Il mitico Far West
Itinerario
(giugno/luglio 2013)
- 1° giorno Ticino - Milano Malpensa - Denver
- 2° giorno Denver
- 3° giorno Denver - Grand Lake - Rocky Mountains - Rocky Mountain National Park - Torrington - Fort Laramie - Scotts Bluff (560 km)
- 4° giorno Scotts Bluff - Pine Ridge - Wounded Knee Massacre - Red Cloud - Hot Springs - Custer State Park (200 km)
- 5° giorno Sylvan Lake - Crazy Horse Memorial - Mount Rushmore - Rapid City - Homestake Mining Company - Deadwood (170 km)
- 6° giorno Deadwood - Scenic - Badlands National Park (90 km)
- 7° giorno Cedar Pass - Medora (510 km)
- 8° giorno Medora - Theodore Roosevelt National Park North Unit - Hardin (610 km)
- 9° giorno Hardin - Little Bighorn Battlefield National Monument - Cody (320 km)
- 10° giorno Cody - Grant Village - Jenny Lake (160 km)
- 11° giorno Jenny Lake - Grant Village - Yellowstone - Bozeman (190 km)
- 12° giorno Jenny Lake - Grant Village - Yellowstone - Bozeman (190 km)
- 13° giorno Bozeman - St. Mary - Glacier National Park - West Glacier Village - Kalispell (620 km)
- 14° giorno Kalispell - Seattle (520 km)
- 15° giorno Seattle
- 16° giorno Seattle - Milano Malpensa - Ticino
Durata del viaggio: 16 giorni
Operatore turistico: Organizzato in proprio
Attraverso il mitico Far West. Quello delle sterminate praterie, punteggiate di mandrie di bovini sorvegliate dai cowboys. Quello delle lunghe carovane che emigravano da est a ovest, spinte dalla speranza verso un futuro migliore. Quello delle tribù indiane dei Sioux e degli Cheyenne, che convissero pacificamente con l’uomo bianco fino a quando i visi pallidi non minarono nel profondo la loro vita e le loro tradizioni distruggendo gli equilibri naturali che garantivano cibo e attività vitali. Quello delle epiche e tristi battaglie tra il Settimo Cavalleggeri del generale Custer e i pellerossa guidati da Cavallo Pazzo e Toro Seduto. Quello dei rodei, che costituiscono ancora oggi una delle principali attrazioni, non solo turistiche.
È attraverso questo territorio, caratterizzato da paesaggi indimenticabili, che si sviluppa il nostro itinerario. Un percorso che intreccia pagine di storia degli Stati Uniti, a noi note perché narrate in capolavori cinematografici dedicati alla drammatica lotta tra poveri per la sopravvivenza: da una parte gli indiani diseredati del loro territorio e dall’altra centinaia di migliaia di coloni alla ricerca della terra promessa. Un itinerario che porterà però anche nei meravigliosi parchi nazionali del nord ovest (Grand Teton, Yellowstone e Glacier) per concludersi a Seattle, sede di Boeing e Microsoft (si veda anche «I parchi nazionali del Far West»).
Lo scontro fra due mondi
Due popoli, due culture, si sono affrontati e scontrati: da una parte guerrieri sobri e ascetici, scolpiti nel vento, nei monti e nelle praterie; dall’altra l’avanzare del progresso, laico, borghese, mercantile, industriale e democratico, forgiato e scolpito nell’acciaio e animato dal carbone. Persero i pellerossa che concepivano una vita dipendente e sottomessa alla natura, ritmata dalle stagioni e da tradizioni secolari. Vinsero i visi pallidi, che volevano dominare e sfruttare la natura: con ogni mezzo e a ogni costo. Quando la ferrovia portò il progresso e l’ordine sociale venne imposto dai tribunali, che applicavano le leggi dell’uomo bianco, gli ultimi guerrieri indiani furono rinchiusi nelle riserve. Riserve destinate ai nativi americani che esistono ancora oggi. Quando ci si inoltra in questi territori si entra in un altro mondo: povero, caratterizzato da auto sgangherate e da abitazioni trasandate. Segno che ancora a distanza di un secolo e mezzo da quel confronto impari l’integrazione degli indiani nella civiltà americana non è compiuta.
I rapporti tra l’uomo bianco e i nativi americani per lungo tempo furono pacifici. Questo avvenne fino a quando i visi pallidi erano rappresentati da un numero contenuto di esploratori, «trapper» o «mountain man» (uomini sensibili alla natura come gli indiani), pacifici missionari («black rober», vesti nere), artisti in cerca di ispirazione. Ma quando il numero di emigranti, iniziò ad aumentare a dismisura e soprattutto le terre sacre degli indiani furono invase da cacciatori di pellicce e da cercatori d’oro senza scrupoli, le relazioni amichevoli si trasformarono in ostilità e dopo il 1860 le tribù indiane iniziarono ad attaccare le carovane di pionieri che si dirigevano verso ovest spinti dal sogno di una vita migliore. Era lo scontro tra due civiltà: una radicata da secoli nel territorio e profondamente attenta alle leggi della natura, l’altra preoccupata soprattutto a conseguire guadagni senza preoccuparsi di distruggere quegli equilibri naturali che per secoli avevano garantito cibo e attività vitali agli indiani.
La svolta decisiva fu rappresentata dalla Gold Rush (la corsa all’oro), quando il governo degli Stati Uniti, che in un primo tempo cercò di contenere l’aggressività dei cercatori d’oro, nel 1875 decise di voltare le spalle agli indiani rimangiandosi importanti promesse fatte. Questo portò alla vivace reazione dei pellerossa, che decimarono il Settimo Cavalleggeri a Little Bighorn (1876), e alla successiva vendetta dell’uomo bianco, che culminò quattordici anni dopo nel massacro di Wounded Knee, dove, come scrisse più tardi il condottiero Alce Nera «morì il sogno di un popolo».
Introduzione al viaggio nei musei di Denver
Il nostro viaggio inizia da Denver, capitale dello stato del Colorado, collegata con voli aerei diretti da Londra e da altre capitali europee. Come molte altre cittadine che abbiamo visitato in seguito, è stata fondata nella seconda metà dell’Ottocento sulla spinta della corsa all’oro. Conta circa mezzo milione di abitanti ed è una delle otto città americane con squadre che militano in serie A nei quattro sport nazionali: baseball, basket, hockey e football. Durante l’annuale National Western Stock Show, uno dei maggiori spettacoli del genere, riesce a unire la tradizione del Far West ai tempi moderni. Denver è oggi un centro specializzato in servizi e alta tecnologia e, dopo Washington, è la seconda città americana con vocazione amministrativa. Il suo Civic Center ospita un campidoglio molto simile, sebbene in versione ridotta, a quello della capitale. Denver ospita anche due interessantissimi musei che introducono alle tematiche storiche del nostro viaggio. Il Denver Art Museum con due splendide sedi: una realizzata dall’italiano Gio Ponti, ispirata a una fortezza, e un’altra, recentissima, di Daniel Libeskind, che interpreta un fiore in titanio, granito e vetro. Vi sono esposte straordinarie collezioni di oggetti dei nativi americani e una mostra di opere d’arte dedicate al periodo della conquista del Far West. Il Denver History Museum presenta invece, sotto un profilo meno artistico ma più storico-didattico, la vita dei cowboys, degli indiani e dei colonizzatori.
Rocky Mountain National Park
Lasciamo la città il mattino di buon’ora, perché la tappa che ci attende è lunga e impegnativa, per dirigerci dapprima verso le montagne che hanno reso celebre lo stato del Colorado, grazie alle rinomate stazioni di sport invernali. Prima di giungere ad Aspen, la località più in voga, svoltiamo a destra verso il Rocky Mountain National Park, attraversato da una strada panoramica (Trail Ridge Road) di circa 80 chilometri, che sale fino a 3700 metri e attraversa un paesaggio montano con 100 vette sopra i 3000 metri. La strada, intervallata da idilliaci laghetti alpini, che si possono ammirare dai numerosi View Points, scende poi ripida verso le estese pianure del Far West, dove si trova Fort Laramie: il nostro primo importante incontro con la storia.
Sulle orme di Custer e delle carovane
Sede del mitico Settimo Cavalleggeri del generale Custer, il forte si compone di una dozzina di costruzioni sopravvissute al tempo, dove si possono visitare le residenze dei comandanti, degli ufficiali e dei soldati: qui tutto è rimasto intatto, manca solo il sibilo della trombetta che chiamava i militi all’adunata.
A pochi chilometri dal forte si visitano altri due luoghi suggestivi, che riconducono il visitatore alla seconda metà dell’Ottocento, quando su quei territori scorrevano lunghissime carovane di coloni dirette verso la terra promessa dell’Oregon: 400 mila persone, tra il 1841 e il 1869, si avventurarono da est a ovest. «Quando Dio creò l’uomo – scrisse un pioniere sul suo diario – sembrò avesse pensato di farlo a est per lasciarlo andare a ovest». Dove la roccia diventa collina è possibile vedere ancora le Oregon Trail Ruts, cioè i solchi scavati dalle migliaia di carri che transitarono in quel luogo. Poco distante, nel punto noto come Register Cliff, si possono osservare un centinaio di firme incise nella morbida roccia dai coloni in viaggio. Distante un’ottantina di chilometri verso est, a Scotts Bluff, si sale su una montagna rocciosa da cui si gode una spettacolare vista sulle sterminate e brulle pianure che attraversavano le carovane. Il silenzio del luogo fa galoppare l’immaginazione.
Dove morì il sogno di un popolo
Il quarto giorno del nostro intenso itinerario è quasi interamente dedicato al dramma della civiltà indiana. Ci dirigiamo verso la Pine Ridge Reservation, una delle più vaste riserve indiane degli Stati Uniti. E abbiamo l’impressione di entrare in un altro mondo: case abbandonate, auto scassate. Non ci vuole molto per rendersi conto, come scrivono le guide turistiche, che questa è una delle zone più arretrate degli Stati Uniti. Un chiaro segno che il problema dell’integrazione dei nativi americani, a distanza di un secolo e mezzo dalla conquista del Far West, non è ancora stato risolto. A pochi chilometri da Pine Ridge si visita il luogo in cui avvenne il massacro di Wounded Knee, che decretò la vittoria finale dei visi pallidi. Il 29 dicembre del 1890 il Settimo Cavalleggeri intercettò un gruppo di indiani in fuga dalla riserva e accampati in una valle. Intimò loro di consegnare le armi, ma durante un’ispezione partì accidentalmente un colpo dal fucile di un indiano e si scatenò il finimondo: 250 nativi americani, comprese donne e bambini, vennero massacrati dall’artiglieria appostata sulle colline.
Le parole finali di questa triste vicenda vennero scritte molti anni dopo da Alce Nero, il grande uomo sacro dei Sioux. «Non sapevo in quel momento che era la fine di tante cose. Quando guardo indietro, adesso, da questo alto monte della mia vecchiaia, vedo ancora le donne e i bambini massacrati, ammucchiati e sparsi lungo quel burrone serpeggiante. Nitidamente come li vidi con i miei occhi da giovane. E posso vedere che con loro morì un’altra cosa, laggiù, nella neve insanguinata, rimasta sepolta sotto la tempesta. Laggiù morì il sogno di un popolo. Era un bel sogno».
Black Hills, promessa tradita
La tappa successiva del nostro itinerario nel mitico Far West prevede la visita delle Black Hills, cuore autentico del Sud Dakota e luogo simbolo dello scontro tra pellerossa e visi pallidi. Questa terra, considerata luogo sacro e centro del mondo dai nativi americani, fu loro assegnata dal Trattato di Fort Laramie del 1868 con la garanzia che nessun uomo bianco l’avrebbe mai profanata. Ma appena 6 anni dopo, nel 1874, il governo di Washington disattese quella promessa e organizzò una spedizione condotta dal generale Custer, per esplorare le Black Hills. «Mi aspetto di visitare – scriveva Custer prima della partenza – una regione del paese non ancora vista da occhi umani a eccezione degli indiani, che la descrivono come straboccante di selvaggina di ogni genere, ricca di interessi scientifici e di una bellezza insuperabile come scenario naturale». Durante il suo viaggio il generale, oltre a tutto questo, scoprì anche la presenza di oro e la notizia rimbalzò immediatamente sulla stampa. Un giornale di Chicago scrisse: «Tutta la terra delle Black Hills è impregnata d’oro dalle radici d’erba in giù». Questa informazione scatenò le brame dei cercatori del prezioso metallo, che si precipitarono in quelle terre tanto care agli indiani invadendone le dolci colline. Il governo americano dapprima cercò di scoraggiarli, ma nel 1875 rinunciò a far rispettare quanto promesso ai pellerossa nel Trattato di Fort Laramie. La vigorosa reazione indiana culminò nella battaglia di Little Bighorn, dove venne decimato il Settimo Cavalleggeri.
La parte più bella della regione è quella compresa nel Custer State Park, attraversato da due spettacolari strade panoramiche: Wildlife Loop Road (29 km) e Needles Highway Scenic Drive (23 km). Il paesaggio è caratterizzato da un altipiano intervallato da armoniose colline, dove pascolano placidamente numerosi bisonti, e da montagne rocciose composte di spettacolari guglie e pinnacoli. Oltre il parco, le Black Hills giustificano il loro nome di «colline nere» con una fitta vegetazione di boschi scuri. Uno dei panorami più idilliaci è certamente quello del Sylvan Lake situato nei pressi dell’ingresso nord del parco.
I cactus di pietra del Badlands National Park
Il nostro viaggio prosegue verso Badlands National Park, un’altra meraviglia paesaggistica: forse la più spettacolare di tutto il viaggio. Partendo dalla località Scenic si percorre dapprima la Sage Creek Road e quindi la Badlands Loop Road, dove le praterie lasciano spazio a scenografiche colline rocciose, che a seconda delle ore del giorno assumono i colori pastello di una variopinta tavolozza: varie tonalità di rosa e rosso, azzurrognolo, verderame, sabbie color castano, ossido di ferro arancione e cenere vulcanica bianca. Le forme di queste montagnette sono bizzarre: pinnacoli, guglie che sembrano spuntare come cactus dall’arido terreno, creste seghettate. E lo spettacolo si protrae per una sessantina di chilometri con numerosi View Points, dai quali partono passeggiate di ogni genere.
I presidenti USA scolpiti nella montagna
Il giorno seguente ci rituffiamo nella storia. Iniziamo dal Mount Rushmore National Park, nelle Black Hills, dove batte il cuore dei patrioti a stelle e strisce. Dal 1927 al 1941 l’artista americano Gutzon Borglum, con l’aiuto di 400 minatori ed esperti di esplosivo, ha scolpito nella montagna i visi di quattro storici presidenti americani: George Washington, il primo inquilino della Casa Bianca, Thomas Jefferson, autore della Dichiarazione di indipendenza, Abraham Lincoln, che pose fine alla schiavitù e Theodore Roosevelt, promulgatore di riforme chiave di politica ambientale ed economica. Il luogo scelto per realizzare questa monumentale opera per celebrare lo stato americano non è davvero dei più appropriati se si pensa alla storia delle Black Hills e ai torti commessi da quello stesso stato nei confronti dei nativi americani.
Cavallo Pazzo, pure lui scolpito nella roccia
Per sottolinearlo, a mezz’ora di strada, «per far sapere all’uomo bianco che anche i pellerossa hanno i loro eroi», nel 1948 i Sioux hanno incaricato l’artista di origine polacca Korczak Ziolkowski di scolpire, in un’altra montagna delle Black Hills, Cavallo Pazzo (il condottiero di Little Bighorn) in sella al suo cavallo con il dito puntato verso «la mia terra, dove sono sepolti i miei morti». Ma se a Mount Rushmore l'opera dedicata ai quattro storici presidenti americani è stata realizzata in 14 anni, del Crazy Horse Memorial, dopo oltre 70 anni è stato scolpito appena il volto del capo indiano, anche perché orgogliosamente non vengono accettati aiuti statali. Un chiaro segnale che il passato non è ancora stato dimenticato!
Rapid City, la città della corsa all’oro
Nella vicina città di Rapid City, fondata come luogo base di approvvigionamento per i cercatori d’oro, si può visitare il modernissimo e molto didattico Journey Museum, dedicato alla vita delle tribù indiane delle Black Hills e alla conquista del Far West, con una sezione sulla spedizione del generale Custer e una sulla costruzione della ferrovia.
Proseguiamo verso il tipico villaggio di Deadwood, altra creazione della Gold Rush, e alle sue porte, a Lead, ci fermiamo a un punto panoramico per osservare Homestake Gold Mine, una miniera d’oro aperta nel 1876 e rimasta in attività fino al 2001: impressionante il varco di 1300 metri di lunghezza, 400 di larghezza e 150 di profondità scavato dall’uomo alla ricerca del metallo prezioso. Sulla Main Street di Deadwood si allineavano ai tempi 53 saloon e 33 bordelli, dove i cercatori d’oro potevano spendere le loro fortune. Al numero 10 l’Old Style Saloon è rimasto intatto, sebbene restaurato. Fu in questo locale che avvenne l’assassinio di Wild Bill Hickok, uno dei pistoleri più veloci di tutto il Far West. Sceriffo, scout dell’esercito e giocatore professionista si trasferì a Deadwood nel 1876 per spennare i cercatori d’oro. Solitamente non si sedeva mai con la schiena rivolta verso l’entrata, ma quella sera lo fece e venne freddato mentre giocava a poker e teneva in mano una doppia coppia nera di assi e di otto. Da allora quella venne definita «la mano del morto» e da alcuni anni nella cittadina ogni sera alle 20 l’assassinio viene rievocato con tanto di attori, che poi si trasferiscono nel luogo in cui fu processato il colpevole.
Theodore Roosevelt National Park
Circa quattro ore di automobile, su strade diritte come quelle che si vedono nei film «On the Road» attraverso un paesaggio piano ma mai monotono, ci separano dal Theodore Roosevelt National Park, eremo di uno di quei quattro presidenti di cui abbiamo visto il viso scolpito nella roccia a Mount Rushmore. Il Parco è suddiviso in due parti, sud e nord, distanti un centinaio di chilometri l’una dall’altra ed entrambe attraversate da strade panoramiche. Il tormentato paesaggio è di una desolata bellezza. Altipiani verdi e praterie si alternano a dirupi scoscesi, gole vertiginose, trafori e merletti preziosi modellati nel corso dei secoli dal vento, dall’acqua e dal ghiaccio.
Little Bighorn Battlefield National Monument
Proseguiamo e in cinque ore di viaggio raggiungiamo Little Bighorn Battlefield National Monument, il luogo in cui il generale Custer, alla testa del suo mitico Settimo Cavalleggeri, perse la vita in battaglia contro gli indiani riportando un’umiliante sconfitta: 272 militi rimasero sul campo. Sul luogo diversi pannelli illustrano le strategie militari delle casacche blu e dei pellerossa.
Cody, la città fondata da Buffalo Bill
Proseguiamo per Cody, la città fondata nel 1895 da Buffalo Bill, l’uomo che creò ad arte il mito del Far West, con il suo spettacolo, che portò in giro per il mondo. A Cody si respira un’atmosfera particolare e molto caratteristica. Qui si coniugano perfettamente le tradizioni legate alla figura del cowboy con la modernità della gestione turistica, il rispetto del passato e dei suoi riti con il desiderio di proporsi come punto di riferimento culturale grazie al modernissimo museo dedicato al suo fondatore e ai nativi americani. Nella prima parte del museo si racconta come Buffalo Bill costruì il mito del lontano West. Nella seconda parte, immersi in un ambiente di luci soffuse con cantilene indiane in sottofondo, si viene invece sapientemente guidati nella realtà culturale dei Sioux e di altre tribù. Ma non solo, un’ampia sezione è dedicata alla presenza indiana nella cultura a stelle e strisce.
A Cody si può anche visitare un tipico villaggio del Far West di fine Ottocento ricostruito con antichi edifici, provenienti da varie parti della regione, sul luogo in cui sorsero le prime abitazioni volute da Buffalo Bill. «Last but non least», soprattutto nelle serate estive, vengono organizzati spettacoli di rodeo.
Buffalo Bill, l’inventore del selvaggio West
All’origine della storia di Cody stanno le idee di un visionario, William Frederick Cody (Buffalo Bill), un precursore del moderno marketing, che creò il mito del «selvaggio West» grazie al suo spettacolo. Una sorta di circo, che portò in giro per tutto il mondo, Europa compresa, le storie incredibilmente affascinanti del Nuovo Mondo con diligenze e fuorilegge, cowboys e cavalli imbizzarriti, oltre naturalmente a Buffalo Bill accompagnato da Annie Oakley, la pistolera più veloce dell’Ovest, e più tardi anche da Sitting Bull, il leggendario Toro Seduto che sconfisse il generale Custer a Little Bighorn.
La maggior parte dei suoi lauti guadagni William Frederick Cody la destinò generosamente alla costruzione della sua città, dove aprì anche The Irma Hotel – tuttora attivo ma purtroppo decadente – in onore di una figlia. Ma Buffalo Bill aveva un punto debole: non sapeva gestire il denaro. Morì così in povertà a Denver. Nonostante questa fine ingloriosa William F. Cody visse una vita intensa e avventurosa frequentando non solo mitici pionieri come Kit Carson o Jim Bridger, ma anche capi di stato come il presidente Theodore Roosevelt o la regina d’Inghilterra e uomini di cultura come Mark Twain. La sua figura rappresenta il tipico personaggio della prateria e incarna quell’intraprendenza che appartiene al cittadino americano: da mendicante a re, attraverso il coraggio e l’iniziativa. È questo il messaggio che Buffalo Bill ha cercato di trasmettere.
La sua biografia è intensissima e ha ispirato ben 800 libri. A 8 anni salvò la vita al padre, pugnalato a un comizio contro la schiavitù, trasportandolo per 56 chilometri in sella a un cavallo. Il suo primo impiego lo ottenne a soli 11 anni come «pony express», un precursore a cavallo del moderno DHL. Lavorò quindi con le casacche blu del generale Custer come esploratore. Diventò in seguito cacciatore di bisonti – da qui il suo nome – e in soli 8 mesi ne abbatté 4280. All’età di 26 anni iniziò la sua carriera nello spettacolo che lo portò alcuni anni più tardi a fondare il Wild West show riscuotendo consensi e successi in tutto il mondo.
Il suo atteggiamento verso i pellerossa fu contradditorio. Dopo la morte di Custer a Little Bighorn uccise il capo Yellow Hand (Mano Gialla) e alzò il suo scalpo al grido: «Il primo scalpo per Custer!». Ma prima di morire, grazie forse all’amicizia con Toro Seduto, dichiarò: «Nove volte su dieci, quando sorgono problemi tra uomini bianchi e indiani, la colpa è dell’uomo bianco…».
Grand Teton National Park
Il nostro viaggio prosegue verso il Grand Teton National Park attraversando dapprima la zona est dello Yellowstone National Park. Costeggiamo per alcuni chilometri il vastissimo Yellowstone Lake, definito dal primo esploratore bianco che visitò questo territorio, un «inland sea», cioè un mare racchiuso dalla terra, date le sue notevoli dimensioni (177 km di sviluppo costiero). E abbiamo subito un primo spettacolare incontro con i fenomeni geologici di Yellowstone. A una ventina di chilometri da West Thumb incontriamo i primi geyser che si trovano sulla riva del lago. Qui si racconta una divertente storia con protagonista Jim Bridger, un leggendario «mountain man», il quale si vantava di pescare le sue prede nella profondità del lago per poi metterle subito a bollire nelle pentole a pressione naturali – leggi geyser – che si trovavano alle sue spalle.
Ma proseguiamo verso il Grand Teton, a Yellowstone torneremo in seguito. La meraviglia del Grand Teton è costituita dalla catena montuosa che si estende per oltre 60 chilometri da sud a nord con picchi selvaggi, laghetti alpini, ruscelli, zone paludose e ampi altipiani. I picchi più spettacolari, definiti Teewinot cioè «molti pinnacoli» dagli indiani, che in quel territorio andavano a cacciare in estate, sono poi stati ribattezzati Les trois tétons, cioè «le tre tettone» dai cacciatori di pellicce bianchi del primo Ottocento. Sono il risultato di un fenomeno di erosione che ha raschiato la tenera arenaria delle cime riempiendo gradualmente la valle sottostante di sedimenti. Ne è sortita una forma davvero spettacolare, che si può ammirare da diversi View Points lungo le rive del lago, percorrendo la Jenny Lake Scenic Drive, oppure salendo al belvedere che si trova alla fine della Signal Mountain Summit Road.
Geyser e canyon a Yellowstone
Ripercorriamo la stessa strada che abbiamo seguito per arrivare al Grand Teton e torniamo allo Yellowstone: il primo parco nazionale realizzato al mondo nel 1872 e il più grande degli Stati Uniti. Si sviluppa su un’antica zona vulcanica con un’estensione di 75 chilometri di lunghezza e 45 di larghezza. Ci dirigiamo subito verso la sua attrazione principale: Old Faithful, ovvero il «vecchio fedele», perché da 120 anni questo geyser erutta con regolarità ogni 65-91 minuti con uno spruzzo alto 40-50 metri per un minimo di 90 secondi fino a 5 minuti. Lo spettacolo è quindi garantito e in più posti è indicato l’orario della successiva sbuffata. Migliaia di turisti vi si siedono attorno a semicerchio per assistere alla «rappresentazione». Vicino all’Old Faithful si trovano molti altri geyser collegati tra loro da una comoda passeggiata su passerelle in legno. Molti gorgogliano, altri sbuffano producendo uno spruzzo alto alcuni centimetri e con un po' di fortuna se ne possono osservare di più imponenti in azione, ma nessuno conosce i tempi del loro spettacolo.
Ma come lavorano i geyser? Il loro sistema idraulico è molto vicino alla superficie terrestre, generalmente a 30-40 metri di profondità. È costituito da una specie di canale naturale che sale verso la superficie e collega la «camera», i canali laterali e le rocce porose. In queste cavità è presente una certa quantità di acqua che, per effetto del calore prodotto dalle rocce magmatiche circostanti, si infila nel canale centrale alla ricerca di uno sbocco. L’energia che si crea trasforma buona parte dell’acqua in vapore che fuoriesce con forza.
Per una ventina di chilometri a nord di Old Faithful, seguendo la Grand Loop Road che percorre tutto il parco disegnando un ampio 8, si possono ammirare altri geyser. Alcuni sono inattivi e hanno l’aspetto di un quadro moderno dipinto sul terreno dove si mescolano brillanti colori, creando spettacolari cromatismi. In realtà sono i minerali come il ferro, il solfato di idrogeno e il diossido di carbonio a colorare di rosso, giallo, rosa pallido e verde la superficie dei bacini d’acqua calda. Uno spettacolo che si rinnova a Mammoth Hot Springs, dove si sono create una serie di spettacolari terrazze su cui scorre acqua proveniente da fonti sotterranee, che venendo a contatto con l’atmosfera produce un magico gioco di forme e di colori. Un percorso di passerelle in legno permette di osservare da vicino queste straordinarie opere d’arte della natura.
Al Grand Canyon di Yellowstone ci attende un’altra sorpresa indimenticabile. «…Il posto dove riuscii a conquistare la più bella e terribile vista del canyon fu un punto stretto situato due o tre miglia sotto la Lower Falls. Restando là, prima in piedi, poi sdraiato per ottenere maggiore sicurezza, pensavo come sarebbe stato impossibile descrivere a qualcun altro la sensazione che si può provare in posti come questo. Guardavo intorno a me e capivo la mia piccolezza, la mia povertà umana, o meglio la mia impossibilità a comprendere i grandi disegni della natura…». Queste parole scritte da Nathaniel P. Langford, membro di una delle prime spedizioni nel territorio di Yellowstone, nel 1870, descrivono esattamente l’impressione che si prova ancora oggi osservando quello spettacolo dall’Artist Point, un comodo belvedere che si raggiunge in automobile, così come dall’Inspiration Point da cui si godono splendidi panorami dall’alto sul paesaggio roccioso e sulle imponenti cascate.
Allontanandosi di poco dal canyon in direzione della Hayden Valley il paesaggio cambia completamente: foreste e prati con armoniosi laghetti rendono possibile la vita per molti animali che si incontrano percorrendo la Grand Loop Road: bisonti, coyote, alci, renne e orsi (ai quali è caldamente sconsigliato avvicinarsi, ma si possono osservare da lontano).
Glacier National Park
Oltre 500 chilometri separano Yellowstone dal Glacier National Park. La strada attraversa diritta le immense pianure del Montana, il «Big Sky Country», intervallate da rare «farms e ranches». Man mano che ci si avvicina al parco si ammirano all’orizzonte le cime ghiacciate delle sue montagne che si innalzano sopra la sterminata pianura coltivata e adatta all’allevamento del bestiame. La Going-to-the-Sun Road, costruita negli anni Trenta e ora monumento nazionale, attraversa il parco da est a ovest su una lunghezza di 80 chilometri salendo per mille metri fino allo spartiacque continentale in corrispondenza con il passo Logan, dove in estate gli ampi prati sono ricoperti da graziosi fiori selvatici. La strada attraversa il territorio che la tribù dei Piedi Neri definiva «la terra delle montagne luccicanti». Si tratta di un luogo di grande suggestione con ghiacciai incastonati sulle vette, cime frastagliate, creste affilate come coltelli, suggestivi laghi glaciali che si trovano alle due estremità della strada panoramica, valli selvagge ricoperte da una vegetazione di verde intenso dove bisonti, orsi, capre di montagna e altre centinaia di specie animali si aggirano indisturbati.
Il nostro lungo itinerario nel nord ovest degli Stati Uniti si conclude nella modernissima Seattle, che raggiungiamo attraversando, dopo il Colorado, gli stati di Idaho e Washington.
Seattle, tra cultura e industria
Una città ricca, moderna, dinamica, che alla fine del XX secolo divenne leader nel settore dell’high-tech, grazie alla presenza del colosso Microsoft. Da più lungo tempo è invece una delle capitali mondiali dell’aviazione perché ospita gli stabilimenti della Boeing. Queste presenze industriali ne determinano certamente la ricchezza, che favorisce anche una vita culturale tra le più vivaci degli Stati Uniti. La vastissima area del Seattle Center, collegata al centro città con una veloce monorotaia, ospitò negli anni Sessanta un’esposizione mondiale dedicata al futuro. Oggi propone una vasta offerta di teatri, musei, un parco divertimenti e un palazzetto dello sport, nonché la celebre Space Needle, la torre alta 190 metri da cui si gode una splendida vista sulla città e sullo magnifico paesaggio in cui è inserita, con lo scenografico Mount Rainier a est e le imponenti montagne dell’Olympic National Park a ovest. Da non perdere, accanto alla torre, il museo Chihuly Garden and Glass, dedicato all’artista locale Dale Chihuly che realizza straordinarie e monumentali opere in vetro soffiato. Il centro storico della città, con palazzi restaurati risalenti a fine Ottocento-inizio Novecento, si raccoglie attorno a Pioneer Square, il centro moderno si è invece sviluppato attorno a Pike Place Market, da cui si diramano pittoresche viuzze che ospitano un animato e variopinto mercato con annessi caffè, negozietti d’arte e d’artigianato.
Per saperne di più
- Usa ovest, La Guida Verde Michelin, Milano 2010
- Wyoming, Edimar Editrice, Milano 1995
- North & South Dakota, Edimar Editrice, Milano 1997
- Montana, Edimar Editrice, Milano 1996
- Stati Uniti occidentali, Lonely Planet, Torino 2008
- Etats-Unis Centre e Ouest, Guides Bleues, Paris 1999
- Stati Uniti occidentali, aVallardi, Milano 2009
- Yellowstone Country, National Geographic 1997