I parchi nazionali del Far West
Itinerario
(giugno/luglio 2012)
- 1°giorno Zurigo - Los Angeles
- 2° giorno Los Angeles
- 3° giorno Los Angeles - Palm Springs - Kingman (580 km)
- 4° giorno Kingman - Seligman - Tusayan - Grand Canyon (300 km)
- 5° giorno Grand Canyon - Page - Antelope Canyon - Monument Valley (400 km)
- 6° giorno Monument Valley - Arches National Park - Moab (270 km)
- 7° giorno Moab - Hanksville - Cannonville - Bryce Canyon National Park (440 km)
- 8° giorno Bryce Canyon National Park - Zion National Park - Las Vegas (420 km)
- 9° giorno Las Vegas - Furnace Creek - Death Valley (230 km)
- 10° giorno Furnace Creek - Bodie - Fish Camp (620 km)
- 11° giorno Fish Camp - Napa Valley - Novato - San Francisco (420 km)
- 12° giorno San Francisco
- 13° giorno San Francisco
- 14° giorno San Francisco - Palo Alto - Monterey (190 km)
- 15° giorno Monterey - Hearst Castle - Santa Barbara (400 km)
- 16° giorno Santa Barbara - Los Angeles - Zurigo (160 km)
Durata del viaggio: 16 giorni
Operatore turistico: Organizzato in proprio
I parchi nazionali del Far West degli Stati Uniti offrono certamente alcuni dei paesaggi più spettacolari al mondo. Nessuna fotografia e nessun testo possono rendere al meglio ciò che si vede e si prova di fronte a tanta bellezza. Mentre visitavo questi luoghi riflettevo sul fatto che nessun essere umano riuscirà mai a eguagliare la straordinaria potenzialità artistica della natura. Se poi qualcuno appartiene alla mia generazione, cresciuta con il mito dei film western, l’emozione risulta amplificata, in quanto richiama immagini lontane legate all’infanzia e all’adolescenza. È un viaggio che vale veramente la pena di fare una volta nella vita. Lo si può effettuare individualmente senza la necessità di iscriversi a un gruppo organizzato. Muniti di un navigatore, negli Stati Uniti ci si sposta in automobile senza problemi, persino in metropoli come Los Angeles o San Francisco, due simboli degli Stati Uniti a cui il nostro viaggio non dedica il tempo che meriterebbero. Con buone guide (Michelin verde, Lonely Planet, Rough Guide) si può pianificare l’itinerario a proprio piacimento (si veda anche «Il mitico Far West»).
Data la natura del viaggio alla scoperta dei parchi nazionali è inevitabile percorrere alcuni tratti sterrati, perciò vale la pena di orientarsi verso un veicolo 4x4. Le strade lungo l’itinerario non sono trafficate e normalmente permettono di mantenere una media di 90-100 chilometri orari. È così possibile spostarsi in quattro o cinque ore da un parco all’altro percorrendo infinite strisce di asfalto tracciate nel deserto, che scorrono diritte, senza curve per centinaia di chilometri, fra incantevoli paesaggi lunari. Il modo più efficace per visitare la regione, che attraversa gli stati della California, dell’Arizona, dello Utah e del Nevada, è di fermarsi nei parchi il primo mattino e il tardo pomeriggio ed effettuare gli spostamenti durante le ore più calde. Il termometro sfiora infatti spesso i 40 gradi in estate e nella Death Valley anche i 50, ma il clima è molto secco. Attenzione, però, perché a San Francisco e sulla costa oceanica in direzione di Los Angeles, abbiamo trovato anche temperature molto fresche (11-13 gradi) a causa delle nebbie tipiche dei mesi di luglio e agosto. Il tempo necessario per percorrere l’itinerario è di almeno 15 giorni, ma meglio prevederne una ventina.
La gente negli Stati Uniti è molto gentile e sempre disposta ad aiutare i turisti. Gli alberghi sono funzionali. Nelle regioni dei parchi, salvo qualche struttura storica, conviene pernottare nei motel. I più affidabili sono quelli appartenenti alle grandi catene come Holiday Inn e Best Western, simili a quelli che si vedono nei film, con il posteggio davanti alla camera. Hanno prezzi ragionevolissimi: tra i 100 e 150 franchi a notte per una doppia o tripla (non fa differenza).
Los Angeles, il mito del cinema
Il nostro viaggio inizia da Los Angeles, alla quale possiamo però dedicare poco più di una giornata, che non basta nemmeno per cominciare, perché questa splendida città meriterebbe un soggiorno ben più lungo. Rinunciamo ai grandi musei, alla visita delle case di produzione cinematografiche trasformatesi in lunapark, a Disneyland e ci concentriamo su Hollywood, Beverly Hills e Santa Monica, il simpatico quartiere che si affaccia sulla spiaggia oceanica, dove alloggiamo e dove ho cercato invano le splendide bagnine bionde dello sceneggiato Baywatch.
