Volver, lo struggente addio di de Giovanni al commissario Ricciardi
Oggi vi racconto il libro di Maurizio de Giovanni Volver. Ritorno per il commissario Ricciardi pubblicato da Einaudi.
Non è difficile raccontare un libro quando l’autore, in prima persona, sceglie di rivelarne il senso, il significato, la genesi. È quello che ha fatto, in un lungo articolo pubblicato pochi giorni fa sul Corriere della Sera, Maurizio de Giovanni, costretto in qualche modo dai suoi tantissimi lettori a spiegare i motivi che potrebbero condurlo – questa volta in via definitiva – a chiudere con il quindicesimo titolo (cui vanno aggiunti anche dodici racconti) la lunga e amata serie del commissario Luigi Alfredo Ricciardi, barone di Malomonte.
«Alle porte dell’uscita di questo romanzo, Volver, mi ritrovo a interrogarmi su Ricciardi e su me stesso - scrive de Giovanni - e scopro di avere più risposte che domande, sfogliando le istantanee, che il cuore più che la mente mi restituisce, di questi vent’anni in cui tutti e due siamo profondamente cambiati, ognuno nel suo tempo e ognuno nel suo mondo, legati da questo filo stretto e fortissimo che ci unisce ma che ci mantiene lontani. Io Ricciardi, sapete, lo guardo vivere da una finestra, come un vicino di casa di cui si sanno molte cose ma che non si è mai formalmente presentato. E adesso che questa finestra sta per chiudersi, almeno su quella fetta della sua esistenza che ho finora raccontato, posso chiedermi che cosa siamo stati l’uno per l’altro. E che strada tortuosa e accidentata abbiamo percorso, per arrivare fin qui».
«Tra noi c’è sempre stato un accordo - dice ancora lo scrittore napoletano - avrei smesso di raccontare di lui nell’imminenza della guerra», la Seconda guerra mondiale. «Per la verità, venendo meno al patto, avevo provato a fermarmi prima, quando per lui era il 1934 e per me il 2021, con la morte della moglie e la nascita della sua bambina; credevo che fosse uno snodo insuperabile, e che l’immediato futuro gli avrebbe riservato solo dolore. Se vuoi bene a qualcuno non ti va di osservarne la sofferenza, e per poterne raccontare dovevo vedere. Poi però ho avuto un grave problema di salute, e me lo sono trovato in piedi vicino al letto, in ospedale. Non diceva niente, mi guardava soltanto: ma i suoi occhi pieni di malinconia mi chiedevano conto e ragione del perché non poteva avere ancora vita, adesso che la mia, quella di chi poteva raccontarlo, era così a rischio. Quegli occhi mi dicevano che non c’era solo dolore, negli anni che passavano dalla morte della sua Enrica: che c’era Marta, la bambina di cui ancora tanto c’era da dire, e i suoi amici, Maione e Bambinella e Modo, e le donne speciali che aveva attorno, Nelide e Bianca, e Livia dall’altra parte del mondo piena di rimpianti e di tango. Mi estorse la promessa che, se fossi uscito di lì con i miei piedi, avrei ripreso a raccontare di lui. E così è stato».
Ecco, allora, spiegati i tre anni trascorsi tra Il pianto dell’alba e Caminito, il primo romanzo della trilogia del tango che, assieme a Soledad e, appunto, a Volver, chiude comunque il cerchio dell’esperienza napoletana del nobile commissario della Regia questura partenopea. Ed ecco anche svelato il senso della storia di questo romanzo, che ruota attorno al concetto del ritorno. Buon ascolto!
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