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«Sono froci, non gay»: la crociata di Vittorio Feltri contro il politicamente corretto

In questa puntata Dario Campione ci racconta il libro del noto giornalista italiano «Fascisti della parola. Da negro a vecchio, da frocio a zingaro, tutte le parole che il politically correct ci ha tolto di bocca» pubblicato da Rizzoli
© Gabriele Putzu
Dario Campione
25.11.2023 06:00

Attraversando la Sicilia dei primi anni ’50 del Novecento, Carlo Levi scrisse di una terra dura e difficile, tanto da capire quanto da raccontare; una terra dove «Le lacrime non sono più lacrime ma parole, e le parole sono pietre». Il titolo del libro in cui furono pubblicati, qualche tempo dopo, i tre reportage di Levi divenne - per la sua indubbia efficacia e la sintesi estrema – uno dei più sfruttati modi di dire dell’italiano contemporaneo.

Nove sillabe. Cui talvolta ciascuno assegna il significato che più gli fa comodo.

Il dibattito sul politicamente corretto, che da anni divide gli intellettuali di ogni parte e una buona fetta dell’opinione pubblica, ha spesso come punto di partenza l’assunto involontario di Carlo Levi. «Le parole sono pietre», dicono gli uni e gli altri. Pietre che possono ferire, e quindi non dovrebbero essere più tirate. Oppure pietre sui cui poggiano le culture storiche, e perciò da difendere in modo strenuo.

Al di là di alcune esagerazioni evidenti, l’affermarsi di un linguaggio «politicamente corretto» ha avuto il merito di marcare, dal punto di vista linguistico, i robusti cambiamenti sociali degli ultimi decenni. L’antropologa americana Mary Bateson, nel suo celebre studio intitolato “Comporre una vita” scrisse che «il carattere distintivo della vita contemporanea è il cambiamento. E nessun cambiamento, sia esso culturale, politico, sociale o esistenziale è immune dall’attraversare conflitti».

Personalmente, credo che il lento ma progressivo consolidamento del politicamente corretto si sia addirittura giovato del conflitto innescato, in particolare, da chi si dice contrario, dato che gli argomenti a sostegno della tesi più libertaria sono sempre molto deboli, puntando tutto su una presunta volontà di imporre, attraverso la censura delle parole, l’affermazione di un pensiero unico.

È questa anche la tesi di Vittorio Feltri, tra i più noti giornalisti italiani, a più riprese direttore di testate del campo conservatore nonché feroce polemista. Feltri ha dedicato l’ultimo suo libro, uscito da pochi giorni per Rizzoli, proprio al tema del linguaggio politicamente corretto. Per denunciarne le palesi incoerenze e le molte irragionevolezze.

Il titolo del volume è tanto esplicito quanto volutamente urticante: Fascisti della parola. Da negro a vecchio, da frocio a zingaro, tutte le parole che il politically correct ci ha tolto di bocca. Un riepilogo perfetto del lavoro del giornalista bergamasco. Lavoro che, ha scritto Dino Messina sul Corriere della Sera, è «insieme un elogio della libertà di espressione, un attacco all’ipocrisia di chi con la censura del dizionario si illude di aver risolto i problemi che ci assillano, e una difesa della destra al governo». In buona sostanza, «un saggio per metà critica di costume e per metà pamphlet politico. Interessante da leggere e attuale, anche se non si è del tutto d’accordo con i suoi contenuti».

A mio parere, le premesse del ragionamento di Feltri sono condivisibili. Le conclusioni, molto meno. E in questa puntata vi spiego perché.

Buon ascolto.