Anche Los Angeles, come San Francisco e come New York, ci sorprende perché è completamente diversa da come ce la immaginavamo. È vastissima – si estende per oltre 100 chilometri – ma non dà l’impressione di una caotica metropoli. È un piacevole insieme di quartieri a misura d’uomo. Le case sono a due piani. I grattacieli pochissimi. Lo si nota bene dall’osservatorio del Griffith Park, da cui si gode una splendida vista sull’agglomerato e sulle colline a nord, dietro le quali inizia il deserto. La scarsità di acqua bloccò lo sviluppo della città fino al 1913 quando venne costruito un importante acquedotto che convoglia le acque della Sierra Nevada.
Hollywood non è altro che un animato quartiere dell’immensa metropoli, sviluppatosi negli anni Venti, quando l’industria cinematografica americana si è trasferita qui da New York e da Chicago. Risalgono a quegli anni le prime lussuose ville costruite sulle colline retrostanti, il famosissimo Hollywood Boulevard con la Walk of Fame, la passeggiata delle celebrità dove sul marciapiede sono incastonate 2500 stelle dorate dedicate a mitiche star come Marlon Brando, Michael Jackson, Elvis Presley, Frank Sinatra, John Wayne e molte altre. Sulla stessa via si trova pure il teatro dove ogni anno, fin dal 1927, vengono consegnati gli Oscar e una scalinata dove sono presentati i migliori film premiati con la celebre statuetta. Tour turistici propongono escursioni sulle colline e a Beverly Hills per curiosare tra le ville dei big dello spettacolo. A noi rimane solo il tempo per una scappata nella splendida Beverly Hills, con le sue lussuosissime ville e Rodeo Drive, una delle vie più celebri e più filmate al mondo. Ricordate «Pretty Woman» il romantico film di Garry Marshall, con Richard Gere e Julia Roberts? L’albergo in cui alloggiano i due protagonisti si trova qui, così come i negozi in cui la giovane ragazza fa il celebre shopping con la carta di credito del casuale partner.
Da Los Angeles a Palm Springs
Lasciata Los Angeles ci inoltriamo quasi subito nel deserto e in un paio d’ore – 200 chilometri circa – raggiungiamo Palm Springs, una sorta di oasi di lusso assurta agli onori della cronaca negli anni Sessanta quando veniva scelta come meta di vacanza da artisti famosi come Frank Sinatra ed Elvis Presley. Da allora molte persone facoltose hanno costruito le loro ville in quartieri con strade perpendicolari che paiono tracciate con il righello. Prima dell’arrivo degli Yankee la zona era abitata dalle tribù indiane dei Cahuilla (oggi gestiscono le case da gioco della valle) attratte dalle acque che scendono dalle San Jacinto Mountains; il vero punto di interesse del luogo. In dieci minuti, con una funivia di fabbricazione svizzera e rotante su sé stessa – per garantire la splendida vista a tutti gli occupanti – si sale fino a 3 mila metri, passando dal deserto a una vegetazione alpina e compiendo un’escursione termica equivalente a quella che si registra spostandosi in automobile dal Messico al Canada. Il panorama spazia dal deserto all’oasi di Palm Springs, punteggiata da campi da golf e da centri di villeggiatura d’élite, che contrastano con i pini caratteristici dei percorsi escursionistici che si diramano dalla vetta. Ma per noi è ora di proseguire verso la regione del Grand Canyon. Facciamo tappa per la notte a Kingman in Arizona, un anonimo agglomerato di stazioni di servizio e di motel, in uno dei quali ci fermiamo posteggiando la nostra automobile sotto la camera che ci ospiterà per la notte: proprio come si vede nei film americani.
Il mattino seguente partiamo per il Grand Canyon percorrendo un lungo tratto della mitica Route 66 – quella che il romanziere John Steinbeck chiamò la «Mother Road», la madre di tutte le strade – costruita nel 1926 per collegare Chicago con la lontana Los Angeles. Ricordate il film «On the road» in cui il protagonista percorre questa storica arteria a bordo di una Harley Davidson?
Città di riferimento del famoso parco è Grand Canyon Village, solito centro squadrato e senz’anima, ricco di motel e stazioni di servizio, che raggiungiamo in fine mattinata. Se si prenota con molto anticipo si ha forse la fortuna (che noi non abbiamo avuto) di trovare posto a El Tovar Hotel, una struttura in legno d’inizio Novecento situata sui bordi del precipizio del Grand Canyon.
Grand Canyon, l’arte della natura
Nessuna fotografia e nessuno testo può descrivere ciò che si vede e si prova di fronte al Grand Canyon. È un’esperienza che va vissuta di persona e che vi consiglio caldamente di fare. Ogni descrizione rischia di essere banale. Posso solo dire che mentre camminavamo per circa quattro ore lungo il precipizio e ci si presentavano visioni sempre diverse con colori continuamente differenti, esaltati dalle varie posizioni del sole, pensavo che nessun essere umano riuscirà mai a eguagliare la straordinaria potenzialità artistica della natura.
Ci sono voluti quasi due miliardi di anni per creare questa meraviglia, una fessura lunga 445 chilometri, larga 16 e profonda circa 1600 metri, con centinaia di canyon laterali. All’alba e al tramonto la luce colora in modo intenso e magico le pareti rocciose: strisce di verde, blu, porpora, rosa, arancione, oro, giallo e bianco definiscono una successione di antichi strati, che permettono di effettuare uno straordinario viaggio geologico a ritroso nel tempo.
Questo luogo affascina i visitatori sin dai primi anni della rivoluzione industriale, quando giungevano nel canyon alla ricerca dell’ideale romantico di natura selvaggia per abbracciare il concetto di bellezza sublime. Oggi è visitato annualmente da cinque milioni di turisti provenienti da ogni angolo del mondo. In automobile si giunge fino al Visitor Center del versante sud (quello nord è raramente visitato), da cui si prosegue con un efficiente servizio gratuito di bus navetta che collega i vari punti panoramici. Una comoda passeggiata di circa 12 chilometri a picco sul precipizio collega i «View Points» più spettacolari del lato sud-ovest. Vale la pena prendersi 3-4 ore per percorrerla, perché i panorami si modificano davanti a voi come in un caleidoscopio. Sul fondo si scorge dall’alto il tranquillo percorso del fiume Colorado, che ha scavato il canyon nel corso di milioni di anni. I più allenati possono anche scendere al fiume, ma l’escursione richiede due giorni, dato l’elevato dislivello (oltre 1600 metri) e le temperature che nel periodo estivo, soprattutto in basso, superano facilmente i 40 gradi.
L’angusto Antelope Canyon
Il mattino seguente percorriamo in automobile il lato sud-est del Grand Canyon, che offre altri belvedere con panorami spettacolari. In tre ore (220 km) raggiungiamo la cittadina di Page, da dove parte un’escursione organizzata (è necessario prenotare, anche via internet), per visitare l’Antelope Canyon, uno straordinario corridoio tra due pareti rocciose in arenaria, considerato il paradiso dei fotografi e riprodotto in migliaia di immagini, ma stranamente trascurato dalle principali guide turistiche. L’escursione in fuoristrada attraversa alcuni chilometri di deserto in una riserva della tribù indiana Navajo prima di giungere al profondissimo e strettissimo canyon – in alcuni punti ci passa a malapena una persona – illuminato dalla luce che penetra dall’alto creando immagini molto particolari. La roccia è levigata e ha tutte le tonalità dal rosa al rosso porpora. Le fotografie che mostrano le sue venature e forme strane, esaltate dalla luce zenitale tenue, ricordano opere di scultura moderna. Lo spettacolo mi fa di nuovo riflettere sulle potenzialità artistiche della natura.
Usciti dal canyon, ci troviamo vicino al Lake Powell, un vastissimo lago artificiale navigabile. Ha sommerso una vallata e offre visioni surreali con spuntoni di roccia che emergono minacciosi e imponenti dalle acque tranquille. Lo si visita noleggiando imbarcazioni a bordo delle quali si possono trascorrere alcuni giorni. Il nostro programma di viaggio non prevede purtroppo questa opportunità, per cui proseguiamo verso la Monument Valley, che raggiungiamo nel tardo pomeriggio dopo altre due ore e mezzo di automobile (180 km).
Monument Valley, riserva dei Navajo
Si trova in una riserva indiana dei Navajo situata a cavallo tra gli stati dell’Arizona e dello Utah, dove cambia anche il fuso orario: è un’ora più avanti. Decidiamo di rimandare la visita del parco nazionale all’indomani mattina anche perché desideriamo approfittare del nostro alloggio: il Goulding's Lodge. Si tratta di un albergo storico che ospita un piccolo museo sulla storia cinematografica del luogo, dove si può visitare la camera di John Wayne e assistere, in una piccola sala cinematografica, alle proiezioni di opere indimenticabili come «Il massacro di Fort Apache» del 1948 o «I cavalieri del Nord Ovest» dell’anno seguente che furono girati qui. Dal 1938, quando il celeberrimo regista John Ford fece in questi luoghi le riprese di «Ombre rosse» con uno sconosciuto John Wayne nel ruolo di Ringo Kid, la Monument Valley divenne infatti il set prediletto dei film western. Il piccolo museo è un po’ trasandato e decadente, ma è forse proprio questo il suo fascino. Le fotografie ingiallite sono numerosissime e presentano gli attori che hanno alloggiato al Goulding's. Molti anche i cartelloni di quei film che per me hanno rappresentato l’immagine dell’America del Far West.
