Andiamo ancora in discoteca? La fine di Tony Manero
Andare in discoteca è passato di moda da molto prima del COVID, come testimoniano le chiusure dell’ultimo ventennio in tutta Europa. La febbre del sabato sera ha ormai tanti altri modi per manifestarsi, mentre quella di Tony Manero fa ormai parte della storia. Ma perché i ragazzi, e a maggior ragione gli adulti, non vanno più in discoteca?
John Travolta
La parola fine a un’epoca verrà scritta il 22 aprile quando a Los Angeles durante un’asta di cimeli hollywoodiani verrà proposto il memorabile abito bianco che Tony Manero indossava in La febbre del sabato sera, il film che nel 1977 trasformò John Travolta in icona planetaria e la discoteca in un luogo di culto per tanti ragazzi occidentali, soprattutto per quelli di periferia o di provincia. Il significato dell’opera di John Badham va infatti al di là del posto in cui Manero-Travolta, italoamericano commesso in un negozio di vernici di Brooklyn, è un autentico divo. Quasi tutti negli anni Settanta, Ottanta e Novanta hanno avuto la loro 2001 Odyssey, anche senza essere campioni di ballo, il posto dove andare per dimenticare una settimana grigia e situazioni familiari difficili, tirare l’alba con i soliti amici, fare qualche stupidaggine e poi ricominciare da capo. Quasi tutti hanno dedicato ore alla vestizione, come se dal sabato sera in discoteca dipendesse tutto: adesso quel vestito si può avere per una cifra stimata in 200.000 dollari. Ma a colpire non è la cifra, bensì che stiamo parlando delle discoteche quasi come di archeologia.
Un crollo o contesti diversi?
In Inghilterra si è passati dai 10.040 club (che comprendono non solo la classica discoteca ma anche ambienti più ristretti) del 2010 ai meno di 5.000 odierni, con un crollo accelerato dal COVID. In Italia le discoteche propriamente dette sono ormai un migliaio, da 5.000 che erano all’inizio del 2000, un calo quasi tutto avvenuto prima del COVID a riprova che i vari lockdown si sono saldati ad una tendenza culturale già in atto. Stesse percentuali al ribasso in Svizzera, dove ormai stando a TripAdvisor le discoteche e le sale da ballo dedicate soltanto alla musica sono 72. Statistiche sempre da asteriscare, perché ai tempi di Tony Manero i discobar esistevano a New York ma non certo in Italia o in Svizzera: non è che la gente abbia smesso di ballare, è che lo fa anche in contesti privati, auto-organizzati e comunque fuori da circuiti commerciali tradizionali. Insomma, la discoteca come rito collettivo ormai è confinata quasi soltanto all’estate e a quella provincia profondissima spiegata e cantata da Max Pezzali in Rotta per casa di Dio.
Dalla disco al rave party?
I numeri delle discoteche di una volta sono oggi fatti dai rave party, definizione giornalistica di quelli che di solito vengono chiamati free party. In sostanza quelle feste più o meno organizzate, in posti sempre diversi, pubblicizzate attraverso un passaparola prima telefonico (di rave si è iniziato parlare a fine anni Ottanta) e poi web, adesso soprattutto tramite Telegram. Quasi mai c’è un biglietto di ingresso e mai c’è una selezione, visto che ci si arriva sempre su mezzi inviti o per conoscenze: differenze enormi con la discoteca. In comune la quantità di persone: rave da 2.000 partecipanti sono la normalità, me ce ne sono stati anche da 30.000. Tutto avviene in fabbriche abbandonate, capannoni in disarmo, prati senza recinzione: senza permessi, pubblici o privati che siano, in modo che queste feste mantengano una patina di trasgressione. Ma gli organizzatori esistono ed il loro biglietto sono gli alcolici venduti ai partecipanti. Che da casa portano a volte droghe, peraltro non diversamente da come accade in discoteca. Sovrapporre i due pubblici è una forzatura, ma certo è che il rave (che può anche durare giorni) è rivolto anche al pubblico popolare delle discoteche di una volta e non a quello dei club più ristretti. Con una implicazione musicale importante: visti gli spazi e la situazione, l’unica musica possibile è spesso quella techno.
Le abitudini dei Millennials
La fine della discoteca non è stata decretata da chi ci andava prima, che semplicemente è invecchiato e non va più da alcuna parte, intorpidito dalle serie televisive, ma dai Millennials (nati dal 1981 al 1996) e dalle loro abitudini serali più tranquille rispetto alla Generazione X: ad un certo punto una generazione si è chiesta perché pagare 20 euro, quando va bene, per entrare in luoghi claustrofobici, bui, sovraffollati, con buttafuori e personale aggressivi. E ha lentamente cambiato le proprie abitudini, spingendosi verso quelle del mondo adulto: da qui il successo della ristorazione ed in generale del food, per loro e la successiva Generazione Z. I giovani che escono di casa lo fanno sempre di più per bere e per mangiare, non per ballare o fare conoscenze con un determinato obbiettivo, per quello ci sono Tinder e mille altre app. Chi è che oggi esce di casa dopo avere cenato, per fare serata? La serata coincide con il mangiare, assurdo quindi farlo a casa di corsa per arrivare in tempo ai mille appontamenti, da rispettare al nanosecondo visto che non c’erano cellulari per comunicare ritardi o cambi di programma.
Una vita in vacanza
Detto tutto questo, le discoteche sono morte come moda ma in determinati contesti ancora resistono. In Europa il nome più noto fra quelli ancora in pista (è il caso di dirlo) è quello del Pacha di Ibiza, teatro della gesta di deejay di culto come David Guetta e Bob Sinclair. Un altro posto di enorme successo anche nel 2023 e che sembra uscito dalla macchina del tempo è l’Altromondo Studios di Rimini, che punta su più generi ma d’estate soprattutto sul reggaeton. Altra meta obbligata, fra le discoteche del presente, è il BCM Planet Dance di Magalluf, vicino a Palma di Maiorca. Obbligatorio poi andare a Mykonos al Cavo Paradiso, di fronte a una bellissima spiaggia: essere citata nelle guide turistiche non le ha tolto totalmente fascino. Tutti posti di vacanza, senza tempo, mentre nella vita normale funziona ormai diversamente.