America del Sud / Bolivia

Tra colonialismo e natura

Un itinerario nella parte centrale della Bolivia, alla scoperta delle città coloniali di Sucre e di Potosì, per giungere al Salar de Uyuni, il lago salato più esteso al mondo
Giò Rezzonico
23.10.2023 12:00

Itinerario

Ottobre 2023

  • 1° giorno          Milano – Santa Cruz
  • 2° giorno          Santa Cruz – Sucre
  • 3° giorno          Sucre – Cayara
  • 4° giorno          Potosí
  • 5° giorno          Potosí – Colchani
  • 6° giorno          Colchani – Salar de Uyuni – Colchani
  • 7° giorno          Colchani – Salar de Uyuni – Villamar
  • 8° giorno          Villamar – Laguna Blanca – Laguna Verde – Hito Cajon – La Valle della Luna
  • 9° giorno          Le Lagune Altoplaniche
  • 10° giorno        Il Geyser Del Tatio – Calama – Santiago
  • 11° giorno        Santiago De Chile – Rapa Nui
  • 12° giorno        Rapa Nui
  • 13° giorno        Rapa Nui
  • 14° giorno        Rapa Nui
  • 15° giorno        Rapa Nui – Santiago De Chile
  • 16° giorno        Santiago De Chile – Milano
  • 17° giorno        Arrivo a Milano

Durata del viaggio: 17 giorni

Operatore turistico: Kel12

Il nostro itinerario visita la parte centrale della Bolivia, per proseguire verso una delle meraviglie naturali del globo: il Salar de Uyuni, il lago salato più esteso al mondo.

La prima parte del viaggio si polarizza sulla scoperta di due città, Sucre e Potosí, dove ci rendiamo conto – meglio che in qualsiasi altra destinazione visitata finora – di ciò che fu il colonialismo spagnolo in America latina. A Potosí nel 1545 fu scoperta la più produttiva miniera d’argento al mondo, che permise all’impero spagnolo di finanziare le sue ambizioni internazionali, la sua campagna contro-riformistica in Europa, nonché i privilegi e le stravaganze della sua monarchia per oltre due secoli. Secondo la tradizione, dal Cerro Rico (montagna ricca) di Potosì venne estratto così tanto argento da permettere la costruzione di un ponte argenteo tra l’America latina e l’Europa. Ancora oggi nella lingua spagnola si utilizza il detto: «vale un Potosí». Nel Cinquecento Potosí giunse ad essere una delle città più popolate al mondo e all’ombra delle sue ricchezze sorse la vicina Sucre. I loro centri storici traboccano di innumerevoli edifici religiosi e di lussuosi palazzi dove abitavano i coloni spagnoli. Una ricchezza che faceva a pugni con le condizioni dei minatori della miniera, costretti a vivere come schiavi. Miniera che si può visitare ancora oggi, dove il lavoro rimane duro e rischioso per la salute, anche se avviene in condizioni migliori.

Concluso questo drammatico appuntamento con la storia, tre ore di automobile attraversando le Ande e paesaggi predesertici ci separano da una delle meraviglie naturalistiche del mondo: il lago salato di Uyuni, dove dormiamo in un albergo costruito con mattonelle di sale. Il viaggio è valorizzato dalla qualità della nostra guida: Fernando Galean ([email protected]).

 

Sucre la blanca

In una valle circondata da monti sorge la fiera e raffinata Sucre, considerata dalla guida Lonely Planet la città più bella della Bolivia. Cuore simbolico della nazione – fu qui che nel 1825 venne proclamata l’indipendenza – può essere considerata la capitale costituzionale del paese, anche se la sede del governo è a La Paz. Con i suoi splendidi edifici imbiancati, i balconi in ferro e le verande in legno, Sucre ha un forte carattere coloniale spagnolo, anche se alcuni suoi edifici neoclassici sono invece di chiara ispirazione francese. Come quelli costruiti a fine Ottocento dal ticinese Antonio Camponovo Pagano, nato a Mendrisio nel 1853 e morto a Buenos Aires nel 1938. La sua opera più imponente, il Palacio de Gobierno, si affaccia sulla piazza principale 25 de Mayo, proprio di fronte alla cinquecentesca cattedrale, il cui campanile è diventato simbolo della città. Oltre a innumerevoli altre chiese, che testimoniano la foga evangelizzatrice dei colonizzatori, Sucre ospita pure la seconda università creata in America latina.

Al Museo del tesoro si possono ammirare i metalli e le pietre preziose estratti dal Cerro Rico di Potosì, che fecero la fortuna anche di Sucre. Al Museo di arte indigena sono invece esposti magnifici tessuti, importanti per decodificare una civiltà, quella indigena, che non possedeva la scrittura. Questa forma di arte popolare si sarebbe estinta senza l’intervento di una coppia di antropologi cileni, che negli anni Ottanta del secolo scorso l’hanno rivitalizzata recuperando i motivi classici e le antiche tecniche, conosciute ancora dalle anziane donne indigene dei villaggi. Questa attività dà oggi lavoro a un migliaio di tessitori, che espongono le loro opere in vendita nel negozio del museo.

 

La Casa de la Libertad

Il museo più importante di Sucre è certamente la Casa de la Libertad, che conserva la Dichiarazione di indipendenza della Bolivia, firmata il 6 agosto 1825. Nella sala dove è esposto questo documento si tenne la prima riunione del nuovo governo, presieduta da Simon Bolivar, che dopo un breve periodo cedette la presidenza ad Antonio José de Sucre, eroe della resistenza, a cui è ispirato il nome della città. Nonostante che alla rivoluzione parteciparono anche gli indigeni, il potere rimase saldamente nelle mani dei bianchi ex colonizzatori, in seguito a una successione di colpi di stato perpetrati da governi militari. Le urne vennero aperte per la prima volta nel 1888 con diritto di voto solo ai bianchi e ai meticci e con l’esclusione sia delle donne, sia degli indigeni. Il suffragio universale giunse solo 127 anni dopo l’indipendenza, in seguito a gravi disordini sociali scoppiati nel 1952. La grande sfida della Bolivia moderna, che dal 2006 ha un governo di ispirazione socialista, è quella di considerare e valorizzare le culture indigene, misconosciute per secoli. Impresa non impossibile per uno stato ricco di materie prime, che vanno sfruttate nell’interesse della comunità intera e non di pochi.

 

Potosí, triste e affascinante

160 chilometri separano Sucre da Potosí: tesoro d’Europa, ma tomba di schiavi. Situata a oltre 4 mila metri di altitudine, questa città conobbe un’esplosione di popolazione a partire dalla metà del Cinquecento, quando vennero scoperte le miniere di argento e il numero dei suoi abitanti arrivò a superare quello di Londra. L’esperienza di visitare dapprima il centro storico e, in seguito, le miniere, non lascia indifferenti. Si tocca con mano ciò che ha significato il colonialismo. Agli sfarzosi palazzi del centro città, costruito con un’urbanistica tipicamente coloniale – ben 86 chiese e splendidi edifici imbiancati, simili a quelli di Sucre – fanno da contraltare i quartieri abitati dagli indigeni, che lavoravano nella miniera in condizioni di schiavitù. Ma è soprattutto entrando nelle viscere della montagna che ci si rende conto del volto più brutale del colonialismo. Gli indigeni venivano costretti ai lavori forzati. La cosiddetta Ley de la Mita stabiliva infatti che dovevano vivere sottoterra senza vedere la luce per 4 mesi consecutivi: mangiando, dormendo e lavorando 12 ore al giorno. Furono in molti, a causa di incidenti o delle condizioni sovrumane, a entrare con le proprie gambe ed a uscire in una bara. I più «fortunati» abbandonavano quell’inferno con la silicosi polmonare. Non molto migliori erano le condizioni sanitarie di chi lavorava nella zecca, che trasformava l’argento in monete. Si calcola che queste precarie situazioni di lavoro, in tre secoli di dominio coloniale, abbiano provocato 8 milioni di vittime. Ci fu anche un tentativo di importare schiavi neri dall’Africa per lavorare nel Cerro Rico, ma le condizioni di lavoro a oltre 4 mila metri di altitudine non si rivelarono sopportabili per una popolazione abituata sì a sforzi, ma in un habitat a bassa quota.