Abbiamo visitato il parco con una gita organizzata della durata di circa quattro ore in fuoristrada, lungo le piste della Monument Valley guidati da un Navajo. Nudi contrafforti in arenaria e impervi pinnacoli di roccia si ergono fino a 300 metri di altezza da un terreno desertico e relativamente piatto, di sabbia rossa. Il sole basso del mattino esalta con una luce sorprendentemente intensa i colori della roccia. Con l’immaginazione vedo John Wayne cavalcare veloce in quel paesaggio da sogno, sicuramente tra i più spettacolari di tutta l’America.
Purtroppo però queste terre non vengono ricordate solo per i racconti epici dei film western, bensì anche in quanto teatro di una delle vicende più vergognose della storia statunitense: il trasferimento forzato di alcune migliaia di Navajo, noto come Long Walk (lunga marcia), per 500 chilometri verso il New Mexico nel 1864. Dopo quattro anni di stenti fu infine concesso loro di tornare nelle loro terre. Oggi qui vivono ancora circa 100 mila nativi americani che parlano la propria lingua, un linguaggio così complesso che è stato usato come codice segreto dall’esercito statunitense durante la seconda guerra mondiale.
Arches National Park, architettura naturale
La tappa successiva del nostro itinerario è l’Arches National Park nello Utah. Il trasferimento richiede poco più di tre ore d’automobile (270 km) attraversando paesaggi desertici tanto incantevoli che il governo degli Stati Uniti sta pensando di trasformare in parco nazionale l’intero stato dello Utah. La città di riferimento dell’Arches National Park è Moab, un villaggio minerario (si estraeva uranio fino agli anni Cinquanta) con strade perpendicolari, sviluppatosi soprattutto negli ultimi anni per accogliere i turisti che visitano Arches e Canyonlands.
La nostra visita inizia nel tardo pomeriggio e prosegue il mattino seguente. Percorriamo dapprima la strada asfaltata di circa 30 chilometri che serpeggia attraverso il parco: unica traccia umana in un territorio lunare composto da dune pietrificate e massicci speroni di arenaria dalle forme più disparate. Nella roccia milioni e milioni di anni di erosione provocati da acqua, sole, vento e gelo, hanno scolpito oltre ottocento archi naturali di varie forme e dimensioni. I colori della pietra vanno dal verde all’ocra, dal bianco al rosso e si mescolano con il verde scuro dei ginepri. Il più spettacolare, a mezz’ora di cammino dalla carrozzabile, è il Landscape Arch, che con i suoi 93 metri di diametro figura tra i più ampi al mondo. Ma il monumento naturale più bello del parco è certamente il Delicate Arch, un piccolo arco del trionfo in roccia abbarbicato sull’orlo di un profondo canyon. Nessuno potrebbe mai immaginare che sia solo opera della natura. Lo si può raggiungere con una lunga passeggiata o ammirare da un belvedere più lontano camminando per mezz’ora. Imponente il Double Arch: una coppia di archi robusti che si sostengono a vicenda. È situato in una zona facilmente accessibile (The Windows), dove si trova la maggiore concentrazione di archi del parco.
Il nostro viaggio delle meraviglie prosegue verso un altro luogo di grande suggestione e di fama mondiale: il Bryce Canyon National Park, dal quale ci separano oltre 400 chilometri, circa 7 ore di automobile, durante le quali si passa sorprendentemente da splendidi paesaggi desertici a una vegetazione di tipo alpino quando si sale a quasi 3000 metri. La strada panoramica HWY 12 prevede anche l’attraversamento del Capitol Reef National Park, caratterizzato da rocce variopinte che contrappongono la loro imponenza all’amenità delle fresche oasi ricche di piante da frutta che costeggiano il serpeggiante corso del Fremont River.
L’anfiteatro del Bryce Canyon
Il Bryce in effetti non è un canyon, ma un anfiteatro in pietra immerso in un vasto altopiano ammantato di fitto bosco a un altezza di 2400 metri. Lo spettacolo che offre è costituito da un tripudio di guglie e pinnacoli dai colori diversi e tutti caldi, che vanno dal giallo, al rosso e all’arancione. Queste straordinarie sculture naturali sono state erose nell’arenaria fangosa dal connubio fra inverni gelidi (qui la temperatura scende al di sotto dello zero per duecento notti all’anno) e precipitazioni estive. I pinnacoli presentano un cappello di roccia dura che si forma quando il fusto, più soffice, viene dilavato dalle piogge. Gli indiani Paiute, che vivevano in questa regione, diedero al luogo il complesso nome di «rocce rosse in piedi come uomini, in un canyon a forma di scodella». Per i primi coloni che si dedicavano invece all’allevamento questo era considerato «un diavolo di posto dove perdere una mucca».
