Appello

Anni di soprusi e percosse tra le mura domestiche

È tornato in aula il 37.enne che per poco non uccise la moglie durante l’ennesimo litigio avvenuto nella loro abitazione di Arzo – Condannato in primo grado a 6 anni e mezzo, l’uomo contesta il reato di tentato omicidio intenzionale – L’accusa chiede un inasprimento della pena
Stefano Lippmann
27.04.2022 21:45

All’interno delle mura di quell’abitazione di Arzo si alzavano le mani. E oltre alla violenza fisica c’era anche quella verbale. Episodi che si presentavano con cadenza regolare da anni fino a quando, nell’aprile del 2019, si è sfiorato il dramma.
Non solo: secondo la procuratrice pubblica Petra Canonica Alexakis per un soffio non si è parlato di femminicidio. Oggi, davanti alla Corte di appello e di revisione penale – presieduta dal giudice Angelo Olgiati – è tornato in aula il marito. Trentasettenne italiano che, nel dicembre del 2020, era stato condannato dalla Corte delle assise di criminali di Mendrisio a una pena di 6 anni e mezzo di carcere oltre all’espulsione dalla Svizzera per 5 anni. Nei suoi confronti, allora, era stato riconosciuto il reato di tentato omicidio (per dolo eventuale).

Percossa e strangolata

Quanto avvenuto la mattina dell’11 aprile 2019 è stato il culmine della violenza che, puntualmente si ripresentava tra le mura domestiche. Episodi documentati dal 2010 (ma ve ne sarebbero anche precedenti, giuridicamente caduti in prescrizione) che hanno portato più volte la (ex) moglie al pronto soccorso: fratture, ematomi, punti di sutura e un danno permanente all’occhio hanno documentato, negli anni, i medici. Frutto di percosse, pugni, sberle e, secondo l’accusa, anche calci. Quella mattina di aprile, come detto, si è però sfiorato l’omicidio. Durante l’ennesima lite si è arrivati alle mani e l’uomo – di professione agente di sicurezza in una ditta privata – in un primo momento, secondo quanto ricostruito dagli inquirenti, aveva tenuto la faccia della donna premuta nella vasca da bagno che conteneva acqua e candeggina. Poi l’aveva nuovamente sopraffatta stringendole il braccio intorno al collo facendole perdere i sensi. Soltanto il fatto che fosse in procinto di tornare a casa da scuola il figlio della coppia ha fatto sì che quei violenti attimi si placassero. Da qui, dunque, la condanna in primo grado a sei anni e mezzo (e l’ordine di seguire un trattamento stazionario) per tentato omicidio intenzionale e, considerati gli anni di soprusi, anche per lesioni gravi, lesioni semplici, minacce nonché, per finire, contravvenzione alla Legge federale sugli stupefacenti (siccome faceva uso di cocaina).

«Non ti mollo più»

Oggi, durante la requisitoria, la procuratrice pubblica Petra Canonica Alexakis ha chiesto che la condanna nei confronti del 37.enne fosse ulteriormente inasprita: 8 anni di reclusione (oltre all’espulsione per 7 anni), quanto già proposto durante il processo di primo grado. «Quel giorno – ha spiegato – l’imputato con il suo agire ha accettato il rischio che la morte della donna si potesse concretizzare».
E per far meglio comprendere quanto la situazione sia stata concitata e potenzialmente pericolosa, la procuratrice ha ricordato una frase pronunciata dalla vittima: «Lui la stava inseguendo e lei stava scappando e quando l’ha raggiunta le ha detto: ‘Adesso sì che ti ho presa bene e non ti mollo più’». «La mia assistita ha rischiato di essere uccisa per un ‘vaffa...’» ha detto dal canto suo Valentina Zeli, legale della vittima. Di più: «Oggi, dopo tre anni di carcere, non ha ancora preso coscienza di quanto succedeva tra le mura domestiche».

«Non fu tentato omicidio»

Di diverso avviso, invece, l’avvocato dell’imputato, Giuseppe Gianella. Legale che si è battuto per una massiccia riduzione della pena, contenuta in al massimo 10 mesi e nessuna espulsione. E lo ha fatto agendo su più campi. In primo luogo ha invocato un cavillo legale basato sulla sentenza di primo grado. Essendo stato prosciolto da alcuni reati inerenti i fatti di aprile, ha sostenuto, il 37.enne non dovrebbe quindi più essere giudicato (il principio «ne bis in idem» che impone di non procedere per lo stesso fatto, nei confronti del medesimo imputato, già giudicato). «Per la difesa – ha in seguito spiegato – è chiarissimo che quanto successo sia stato estremamente grave». Poi, ripercorrendo i concitati attimi, è arrivato alla conclusione che quel tipo di presa al collo non avrebbe potuto causare la morte della donna: «Non c’è stata occlusione delle vie respiratorie e il mio assistito nega che sua moglie abbia perso i sensi». L’imputato, al momento di pronunciare le ultime parole prima della fine del dibattimento, si è detto «dispiaciuto e pentito per quanto fatto. Avrò sempre rimorsi di coscienza». La sentenza è attesa nelle prossime settimane.