 

Le miniere oggigiorno

L’esperienza di entrare come turisti nei cunicoli delle miniere è  da non perdere, sia per rendersi conto di quanto disumana fosse la Ley de la Mita, sia per domandarsi come sia ancora possibile al giorno d’oggi mettere a repentaglio la propria salute per continuare una tradizione familiare e lavorare nel Cerro Rico. Dal 1985 le miniere sono state concesse in proprietà a cooperative di minatori. La guida che ci ha accompagnato nei cunicoli è un ex lavoratore che ha seguito la tradizione dei suoi avi. Così come – ci racconta con orgoglio – suo figlio ha seguito la stessa via e oggi, a soli 20 anni, è esperto in esplosivi: il top della gerarchia mineraria. Eppure padre e figlio sono consapevoli che le aspettative di vita, per chi sceglie questa professione, sono tuttora mediamente di 45-50 anni: incomprensibile! Come mai questa scelta? Per avere un impiego? chiedo. No. Soprattutto per perpetuare la tradizione, è la risposta: ancora più incomprensibile!

Con questo stato d’animo ci inoltriamo per qualche centinaio di metri in quell’inferno. Incontriamo giovani che spingono vagoncini pieni di «complejo», cioè pietre in cui argento, piombo e zinco sono mescolati e verranno separati in seguito in laboratorio. Di argento puro nel Cerro non ce n’è quasi più. Incontriamo anche un lavoratore anziano, accovacciato davanti a una parete umida, che prepara le cartucce con la dinamite, utilizzate per le esplosioni nella montagna. Il Cerro si presenta ormai sempre più a buchi come una forma di formaggio, con gravi problemi di sicurezza. Sentiamo spari in profondità. La nostra guida ci accompagna quindi in una piccola grotta, dove è custodita una statuetta con corna, barba e pene eretto, una sorta di caricatura di satana, denominato Tio. Secondo la tradizione sarebbe il proprietario dei minerali di quell’inferno. Meglio quindi tenerlo buono con offerte di coca, bibite e qualche quattrino. Coca? Sì. Da sempre i minatori, per essere più performanti, masticano coca durante il lavoro. Li si vede così, quasi tutti, con una mascella rigonfia, dove custodiscono la coca che masticano poco a poco.

 

Il Museo de la Moneda

È il museo più rinomato di Potosí, costituito dagli stabilimenti dove si può vedere come l’argento veniva trasformato in sonanti monete. La prima sede fu costruita nel 1572. Con una lunga ma interessante visita guidata si scoprono le varie fasi di lavorazione nella «nuova» zecca, costruita nel Settecento.

I campanili delle numerose chiese presenti in città offrono splendidi panorami su Potosí, ma a salirvi si fa una grande fatica, dato che ci si trova a oltre 4'000 metri di altitudine.

Molto interessante anche la visita guidata al convento-museo di Santa Caterina, sia per la sua architettura seicentesca, sia per conoscere la cultura dei coloni spagnoli. Pensate che le primogenite figlie di nobili famiglie venivano letteralmente recluse in monastero; all’età di 15 anni salutavano i genitori sulla soglia dell’istituto per non vederli mai più se non attraverso una fitta grata.

 