Una strada panoramica di circa 30 chilometri percorre il parco e dà accesso a numerosi belvedere da cui ammirare l’incredibile anfiteatro naturale. I «View Points» più spettacolari sono certamente il Bryce Point e, a poca distanza, il Sunset e il Sunrise Point che sono collegati tra loro da un sentiero lungo il bordo superiore del Bryce Amphitheater, vicino al Visitor Center. Se si ha la fortuna di trovare una stanza in uno dei semplici ma simpatici bungalow del Bryce Canyon Lodge si alloggia nel cuore di questo spettacolare belvedere. Ma la parte più emozionante e da non perdere della visita è una passeggiata di due ore scarse che scende in mezzo alle guglie e segue un sentiero che collega Sunset e Sunrise Point. Percorrendolo si ha l’impressione di passeggiare in un paesaggio surreale e incantato, indescrivibile a parole e pure con le immagini. Provare per credere!
A Las Vegas via Zion Park
Circa cinque ore di automobile – oltre 400 chilometri – separano la pace del Bryce Canyon dal frastuono di Las Vegas, la capitale mondiale del gioco d’azzardo. Ma prima di raggiungere questa incredibile città immersa nel deserto, dopo due ore di guida, giungiamo allo Zion National Park, che attraversiamo e visitiamo velocemente. Creato nel 1919, fu uno dei primi parchi nazionali americani. Si tratta di un canyon lungo 13 chilometri, largo e profondo 800 metri, una gola spettacolare incastrata fra imponenti pareti rocciose che amplificano il rumore delle fresche cascate. A valle delle alte falesie si trova un’oasi lussureggiante in cui scorre il Virgin River. In estate i collegamenti tra i punti più belli del parco sono affidati a un efficiente servizio navetta gratuito, che parte a intervalli regolari dal Visitor Center. L’offerta escursionistica è amplissima, ma il nostro itinerario non prevede passeggiate, anche perché si tratta di un tipo di paesaggio a noi più familiare rispetto ai precedenti.
In altre tre ore raggiungiamo Las Vegas: caotica, affollata, caldissima. È un’altra America rispetto a quella dei giorni precedenti e di quelli che ci attendono. Si fatica a credere che un tempo fosse una città normale e che l’attuale fastoso Boulevard fosse un’arteria polverosa costeggiata dai soliti motel di periferia. Oggi ospita alberghi lussuosissimi e kitschissimi, come la piramide a 36 piani del Luxor o il castello pseudomedievale con tanto di ponte levatoio e torri merlate dell’Excalibur. Moltissime le ricostruzioni esuberanti e meticolose della Grande Mela al New York–New York, di Venezia con tanto di campanile di San Marco, Palazzo dei Dogi e Ponte del Rialto al Venetian, della Tour Eiffel, ridotta a metà delle dimensioni, al Paris, dell’idilliaco villaggio sul lago di Como al Bellagio. Al Caesars Palace si è serviti da centurioni romani mezzi nudi e al Mirage si assiste ogni 15 minuti alle eruzioni di un vulcano. Ovunque macchinette mangiasoldi e tavoli verdi dove si può tentare la fortuna assieme a un popolo effervescente. Sbalorditi e storditi torniamo in camera non troppo tardi perché il giorno seguente ci attende una delle tappe più interessanti del viaggio: la Death Valley.
Il caldo torrido della Death Valley
È una delle zone più calde e incontaminate del pianeta. In estate la temperatura supera facilmente i 50 gradi. Un termometro lasciato esposto al sole può salire rapidamente oltre i 65 e letteralmente esplodere. Gli Americani ci vengono dall’inizio di febbraio ad aprile, ma noi stranieri non ci lasciamo sfuggire anche in altre stagioni una visita in questo luogo che evoca tutto ciò che nella nostra immaginazione associamo ai deserti: paesaggio inospitale, caldo infernale, solitudine totale. Questo territorio ha rappresentato un ostacolo insormontabile per le carovane di emigranti che nell’Ottocento attraversavano l’America. Deve il suo nome proprio a un gruppo di disperati che nel 1849 cercò per settimane una via d’uscita da questa valle. Quando la trovarono, una donna si voltò ed esclamò «Goodbye, Death Valley!». Per noi turisti europei appare invece come un luogo incantato con gigantesche dune di sabbia, canyon marmorizzati, crateri di vulcani estinti, oasi ombreggiate, che si contrappongono a montagne di oltre 3 mila metri. Una straordinaria vista panoramica dall’alto si gode dal Dante's View a quota 1668, che si raggiunge in automobile.
Gli appassionati di cinema ricorderanno l’indimenticabile «Zabriskie Point» di Michelangelo Antonioni, quando due giovani alla ricerca di sé stessi fanno l’amore tra queste dune di sabbia pietrificate, dal nome appunto di Zabriskie Point. Una strada asfaltata conduce a Badwater, uno dei luoghi più bassi del pianeta, situato 86 metri sotto il livello del mare, sulle rive di un bianchissimo lago salato. Due piste a senso unico (Twenty Mule Team Canyon e Artist's Drive) permettono di penetrare in un paesaggio desolato tra dune e colline con sfumature dal rosso cupo, al marrone e al color sabbia: si ha l’impressione di trovarsi fuori dal mondo, soprattutto se la sera prima si era a Las Vegas. Se si trova posto, vale la pena alloggiare nello storico Furnace Creek Inn, che accoglie turisti sin dal lontano1927.
Il nostro itinerario tra i parchi nazionali volge al termine, ma ci attendono ancora una breve visita allo Yosemite National Park e una piacevole sorpresa.
Un villaggio dimenticato
Senza molta convinzione seguiamo una deviazione raccomandata dalle guide verso Bodie State Historic Park e troviamo una piccola chicca: un antico villaggio minerario sperduto tra le montagne e abbandonato all’inizio del Novecento. L’amministrazione dei parchi nazionali non è intervenuta con restauri, ma ha lasciato tutto com’era, senza nemmeno ordinare ciò che si trovava all’interno delle case, offrendo così ai visitatori uno spettacolo incredibile. Sembra di passeggiare sulla strada principale di uno di quei villaggi tipici dei film western con la chiesa, la scuola, la prigione, il saloon, l’albergo, il barbiere, eccetera. Mancano solo i cowboys, lo sceriffo e le ragazze al bancone che servono il whisky. Durante la corsa all’oro, nella seconda metà dell’Ottocento, questa cittadina aveva 10 mila abitanti e una pessima reputazione: si dice vi regnasse l’illegalità. Esaurito l’oro andò quindi decadendo e nel 1932 venne in gran parte distrutta da un incendio. Si sono salvati solo 150 edifici, che bastano però per far rivivere l’atmosfera ottocentesca dei periodi della febbre dell’oro.
Lo Yosemite, piccola Svizzera
Lo Yosemite National Park è uno dei parchi più rinomati degli Stati Uniti – venne dichiarato Parco Nazionale dal Congresso nel lontano 1890 – e uno dei più amati dagli Americani, ma per noi è meno sorprendente per i suoi paesaggi, splendidi ma familiari e molto simili a quelli alpini più idilliaci: prati verdi con le mucche al pascolo, foreste di conifere, placidi laghetti alimentati da romantici ruscelli. Offre innumerevoli possibilità di escursionismo ed è affollatissimo. Nei pressi di Yosemite Village il paesaggio diventa imponente, caratterizzato da mastodontiche pareti rocciose in granito, tra cui El Capitan, la rupe a picco ininterrotta più alta del mondo. La maggiore attrazione di questa zona è costituita da una sorprendente cascata che precipita per oltre 700 metri, dando vita a tre spettacolari salti. Purtroppo il tempo a nostra disposizione è limitato e ci costringe a operare delle scelte. Dedichiamo così poco, forse troppo poco tempo, alla visita di questo parco. Ci spostiamo per la notte nella zona sud, per avvicinarci ai boschi di sequoie giganti che abbiamo in previsione di visitare il mattino seguente, ma alle 9 il parcheggio è già al completo e bisogna attendere. Decidiamo quindi di proseguire per la Napa Valley e per San Francisco che raggiungiamo passando dal mitico Golden Gate Bridge.
Un ticinese nel cuore della Napa Valley
La «Wine Country», da cui provengono i più prestigiosi vini americani, si trova a un’ora circa di automobile da San Francisco ed è costituita da due valli parallele: la più famosa è la vasta Napa Valley, più piccola e graziosa è invece la Sonoma Valley. I primi vigneti furono piantati in questa regione all’inizio del XIX secolo dai frati di una missione spagnola con sede nell’accogliente Sonoma, una cittadina che conserva tutto il fascino di fine Ottocento. Epoca a cui risalgono anche diverse cantine dalle tipiche costruzioni in pietra. I fiori all’occhiello della Napa Valley sono il Cabernet Sauvignon per i vini rossi e lo Chardonnay originario della Borgogna per quelli bianchi. Il clima mite di questa regione è ideale per l’ottimo soleggiamento e per le correnti d’aria che scendono sull’ampia vallata dalle armoniose colline, che conferiscono al paesaggio un profondo senso di pace. Una delle cantine più rinomate è quella di Robert Mondavi, con accanto la sontuosa costruzione moderna dove viene prodotto l’Opus One, con uve Cabernet Sauvignon, Cabernet Franc, Merlot, Malbec e Petit Verdot. Fu voluto da Robert Mondavi e dal Barone Philippe de Rothschild, proprietari rispettivamente di due fra le più rinomate cantine californiane ed europee, con l’intento di creare un vino che riflettesse le identità delle tradizioni vinicole dei due produttori: quella americana e quella francese. Winemaker dell’Opus One è l’enologo Michael Silacci, originario della Verzasca. Suo nonno Luigi Scettrini partì da Corippo nel 1911 per l’America in cerca di fortuna. Silacci è venuto più volte in Ticino; la prima da giovane con il nonno Luigi che gli voleva mostrare orgoglioso quel pugno di case in pietra aggrappato alla montagna da cui era partito. E proprio quelle origini e l’affetto per il nonno l’hanno condotto sulla strada del vino, percorsa con grande successo.
