di Tamerlano.

 

Il viaggio si conclude nella capitale Tashkent

Lasciamo a malincuore Samarcanda per l’ultima tappa di trasferimento in torpedone verso la moderna capitale Tashkent, una metropoli di oltre 2 milioni di abitanti, tipica città dell’ex impero sovietico. Il traffico è caotico, ma i numerosi parchi e viali alberati la ingentiliscono. Il centro è monumentale, arredato da palazzi stile regime, fontane e statue di cattivo gusto rappresentanti la madre patria e, naturalmente, l’eroe nazionale Tamerlano. Visitiamo la pulitissima e ordinatissima metropolitana, opera del regime sovietico negli anni Settanta. È monumentale, di stile simile a quella di Mosca e ogni stazione è caratterizzata da un tema legato alla propaganda politica sovietica. È l’unica testimonianza che rimane di quei tempi. 

Visitiamo alcune moschee e madrasse seicentesche, che sembrano molto ricostruite. Ma dopo Samarcanda il discorso con l’arte islamica è chiuso. Il mattino seguente all’alba parte il nostro volo per Roma e Milano.

 

Uzbekistan, dittatura e integralismo islamico

«Riguardo le mie note, ripenso a tutto quello che ho visto e sentito e l’impressione è che almeno qui in Uzbekistan il futuro si giocherà fra comunisti e mussulmani e che i democratici non avranno modo di crescere nello spazio ristretto lasciato loro fra queste due forze». Così scriveva nel settembre del 1991 Tiziano Terzani, il giornalista e studioso che all’indomani della caduta dell’impero sovietico partiva per l’Unione sovietica e faceva tappa a Tashkent in Uzbekistan. Il partito comunista uzbeko, una volta dichiarata l’indipendenza del paese, aveva fatto un’operazione di cosmesi politica: aveva cambiato nome e riconfermato Karimov uomo forte dell’Uzbekistan ed espressione di un culto della personalità di vecchio stampo staliniano. 

«Il pericolo più grosso che abbiamo di fronte – aveva spiegato qualche giorno prima il presidente della facoltà di storia dell’Università di Tashkent, considerato un sofisticato portavoce del regime, a Terzani – è quello dei fondamentalisti islamici. La loro influenza cresce a vista d’occhio… L’unica difesa che abbiamo contro questa influenza è il partito. Il partito è accusato di essere totalitario? Ebbene, solo un partito di questo tipo può far fronte ai mullah. L’Islam non è un’ideologia progressista. I mullah lo usano per costringere le masse all’obbedienza. Noi siamo per la libertà di religione, ma non per dare il potere ai religiosi». 

«Il progetto dei comunisti riciclati – commenta ancora Terzani – era chiaro: un regime politicamente totalitario con un’economia liberale: il sogno di tanti paesi in Asia». 

«Il nostro sogno ora – aveva dichiarato a Terzani qualche giorno prima l’allievo di una scuola coranica della capitale – è costituire anche qui una repubblica islamica». In effetti l’Islam era stato per secoli l’elemento unificatore dell’Asia centrale e Bukhara e Samarcanda erano considerate città sacre quasi pari alla Mecca.

Lo spauracchio del fondamentalismo islamico rimane pertanto di attualità. Islamismo che è stato arginato da venticinque anni di dura e inaccettabile dittatura di Islam Karimov, scomparso nel 2016. Gli è succeduto un suo uomo: Shavkat Mirziyoyev.

 

 

Per saperne di più

  • Uzbekistan, Guide Polaris, Firenze 2011
  • Asia Centrale, Lonely Planet, Torino 2018
  • Eugenio Tamburi, Viaggio a Samarcanda, Reggio Emilia 2004
  • Graziella Allegri, La Via della Seta, Milano 2007
In questo articolo: