Luganese

Agatha Christie in aula: stavolta la Corte risolverà il giallo?

È tornato in aula il cinquantasettenne accusato di aver rubato gioielli alla famiglia per cui lavorava: «È colpevole, si è contraddetto e ha tentato di scaricare la colpa sulla governante» – «No, mancano prove e testimoni»
Gioielli per centomila franchi. © Shutterstock
Giuliano Gasperi
19.06.2024 06:00

Il giallo è tornato sul tavolo di una Corte. Un anno fa il primo processo, conclusosi con il proscioglimento dell’imputato dall’accusa di furto in base al principio in dubio pro reo, non aveva permesso di risolvere un caso che, a suo tempo, era stato paragonato a un racconto di Agatha Christie. Ieri, in appello, un giardiniere calabrese di cinquantasette anni ha ribadito la sua versione di fronte alla giudice Giovanna Roggero-Will: con il furto di gioielli commesso ai danni della famiglia per cui lavorava, lui non c’entra. «Non l’avrei mai fatto». Il cinquantasettenne è ritenuto colpevole in particolare di aver fatto sparire i brillanti, per un valore totale di oltre 100 mila franchi, prima forzando un cassetto e poi prendendo tre cofanetti che si trovavano sopra a un grande armadio. Due di essi sono stati trovati aperti, mentre il terzo, che era chiuso a chiave, è sparito. È anche accusato di aver sottratto denaro da una busta. Il grande problema degli inquirenti è stato il fatto che la governante, sua presunta complice, è deceduta poco dopo l’avvio delle indagini e non ha potuto essere interrogata. Ed è su di lei che l’imputato ha scaricato gran parte della responsabilità. Ha ammesso solo di essere stato ingenuo ad aiutarla ad avere accesso ai gioielli, ma di non sapere che fine abbiano fatto. Secondo il procuratore pubblico Luca Losa, tuttavia, il cinquantasettenne «non è un affabile sempliciotto: dopo aver saputo che la polizia avrebbe preso anche le sue impronte, ha cercato più volte di scaricare la colpa sulla governante»; ad esempio dicendo che aveva un brutto rapporto con i suoi datori di lavoro, mentre la moglie del giardiniere ha dichiarato che la donna era solita rubare bottiglie di vino dalla cantina della casa. «L’uomo poi è spesso caduto in contraddizione. Parlando dei gioielli presenti nel cassetto, ad esempio, ha citato un ciondolo con una testa di ariete che poteva essere facilmente confuso con un altro, che aveva una testa di capricorno e si trovava nel cofanetto sparito». Cofanetto che lui ha spergiurato di non aver mai aperto. Losa ha quindi chiesto una condanna a 14 mesi sospesi e l’espulsione per 6 anni.

Sulla stessa linea l’avvocato Fabio Soldati, legale dalla famiglia derubata, che, dopo aver sottolineato il valore affettivo dei gioielli sottratti, «che racchiudevano ricordi ed emozioni di una vita», ha fatto una cronistoria della vicenda evidenziando il ripetuto «mettere le mani avanti» dell’imputato. Per esempio quando, «preoccupatissimo», ha confidato in lacrime a un familiare delle vittime che le sue impronte sarebbero state trovate nei luoghi dei furti, oppure quando «si è sentito cadere il mondo addosso e ha cercato giustificazioni per incolpare la governante». La difesa, sostenuta dall’avvocato Giuseppe Gianella, si è focalizzata in primis su una questione giuridica. Nel primo interrogatorio, quando ha parlato del ciondolo con la testa di ariete e non era ancora stato querelato, l’imputato non era affiancato da un legale e questo, secondo il suo patrocinatore, rende inutilizzabile qualsiasi prova raccolta in quell’occasione. Gianella si è poi soffermato sui motivi che (non) avrebbe avuto l’uomo per rubare. «Un uomo semplice, ma non stupido: lavorando per quella famiglia, lui e la moglie ricevevano un salario che garantiva loro una vita tranquilla». Perché mandare tutto all’aria, «tra l’altro poco dopo aver acceso un mutuo per l’acquisto di una casa in Italia?». L’avvocato ha poi parlato di un’inchiesta «senza prove né testimoni» e ha chiesto il proscioglimento del suo cliente, nonché due indennizzi: 350 franchi «per i chilometri percorsi in quattro anni di processi e interrogatori» e 3.000 per torto morale. Durante l’arringa, l’imputato è scoppiato in lacrime. «Questa storia mi ha rovinato la vita» ha detto a fine processo. Parola alla Corte.

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