«La qualità del vino – afferma Silacci – si decide nei vigneti. Credo che l’equilibrio del lavoro nella vigna sia decisivo per il vino che si otterrà. La potatura in particolare è molto importante: se si lavora bene, il più è fatto». Negli operai messicani che lavorano con lui rivede la figura del nonno che attraversò l’oceano. «Il vino – conclude – è per me il risultato dell’incontro tra passione e ragione. Così come il colore viola è dato dall’unione tra rosso e blu. Rosso come la passione che ci muove, blu come la razionalità che ci portiamo dentro».
San Francisco
San Francisco – come si era verificato anni prima per New York – si è rivelata completamente diversa da quel che immaginavo. Come la Grande Mela, è un insieme di città, di quartieri ben distinti, ognuno con un carattere proprio. Se non si temono le ripide salite, il centro è facile da girare a piedi. Le aree commerciali sono piccole e concentrate per lo più nella zona del centro che si estende attorno a Union Square, mentre il resto della città è composto principalmente da quartieri residenziali con arterie commerciali spesso simpatiche e pure facili da esplorare camminando. Esiste un servizio di bus turistici, con spiegazioni in tutte le lingue, che sostano nei quartieri più interessanti, dove ci si può fermare prima di riprendere il percorso con il veicolo seguente (le navette passano a intervalli di 10 minuti).
San Francisco è considerata la città più liberale degli Stati Uniti. Oggi capitale mondiale gay, negli anni Cinquanta occupò le prime pagine della stampa internazionale in occasione della nascita della Beat Generation e negli anni Sessanta quando scoppiò la protesta e la ribellione del movimento hippy, accompagnato dalla sua splendida musica e, purtroppo, anche da un uso sfrenato di droghe. In alcuni quartieri, come Haight-Ashbury, sono ancora evidenti le tracce di quell'epoca.
La città, fondata nel 1776 con il nome di Yerba Buena, si sviluppò nella seconda metà dell’Ottocento quando scoppiò la febbre dell’oro e poco più tardi con la scoperta di una vena argentifera nel Nevada. I profitti degli investitori inondarono San Francisco, che nel 1906 venne però in gran parte distrutta da un terremoto, seguito da un vastissimo incendio durato tre giorni. La città risorse in tempi record con opere di altissima ingegneria come il celeberrimo Golden Gate Bridge, il ponte simbolo della metropoli. Negli ultimi decenni San Francisco è stata teatro della repentina rivoluzione della «web economy»: nella cosiddetta Silicon Valley, alle porte della città, hanno sede Apple, Google e Facebook solo per citare i nomi più famosi.
Il cuore della metropoli è Union Square, che deve il proprio nome alla funzione di luogo di riunione che assunse durante la guerra civile americana: era qui che si tenevano i comizi. Oggi i tram sferragliano attorno alla gente che va per negozi, a teatro, o frequenta i numerosi alberghi di lusso del quartiere. I grattacieli in vetro e acciaio del Financial District confinano a nord con il centro. Qui si trova l’edificio più alto, diventato un altro simbolo della città, il Transamerica Pyramid, naturalmente a forma di piramide. A pochi passi dal centro del business, frequentato da eleganti uomini d’affari in giacca e cravatta, si raggiunge Chinatown, dove si ha l’impressione di tuffarsi in una disordinata città-mercato cantonese con i suoi negozi di souvenir, gioielli, artigianato, erbe e tè, macchine fotografiche ed elettronica, nonché i mercati di pollame e pesce. Il quartiere italiano, dove negli anni Cinquanta si dava appuntamento la Beat Generation, confina con quello cinese. Dalla Coit Tower, che si trova in questa zona, si ha una delle migliori viste sul complesso della metropoli. Non lontano si può ammirare un’altra immagine da cartolina di San Francisco: Lombard Street, la fotografatissima strada nel centro città che scende a serrati e fioriti tornanti. Sempre a piedi si può raggiungere la zona del porto. Il Fisherman's Wharf è una vera calamita per l’animazione che vi regna. Si tratta di un molo costruito in legno con negozi e simpatici ristorantini. Dal molo 33 dell’Embarcadero partono invece i battelli per Alcatraz, il carcere di massima sicurezza, chiuso nel 1963, dove «soggiornarono» ospiti illustri come Al Capone. Vale la visita. Altri punti di interesse sono il Civic Center, il centro governativo con imponenti edifici stile Beaux-Arts, il Golden Gate Park, il parco urbano più grande degli Stati Uniti, alcuni quartieri residenziali come quello di Haight-Ashbury, con le sue splendide residenze d’inizio Novecento e, naturalmente, il ponte Golden Gate: sono tutti luoghi che si possono raggiungere con il bus turistico. I musei non li abbiamo dimenticati, ma nell’economia del nostro itinerario abbiamo dovuto rinunciare a visitarli, così come quelli di Los Angeles: due settimane per i parchi nazionali, San Francisco, la costa e Los Angeles sono davvero troppo poche.