Il Salar de Uyuni

Il Salar de Uyuni è la più grande riserva di sale esistente al mondo. Forma un vasto deserto a 3'600 metri di altitudine, che si estende per 180 chilometri da est a ovest e 80 da nord a sud. Immergersi in questo mare bianco del colore del sale, che contrasta con il blu del cielo, in un silenzio assordante, dà la sensazione di perdersi nel nulla. Una sensazione che pare si  accentui durante il periodo delle piogge, tra febbraio e marzo, quando le lontane montagne andine si specchiano in vaste pozzanghere, rendendo ancora più confuso il confine tra la terra e il cielo. Questo paesaggio surreale, più simile alle distese polari che a un deserto di sabbia, si è formato in seguito al prosciugamento di antichissimi laghi preistorici, ricchi di minerali. È costituito da 11 strati di sale e sedimenti argillosi, frutto di cicli successivi di inondazioni e siccità. L’acqua, ancora presente nel sottosuolo, filtra dal basso verso la superficie, gela di notte e si scioglie di giorno creando spaccature lungo assi ben precisi, disegnando così dei caratteristici esagoni, che vi danno l’impressione di camminare su un terreno piastrellato. Ma attenzione agli ojos de sal (occhi di sale) quando si percorre il Salar in automobile, perché se ci si finisce dentro non è facile uscirne. La nostra vettura fuoristrada corre a 140 chilomentri all’ora sulle piste di sale, senza che all’interno si sia sballottati. In lontananza si vedono le montagne andine. All’estremità nord del Salar sorge, imponente, il vulcano Tunupa con la sua caldera dai colori spettacolari, che vanno dal marrone al beige, dall’arancione al rosso scuro. In alcune grotte naturali sulle sue pendici si sono verificati importanti ritrovamenti archeologici, tra cui alcuni scheletri giunti intatti fino ai nostri giorni, grazie al clima secco. Sembra appartenessero a una popolazione, forse in fuga, rifugiatasi sulle montagne alla fine dell’impero Inca.

Il Salar è punteggiato da una trentina di isole vulcaniche. Ne visitiamo un paio, compiendo brevi trekking. Particolarmente spettacolare è la Isla Inkawasi, ricca di cactus centenari, alti fino a 12 metri. Anticamente fungeva da luogo di ristoro per gli Inca, quando dovevano affrontare la traversata del deserto. Dalla vetta il panorama sul paesaggio bianco è impagabile. Visitiamo un paio di altre isole e soccorriamo dei turisti che sono rimasti impantanati in un ojo, prima di fermarci per il pranzo. Un pasto alquanto originale: siccome nella zona non ci sono ristoranti, il nostro autista viaggia assieme alla moglie, cuoca provetta che ci prepara dell’ottima carne alla griglia nel bel mezzo del deserto. Ripreso il viaggio ci imbattiamo in un monumento che ricorda il periodo in cui (ma ora per fortuna non più) il Salar ospitò la gara Parigi-Dakar, emigrata nel 2009, per ragioni di sicurezza, dall’Africa all’America latina. La notte dormiamo, ai bordi del Salar, in un albergo completamente costruito con mattonelle di sale. Pochi chilometri ci separano dal villaggio di Colchani, principale porta di ingresso del deserto, dove si possono acquistare oggetti di artigianato locale e visitare le aziende di raffinamento del sale. Nel vicino Pueblo di Uyuni si visita invece un cimitero di treni, con vagoni e locomotive arrugginiti, ma ancora sistemati sulle rotaie, che sembrano attendere tempi migliori. La linea ferroviaria fu costruita a fine Ottocento dalle compagnie minerarie per trasportare l’argento e lo stagno dalle Ande al mare e venne dismessa nella prima metà del Novecento. Come dicevamo, la regione è ricca di minerali e da alcuni anni si sta sviluppando un’altra promettente industria, quella del litio: una delle risorse di cui il mondo moderno è sempre più affamato, a causa della sua importanza nella produzione di batterie per dispositivi elettronici e auto elettriche. Oltre i due terzi delle riserve mondiali di litio sembra siano conservate, oltre che in questo Salar, in altri ambienti simili presenti in Bolivia, Cile e Argentina. C’è da sperare che il suo sfruttamento non comprometta la bellezza naturale di questa regione, meta sempre più ambita da turisti che giungono da ogni parte del mondo.

 

 

Per saperne di più

  • Bolivia, Polaris Guide, Faenza 2017
  • Bolivie, Petit Futé, Paris 2023
  • Luca Nardi, Un mese a testa in giù, Libreria Geografica, Novara 2021
  • Luca Belcastro, Viaggio al Salar de Uyuni
In questo articolo: