«Alessandro, il re invincibile che voleva unire i popoli»

Nella notte tra il 10 e l’11 giugno del 323 a.C. moriva a Babilonia Alessandro III di Macedonia, il re invitto, il conquistatore passato alla storia come il «Grande» (Magno). A Franca Landucci, ordinaria di Storia antica abbiamo chiesto di spiegare l’importanza della figura del sovrano macedone e i possibili insegnamenti da trarre dalla vicenda umana e politico-militare di questo condottiero dell’antichità.
Professoressa
Landucci, chi era Alessandro Magno?
«Alessandro
era il re di Macedonia ed era il figlio di Filippo II, il sovrano che, nei
vent’anni precedenti la sua morte, aveva fatto della Macedonia - terra sino a
quel momento sfruttata dalle grandi città greche per le molte materie prime -
il regno egemone dell’intera Ellade. Nel 336 a. C. Alessandro eredita, appena
ventenne, il trono del padre, il quale, non va mai dimenticato, è il vero
creatore della potenza macedone».
Che
cosa insegna al mondo contemporaneo la storia di Alessandro? E perché è importante
conoscerla?
«Ci
sono almeno due elementi da considerare, collegati tra loro: la vicenda di
Alessandro Magno ci insegna come una grande capacità strategico-militare
possa cambiare le sorti di un impero in poco tempo; ma, nello stesso tempo,
conferma come una conquista militare non significhi di per sé l’immediato
controllo del territorio. Dopo la morte di Alessandro, guerre e divisioni
intestine disfecero l’impero che il giovane re non aveva avuto il tempo di
consolidare».
Una
lezione valida ancora oggi.
«Non
c’è dubbio. Negli ultimi anni l’Occidente ha occupato militarmente Paesi come
il Vietnam del Sud, l’Afghanistan, l’Iraq, mostrando di avere grandi capacità
militari; poi non è stato capace o non ha voluto tenere le posizioni
all’interno di territori difficili da gestire, cosicché queste vittorie si sono
rivelate effimere, così come effimero fu l’impero di Alessandro Magno. Tutti
hanno ancora negli occhi che cos’è stata la ritirata da Kabul decisa dal
presidente Joe Biden».
I
Romani, però, non fecero lo stesso errore.
«Vero,
ma le condizioni erano diverse. I territori conquistati dai Romani erano più
facili da controllare: la parte greca aveva strutture politiche e civili che si
adattavano a una convivenza pacifica, mentre la parte occidentale dell’impero
era costituita da territori arretrati che accettarono le nuove strutture
politico-amministrative per ragioni di convenienza. Pur con tutte le durezze
del suo governo, Roma garantiva grandi vantaggi alle popolazioni residenti, le
quali entravano in un mercato ampio e raggiungevano più facilmente il
benessere. Altrove, questa operazione non riuscì perché i Romani si scontrarono
con culture impermeabili: dalla Britannia, all’Europa del Nord, alle zone a
Nord della Mesopotamia, dove i Parti dimostrarono di essere irriducibili.
Il Reno, il Danubio o l’Eufrate furono confini oltre i quali i Romani non si
avventurarono. Alla morte di Alessandro, nel 323 a.C., il territorio
conquistato dal re macedone non era immediatamente controllabile. Dopo la
parentesi dei regni ellenistici, fu Roma ad assimilare le forme organizzative
dell’impero persiano. Se guardiamo la struttura delle province romane, essa è
la trasposizione dell’antico sistema delle satrapie persiane inventato nel 519
a. C. da Dario I che aveva strutturato l’impero conquistato da Ciro il Grande».
Come
fu possibile per il re macedone conquistare l’intero Oriente in pochi anni?
«Fu
possibile grazie alla riforma militare del padre, il quale aveva costruito un
esercito con una capacità di combattimento e una forza per l’epoca dirompenti.
Sino all’avvento di Filippo, le battaglie dei Macedoni erano condotte soltanto
dagli aristocratici a cavallo, che non riuscivano a sfondare. Filippo crea una
forza di fanteria, la falange - una sorta di istrice munito di lunghe lance -
che apriva il fronte nemico favorendo l’arrivo dai fianchi della cavalleria. La
falange fu invincibile fino allo scontro con le legioni romane, le quali
avevano una capacità di movimento impensabile fino a quel momento, in quanto
governate da una catena di comando molto efficace perché composta da ufficiali
e sottufficiali».


In
che cosa consiste il mito di Alessandro Magno? E non è, questo mito, più forte
e persistente a Oriente invece che a Occidente?
«Alessandro
unisce il fascino dei grandi conquistatori al fatto di essersene andato troppo
presto. “Muore giovane chi è caro agli dei”, recita il celebre frammento di
Menandro. E il re macedone non fa eccezione: scompare infatti a 33 anni, dopo
aver conquistato l’impero persiano. È una sorta di Napoleone dell’antichità,
con in più l’aura dell’invincibilità. In questo consiste il suo mito. Che non è
meno forte a Occidente, quanto piuttosto condizionato da una lettura storica di
forte impronta romana».
Che
cosa intende dire?
«Alessandro
è l’iniziatore dell’età ellenistica, della koiné greca che dura oltre 200 anni
e si estende nel Mediterraneo orientale fino all’Anatolia, alla Siria e, più a
Sud, a Cipro e all’Egitto, dove come tutti sanno fu fondata la città che porta
il nome del re macedone. Queste regioni diventeranno in seguito province
romane; anche l’Egitto, che sarà conquistato nel 31 a.C. dopo la battaglia di
Azio. Ma i Romani devono combattere a lungo per assoggettare il mondo
ellenistico, e descriveranno Mitridate - l’ultimo grande sovrano ellenistico -
come un brigante. Alessandro è visto quindi come il predecessore di molti loro
nemici, e per questo sarà dipinto alla stregua di un personaggio meta-storico,
una grande meteora che passa, incendia il cielo e sparisce. L’esempio pratico è
dato da Plutarco, il quale ha dedicato una delle sue “Vite parallele” ad
Alessandro, descritto come un leggendario conquistatore, ma non si è mai
soffermato su alcuno dei successori, preferendo invece raccontare le vite dei
condottieri romani che hanno combattuto per conquistare l’Ellade».
Oscurare
Alessandro per esaltare la Grecia delle Città-Stato.
«Esattamente.
Roma non ha mai negato di aver voluto imparare il greco, ma non da una cultura
nemica: per questo ha offuscato l’ellenismo ed esaltato la Grecia di Atene e
Sparta. Alessandro rimane, ovvio, ma noi ci ricordiamo più di Pericle e della
guerra del Peloponneso che dei Macedoni. In fondo, i Greci hanno semplicemente
impedito ai Persiani di sbarcare, mentre Alessandro li ha sconfitti. Tuttavia,
la narrazione latina esalta la Grecia delle città perché ai romani né Sparta né
Atene avevano dato fastidio. Abbiamo messo da parte quello venuto dopo per una
censura implicita».
Qual
era il progetto politico, se così possiamo definirlo, di Alessandro? Semplice
volontà di potenza o disegno più ampio?
«Se
l’obiettivo del padre Filippo era fare una spedizione in Anatolia per
conquistare nuove terre e dare vita a una campagna di colonizzazione che
sopperisse alla crisi economica che attanagliava la Grecia del IV secolo, il
figlio Alessandro va molto oltre: dopo aver sconfitto Dario III, Alessandro
decide di diventare l’erede dell’Impero persiano; il suo disegno politico è
costruire un impero multiculturale in cui la etnoclasse dominante fosse
macedone-persiana e in cui vi fosse un’integrazione reciproca. Voleva insomma
costruire un impero con strutture amministrative persiane vivificate da
innovazioni culturali e intellettuali del mondo greco».
Il
fatto che Alessandro, per volontà del padre Filippo, fosse stato istruito da Aristotele,
ha contribuito a creare la leggenda del sovrano illuminato, del re filosofo.
Quanto c’è di vero in tutto questo?
«Alessandro era sicuramente un uomo colto; da
Aristotele aveva assorbito anche l’interesse per le scienze naturali, ma ne
aveva al contempo superato la visione, rivolta al passato, di una cultura
eroica convinta della propria superiorità. Aristotele, infatti, analizza le
poleis quando queste sono ormai morte, è l’anatomopatologo della grandezza
greca. Alessandro, da parte sua, quando sconfigge Dario III, si rende conto
della complessità della cultura persiana, decidendo di usarne gli strumenti e
di strutturare uno Stato territoriale vasto fondato sull’integrazione. Non a
caso, elimina subito i collaboratori che avrebbero voluto schiavizzare i
Persiani. A differenza di Aristotele, insomma, sembra cogliere l’importanza
della multietnicità e del multiculturalismo, della necessità dei popoli di
dialogare tra loro».