La splendida costa oceanica
Prima di raggiungere la costa facciamo una breve sosta alla Stanford University, che fu costruita a fine Ottocento dal magnate delle ferrovie Leland Stanford in memoria del figlio deceduto di tifo durante un viaggio in Europa. Oggi accoglie 14 mila studenti e negli ultimi decenni ha prodotto le menti che hanno reso celebri le industrie della Silicon Valley. Visitando l’università e il campus che la circonda si capisce quanta importanza gli Stati Uniti hanno attribuito e tuttora attribuiscono alla formazione dei giovani, che sono il futuro di qualsiasi società.
Proseguiamo verso la costa, che raggiungiamo a Monterey, una graziosa località di villeggiatura per i ricchi abitanti di San Francisco. Checché ne dicano le guide, non vale la pena di spenderci molto tempo, perché ci attende il grande spettacolo della costa oceanica. Un primo approccio lo si ha percorrendo la «17-Mile Drive», una strada panoramica (a pagamento) che collega Monterey con la graziosa cittadina di Carmel e attraversa una ricca zona residenziale: a ogni curva rivela una nuova vista da cartolina. L’itinerario è cosparso di punti panoramici da cui si gode lo spettacolo delle onde oceaniche che si infrangono sugli scogli. Lungo la costa si vedono colonie di elefanti marini che se ne stanno spaparanzati sulla spiaggia al sole. Sono simpatici animali che possono raggiungere le due tonnellate. A vederli durante la siesta non lo si direbbe, ma sono in grado di tuffarsi in profondità (circa 1500 metri) e possono rimanere sott’acqua più a lungo di qualsiasi altro mammifero (oltre un’ora).
Il giorno seguente ci attendono altri 200 chilometri di questo incantevole paesaggio oceanico, ma purtroppo per un primo tratto incontriamo una fastidiosa nebbia, frequente nei mesi di luglio e agosto, lungo la costa (Big Sur). Quando in tarda mattinata scompare, i paesaggi tornano di una scabra bellezza.
In circa tre ore percorriamo i 160 chilometri che ci separano da Hearst Castle (per una visita è meglio prenotare), l’incredibile residenza di William Randolph Hearst che nella prima metà del Novecento riuscì a costituire un impero controllando il 25 per cento dei quotidiani statunitensi e il 60 per cento di quelli californiani. Questo singolare personaggio, mirabilmente rappresentato nel celebre film «Quarto potere» di Orson Welles, si fece costruire un discutibile monumento – la facciata del palazzo riproduce quella di una cattedrale spagnola in stile Mudéjar - dove «inserire» le innumerevoli opere d’arte della sua collezione. Ne è scaturita un’operazione di pessimo gusto, perché non si distingue più ciò che è realmente antico da ciò che è finto.
Molto diversa, invece, la Villa Getty che abbiamo visitato dopo aver trascorso la notte a Santa Barbara, una simpatica località di villeggiatura con molte costruzioni in stile spagnolesco. In un’ora e mezza (130 chilometri) si raggiunge Malibu, dove in una vallata che conduce al mare il petroliere e miliardario americano Jean Paul Getty ha fatto costruire un museo, ispirato al modello di una villa romana sepolta dalle ceneri dell’eruzione del Vesuvio nel 79 d.C., per ospitare la sua straordinaria collezione di opere d’arte antica (pure qui è meglio prenotare). Il nostro viaggio si conclude a Los Angeles, dove ci attende il volo di ritorno per Zurigo.
Per saperne di più
- Usa Ovest, La Guida verde Michelin, Milano 2010
- Stati Uniti Occidentali, Lonely Planet, Torino 2008
- Stati Uniti Occidentali, The Rough Guide, Vallardi, Milano 2009
- Etas-Unis centre ed ouest, Guides Bleus, Paris 1999
- California, Touring Editore, Milano 2010
- California, The Rough Guide, Vallardi, Milano 2005
- San Francisco, Guida Michelin rossa, Milano 2012