Il personaggio

Alfonso Cuarón, quando il cinema è passione

Al Festival anche il grande regista messicano, due volte premio Oscar, che si racconta tra mestiere e aneddoti
© Locarno Film Festival/Ti-Press
Max Borg
11.08.2024 22:06

Ha lanciato la carriera di Gael García Bernal e Diego Luna. Ha firmato quello che per molti è il miglior film della saga di Harry Potter (Il prigioniero di Azkaban, uscito vent’anni fa). Con Gravity, che gli è valso il primo dei suoi due Oscar per la regia, ha realizzato uno dei pochi lungometraggi veramente arricchiti dalla tecnologia 3D. Tra qualche settimana sarà alla Mostra di Venezia per l’anteprima mondiale di Disclaimer, miniserie che arriverà su Apple TV+ l’11 ottobre.

Ma prima di approdare al Lido è venuto a Locarno per ritirare il Lifetime Achievement Award, non senza un po’ di ironia sulla nozione di un premio alla carriera («Non ho ancora finito di fare film»). Al Festival ha portato due pellicole: il suo I figli degli uomini, magnifica distopia datata 2006 e ambientata in un mondo dove l’umanità non riesce più a procreare («Cominciai a lavorarci nel 2001, mentre ero bloccato a Toronto a causa dell’11 settembre»), e uno dei suoi titoli del cuore, Jonas qui aura 25 ans en l’an 2000 di Alain Tanner, da cui deriva la scelta di dare al suo primogenito, anch’egli regista, il nome Jonás.

Immancabile la consueta conversazione con il pubblico, con una miriade di aneddoti, a cominciare dalla prima vera folgorazione cinematografica dopo essere stato spettatore occasionale: «I miei genitori erano fuori a cena e con mio cugino ci intrufolammo in camera loro per guardare la televisione. Il film, stranamente preceduto da un avviso circa il suo essere solo per adulti, era Ladri di biciclette».

Cinefilo precoce («Ho visto Questa è la mia vita di Godard quando avevo nove anni, non ci capii nulla ma ero affascinato da come era stato realizzato»), frequentando i cineforum ha conosciuto il suo collaboratore più stretto e longevo, il direttore della fotografia Emmanuel Lubezki, detto Chivo. Con lui ha realizzato tutti i suoi film tranne Roma («Doveva essere Chivo a firmare la fotografia, ma aveva altri impegni») ma incluso un cortometraggio che gli costò l’espulsione dalla scuola di cinema («Ero il direttore della fotografia e Chivo il mio assistente, il regista ebbe l’idea di girarlo in inglese, che era considerato un affronto»). L’arrivo a Hollywood già negli anni Novanta, non per aspirazione personale ma quasi una scelta obbligata dopo che il suo primo lungometraggio andò incontro all’astio delle autorità messicane, rendendolo persona non grata per più o meno un decennio, prima del trionfo di Y tu mamá también.

E poi i blockbuster, a cominciare da Harry Potter («Non mi piace il fantasy, ma quell’universo era molto umano»). In futuro forse un horror, a patto che non ci siano elementi tendenti al fantastico («Quelli mi piacciono solo nei film di Guillermo del Toro» dice riferendosi al collega e amico fraterno). Alla domanda di una spettatrice sui suoi film preferiti, la risposta più democratica possibile: «Non mi piacciono le classifiche, quando mi chiedono di partecipare dico sempre di no, sono troppi i film che amo. Come diceva Chabrol, il cinema non è un’onda, è un oceano».

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