America del Sud / Cile

Isola di Pasqua. Una storia avvolta nel mistero

In questo angolino di terra, isolato per secoli dal resto del pianeta, ha vissuto una civiltà che ha prodotto incredibili opere d’arte, creando un museo a cielo aperto davvero unico
Giò Rezzonico
23.10.2023 12:00

Itinerario

Ottobre 2023

  • 1° giorno          Milano – Santa Cruz
  • 2° giorno          Santa Cruz – Sucre
  • 3° giorno          Sucre – Cayara
  • 4° giorno          Potosí
  • 5° giorno          Potosí – Colchani
  • 6° giorno          Colchani – Salar de Uyuni – Colchani
  • 7° giorno          Colchani – Salar de Uyuni – Villamar
  • 8° giorno          Villamar – Laguna Blanca – Laguna Verde – Hito Cajon – La Valle della Luna
  • 9° giorno          Le Lagune Altoplaniche
  • 10° giorno        Il Geyser Del Tatio – Calama – Santiago
  • 11° giorno        Santiago De Chile – Rapa Nui
  • 12° giorno        Rapa Nui
  • 13° giorno        Rapa Nui
  • 14° giorno        Rapa Nui
  • 15° giorno        Rapa Nui – Santiago De Chile
  • 16° giorno        Santiago De Chile – Milano
  • 17° giorno        Arrivo a Milano

 

Durata del viaggio: 17 giorni

Operatore turistico: Kel12

 

 

Nulla è certo. Da dove venivano gli abitanti dell’Isola di Pasqua? Come vivevano? Come facevano a trasportare statue che pesavano tonnellate? E perché a un certo momento vennero distrutte? Tutto è avvolto nel mistero. Questo ha permesso di formulare anche ipotesi assurde o fantasiose, senza nessuna base scientifica. Circostanze che hanno certamente contribuito ad alimentare un alone di fascino attorno a questa minuscola isola sperduta nell’Oceano Pacifico, a 5 ore di volo dai luoghi più vicini, sia del Cile, sia dell'arcipelago polinesiano francese. Definita «fine della terra» o «ombelico del mondo», è uno dei luoghi più discosti del globo, un puntino nel mappamondo: è più piccola dell’Isola d’Elba. Eppure in questo angolino della terra, isolato per secoli dal resto del pianeta, ha vissuto una civiltà che ha prodotto incredibili opere d’arte. I geologi ritengono che l’isola sia emersa dal mare 750 mila anni fa dall’eruzione di un vulcano, che si trova a 2 mila metri di profondità. L’isola ha forma triangolare, – i suoi lati misurano 24, 18 e 16 chilometri – simile a una piccola Sicilia, ed è delimitata da tre vulcani alle sue estremità. La sua temperatura media annua, con poche oscillazioni, è di 23 gradi e conta 7 mila abitanti, che vivono perlopiù di turismo.

 

Certezze e ipotesi

Sono davvero poche le conoscenze con fondamento scientifico sulle origini di questa civiltà. La prima riguarda l’epoca in cui giunsero sull’isola i primi abitanti: sono infatti state ritrovate ossa umane risalenti al 600 dopo Cristo. La seconda è legata alle testimonianze degli esploratori che sbarcarono sull’isola a partire dal 1722. La terza, anche se non è una certezza, riguarda le origini dei primi abitanti. L’etnologo francese Alfred Métraux (1902-1963), conclude il suo volume «L’isola di Pasqua, i misteri del più grande enigma preistorico» con queste parole: «Su questo isolotto, il più isolato del mondo, un gruppo di polinesiani, venuti senza dubbio dalle Marchesi, sono riusciti a dare una forma nuova e originale alla cultura, che essi avevano ereditato dai loro antenati della Polinesia centrale». Nel 1999 alcuni studiosi hanno ripercorso quel viaggio a bordo di imbarcazioni ricostruite in base a modelli utilizzati anticamente in Polinesia e hanno impiegato 20 giorni di navigazione. D’altra parte una guida nativa di Bora Bora, che accompagnava la spedizione di Cook, uno dei primi esploratori a mettere piede sull’isola nel 1774, riuscì a comunicare con gli abitanti dell’isola parlando la sua lingua.

Le testimonianze di Cook e quelle di altri esploratori ci forniscono importanti informazioni sulla civiltà Rapa Nui. Si sa, ad esempio, che probabilmente gli indigeni erano divisi in due tribù, una dell’est e una dell’ovest ed erano organizzati in base a una gerarchia sociale che vedeva all’apice il re, seguito dai sacerdoti, dai nobili e dai guerrieri. Il popolo e gli schiavi rappresentavano l’ultimo gradino della piramide. I tatuaggi erano molto diffusi tra gli indigeni. Vigeva la poligamia, ma solo appannaggio delle classi più elevate. Sono state ritrovate una ventina di tavolette di legno, incise con una scrittura che nessuno fino ad oggi è riuscito a decifrare. I suoi simboli, salvo rare eccezioni - osservano gli esperti - sono identici su ogni tavoletta: rappresentano uccelli, pesci, crostacei, piante, oggetti dalle forme più sgraziate, infine disegni puramente geometrici. Quando i primi evangelizzatori giunsero sull’isola non faticarono a diffondere il cattolicesimo, segno che la religione autoctona era in fase decadente. Rimangono comunque tuttora tradizioni che si ispirano alle grandi divinità della natura, a dèi locali e agli spiriti del bene e del male.

 

Colossi di pietra

 «Il miracolo dell’Isola di Pasqua» –  secondo Alfred Métraux, uno dei maestri dell’etnologia moderna – consiste nella «vertigine del colossale su di un universo minuscolo presso uomini con risorse limitatissime». L’olandese Jakob Roggevee, il primo occidentale che mise piede sull’isola nel 1772, scrisse sul giornale di bordo: «Queste figure di pietra ci riempirono di meraviglia perché non riuscivamo a renderci conto come uomini sprovvisti di grosse leve e di funi fossero riusciti a sollevarle».

I mohai, testoni in pietra diventati simbolo dell’isola, pesano fino a 25 tonnellate ed erano trasportati per chilometri partendo dalla cava dove venivano scolpiti. Giunti sul posto predestinato, quasi sempre in avvallamenti in riva al mare, venivano eretti su una piattaforma preparata in precedenza. Vi si apponeva poi un cappello in pietra rossa, proveniente da un’altra cava, pure del peso di alcune tonnellate. Infine si aggiungevano gli occhi in corallo bianco. Le statue volgevano le spalle all’oceano ed erano orientate verso la comunità, quasi volessero proteggerla. Si pensa rappresentassero personaggi meritevoli della società, sepolti nella piattaforma funebre in pietra finemente lavorata. Questo culto degli antenati, secondo gli antropologi, è perfettamente coerente con la tradizione polinesiana.

Le statue venivano scolpite direttamente nella pietra della cava di Rano Raraku. Gli scultori appartenevano a una casta privilegiata, che poteva dedicarsi interamente alla propria attività artistica. Al loro sostentamento pensava la società.

Su come venivano trasportate le statue e collocati i «cappelli» permane un mistero, sebbene siano state sviluppate un’infinità di teorie, su cui non ha senso soffermarsi.

Quando, a partire dalla fine del XVIII secolo, i primi esploratori sbarcarono sull’isola, gran parte dei mohai giaceva a terra con la pancia in giù. Quelle che oggi vediamo in piedi sono state sollevate con l’ausilio di gru dagli archeologi. Si pensa che le statue furono abbattute da tribù in guerra tra loro attorno alla fine del XVII secolo, quando la società Rapa Nui visse una grossa crisi socio-economica che (sembra) comportò pure episodi di cannibalismo. Causa di queste guerre e della conseguente decadenza furono probabilmente la sovrappopolazione e la deforestazione. Anticamente, infatti, l’isola era ricoperta da boschi tropicali costituiti da una specie di palme tra le più alte al mondo. Gradualmente venne a mancare questa materia prima indispensabile per fabbricare imbarcazioni (utili per la pesca e per eventuali scambi con isole polinesiane), per le costruzioni, per l’uso combustibile e, forse anche, per il trasporto dei mohai. Risulta quindi evidente come una società in grave difficoltà non potesse più permettersi il lusso di creare dispendiosi colossi in pietra.

 

Una nuova civiltà

In seguito ai disordini creatisi a partire dalla fine del XVII secolo si affermò sull’isola una nuova civiltà, che forse all’inizio coesistette con quella precedente e si protrasse fino al 1878, quando venne soppressa dai missionari cattolici. Il suo momento culmine nel corso dell’anno ruotava attorno alla cosiddetta cerimonia dell’Uomo uccello, di cui si hanno numerose testimonianze, soprattutto da parte degli evangelizzatori. Una cerimonia – spiega Métraux – che  si teneva durante l’equinozio di settembre e «non aveva soltanto un profondo significato religioso, ma influiva profondamente anche sulla vita sociale dell’isola». L’Uomo uccello finiva infatti per esercitare il suo potere, al limite della tirannia, su una parte o su tutto il territorio.

I capi dei vari clan si riunivano per alcune settimane in una quarantina di capanne costruite sulla cresta del vulcano Rano Kau, nel villaggio di Orongo a picco sul mare. Distanti un paio di chilometri sorgono tre scogli, dove nidificano gli uccelli migratori. Obiettivo della contesa era quello di scovare il primo uovo deposto e di riportarlo sull’isola. Come spiega Métraux, l’uovo rappresentava «l’incarnazione del dio Makemake e l’espressione tangibile di forze religiose e sociali di grande intensità». Chi si impossessava per primo del bottino godeva infatti il favore degli dei. I capi delle varie tribù sceglievano così accuratamente i loro uomini disposti a scendere dapprima verso il mare, affrontando una ripida e spigolosa scogliera, e quindi a nuotare nelle acque infestate dagli squali fino all’isolotto di Motu Nui, dove aspettavano di impossessarsi del pretigioso tesoro. Nel frattempo i capi tribù attendevano pazientemente l’esito della gara a Orongo, dedicandosi a danze, canti e preghiere. Chi scovava il primo uovo tornava a nuoto sull’isola gridando il nome del suo signore, che diventava l’Uomo uccello dell’anno. A questo punto iniziavano i festeggiamenti, che assumevano anche risvolti violenti, secondo molti autori, con il sacrificio di vite umane designate dai sacerdoti e dallo stesso Uomo uccello.

 

Arrivano gli occidentali

L’arrivo degli occidentali, ahimé, sull’isola di Pasqua come altrove salvo rare eccezioni, non portò proprio nulla di buono. Le prime notizie di uno sbarco risalgono al giorno di Pasqua (da qui il nome) del 1722, quando il navigatore olandese Roggeveen scese dalla sua nave Arena per salire su una scialuppa e raggiungere un’isoletta sperduta nell’oceano. Cinquantadue anni dopo il capitano britannico James Cook rimase affascinato per il «contrasto fra quelle grandiose vestigia e quella piccola terra, brulla, coperta di scorie e abitata da una popolazione poco numerosa e senza risorse». Si succedettero altre spedizioni di esploratori sedotti dai misteri di quella civiltà. La manifestazione dell’arroganza occidentale non si fece però attendere a lungo. Nel 1808, dopo un sanguinoso combattimento, l’equipaggio della nave americana Nancy rapì 12 uomini e altrettante donne e li imprigionò nella stiva per venderli come schiavi e impiegarli nella caccia alle foche. Ma non appena liberati questi sfortunati si tuffarono in mare e furono abbandonati al loro destino. Da allora le navi che ancoravano al largo dell’isola venivano accolte con ostilità. Cinquantaquattro anni dopo, il 12 dicembre 1862, cacciatori di schiavi, ricorrendo a vili inganni, riuscirono a rapire 1'900 indigeni per schiavizzarli e impiegarli nei giacimenti di guano sulla costa peruviana. Dopo pochi mesi, a causa delle malattie e dei maltrattamenti, ne erano rimasti in vita un centinaio. In seguito all’intervento del vescovo di Tahiti, questi ultimi vennero imbarcati per essere rimpatriati. La maggior parte di loro morì però di tubercolosi e di vaiolo durante il viaggio. Sbarcarono sull'isola di Pasqua solo in quindici. Malati, contagiarono la popolazione, che si ridusse così a poche centinaia di abitanti. La maggior parte dei membri della classe sacerdotale, osserva Métraux, scomparve portando con sé i segreti del passato. Vennero sostituiti dai missionari cattolici, che non ebbero difficoltà a diffondere il proprio credo.

Ma la storia non finisce qui. Gli indigeni rimasti dovettero ancora fare i conti con un commerciante francese, avido, violento e senza scrupoli, che li schiavizzò, finché non venne assassinato. Il governo cileno, con un’annessione unilaterale, nel 1888 si proclamò proprietario dell’isola e la concesse in gestione per oltre sessant’anni a una compagnia laniera britannica, che la governò secondo i propri interessi. La concessione fu revocata nel 1953, ma una legge impediva agli indigeni di lasciare l’isola. Solo a partire dal 1964 agli abitanti dell’isola venne concessa la cittadinanza cilena e il diritto di voto. Non soddisfatti di questa appartenenza, molti Rapa Nui chiedono maggiore autonomia e, alcuni, l’indipendenza.

 

Turisti sull’isola

Ricordo che da giovane vidi delle immagini e lessi un articolo su una rivista per ragazzi dedicati all’Isola di Pasqua e ne rimasi affascinato. Da allora desideravo visitarla, ma ho atteso fino all’alba dei 75 anni. L’isola è piccola e in automobile ci si sposta da un capo all’altro in meno di mezz’ora. Vale però la pena di pensare a una permanenza di alcuni giorni, per avere il tempo di assimilare il suo suggestivo paesaggio, anche percorrendo piccoli trekking.

La cittadina di Hanga Roa è poco interessante, salvo il museo etnografico (che durante il mio soggiorno era chiuso per sciopero) e una spiaggetta vicina al porto, abitata da simpatiche tartarughe d’acqua, che si lasciano facilmente avvicinare. Sono numerosi i mohai, in parte restaurati, rimessi in piedi dagli archeologi nei luoghi dove erano stati abbattuti. Quelli sulla costa settentrionale sono particolarmente suggestivi al tramondo, mentre quelli rivolti a sud si tingono all’alba dei colori infuocati del cielo. È molto suggestivo anche il mondo delle grotte di origine vulcanica, dove si possono percorrere lunghi tunnel naturali sotterranei, alcuni dei quali sbucano sugli scogli. Nel corso dei secoli hanno ospitato gli indigeni che cercavano rifugio dalle incursioni dei pirati o da guerre interne tra tribù.

Indimenticabile la visita alla cava di Rano Raraku, dove venivano scolpiti nella roccia viva i mohai dalle pance arrotondate, dai menti appuntiti e dalle labbra e nasi sottili. Se ne vedono decine e decine scolpiti, alcuni incompiuti, rimasti nella roccia, altri eretti, ma sepolti a metà dal passare del tempo e pronti per essere trasportati: una vera magia! «Si cammina attraverso la cava – racconta Métrax che la visitò quasi un secolo fa – come se fosse giorno di riposo: gli operai sono andati al villaggio, ma domani ritorneranno e i fianchi della montagna risuoneranno nuovamente dei colpi di piccone; si sentiranno le risate, le discussioni e i canti ritmati degli uomini al lavoro». Questo luogo ha mantenuto il suo fascino fino ad oggi, se si riesce fare astrazione dalla presenza dei turisti.

Meno suggestiva la cava di Puna Pau, all’interno dell’isola, dove venivano scolpiti i cappelli in pietra rossa. Anche qui alcuni attendono invano da secoli di raggiungere la loro destinazione.

Tra le passeggiate più suggestive consiglio quella che partendo dal sito di Ahu Vinapu a sud-ovest percorre la costa rocciosa, sale al vulcano Rano Kau (410 metri), camminando attorno alla sua caldera, per giungere poi al villaggio di Orongo, con splendia vista sugli isolotti rocciosi dove si svolgeva la suggestiva cerimonia dell’Uomo Uccello.

 

 

Per saperne di più

  • Bolivia, Polaris Guide, Faenza 2017
  • Bolivie, Petit Futé, Paris 2023
  • Luca Nardi, Un mese a testa in giù, Libreria Geografica, Novara 2021
  • Luca Belcastro, Viaggio al Salar de Uyuni
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