1816: l'anno senza estate che sconvolse il pianeta

Esattamente due secoli fa si verificava l’eruzione del vulcano indonesiano Tambora, che modificò il clima terrestra - Ma il Ticino si salvò dalla carestia
Il cratere del vulcano Tambora.
Marco Gaia
30.07.2016 06:00

Siamo oramai giunti a metà dell'estate, almeno stando al calendario meteorologico che fa cominciare la stagione più calda dell'anno il 1. giugno per poi concluderla il 31 agosto. Dodici mesi fa, in questi giorni ci si stava sciogliendo come neve al sole: quest'anno invece la situazione è un po' diversa, per la gioia di chi vuole dormire al fresco e la delusione di coloro che starebbero bene anche dentro ad un forno. D'altra parte ogni estate segue una propria evoluzione, che alla fine rimane impressa nell'immaginario popolare. Provate a chiedere come viene ricordata l'estate del 2015. Calda, caldissima, vi risponderanno. E l'estate 2014? Non pervenuta, sembrava novembre. Ogni anno ha dunque la stagione calda. O quasi. Negli annali della meteorologia è infatti presente anche un anno... senza estate. Era il 1816. Giusto 200 anni fa. Cosa avvenne da renderlo così speciale?

Successe che, fra il 5 e il 10 aprile 1815, il vulcano Tambora, situato sull'isola indonesiana di Sumbawa, si risvegliò dopo un sonno di circa 400 anni. E il risveglio fu col botto nel vero senso della parola: udito fino a 1.700 km di distanza. L'eruzione del vulcano fu talmente violenta che parte del materiale scagliato in aria superò la cosiddetta «tropopausa» (a circa 10-15 km di quota) penetrando nel secondo strato dell'atmosfera, chiamato «stratosfera», cosa che l'anno dopo causò l'estate senza sole.

La diminuzione delle temperature e l'aumento della piovosità durante l'estate del 1816 innescarono l'ultima grande carestia che colpì l'Europa – Svizzera compresa – manifestandosi in tutta la sua brutalità nel corso dei 12 mesi successivi. I raccolti dell'estate 1816 furono compromessi: parte del frumento marcì nei campi, il cibo iniziò a scarseggiare e nei mesi seguenti i prezzi salirono alle stelle. Per molte famiglie il pane quotidiano, indispensabile alla sopravvivenza, iniziò a diventare un miraggio. Secondo testimonianze dell'epoca vi fu perfino chi finì per cibarsi di erba o di cortecce, tali erano le condizioni di carestia. Il numero di decessi aumentò, quello delle nascite diminuì. In alcuni comuni dell'Appenzello interno si stima che la popolazione si assottigliò del 10%. 

Ma il Ticino si salvò, grazie alla (mancanza dell') industrializzazione, che stava muovendo i suoi primi passi e che era più avanzata nei dintorni di Zurigo rispetto ad altre regioni. Molti contadini zurighesi avevano lasciato negli anni precedenti i campi, attratti dalle prime fabbriche tessili che sorgevano nella zona, diventando più dipendenti dalle importazioni, in quanto non producevano più quantità di cibo sufficiente per mantenersi. Quando la carestia iniziò manifestarsi, comparvero anche le difficoltà di approvvigionamento, poiché comunque un po' tutta l'Europa risentiva delle conseguenze della «non-estate». La chiusura delle frontiere con la Germania meridionale, che impedì le importazioni di cereali, contribuì poi ad acuire la carestia.

Il versante sudalpino, per contro, risentì meno della carestia rispetto al resto del Paese. Da un lato poiché le condizioni climatiche furono meno estreme, incidendo in modo minore sulla produzione agricola. Inoltre le vallate ticinesi erano meno popolate delle regioni della Svizzera nordorientale e più legate al mondo agricolo. La società era dunque più resistente, essendo in grado di produrre in maggior misura la propria sussistenza.

In questo articolo: