Aria d'inverno
Aria d’inverno, infine, come natura comanda. A dispetto del surriscaldamento globale (ormai inconfutabile, resta da sperare che le cose possano cambiare, chissà) per fortuna dopo il caldo viene il freddo, e poi via ancora di nuovo. Non potrei vivere nei paesi dove c’è sempre la stessa stagione, sono un tifoso delle quattro stagioni. Mi piace dunque anche l’inverno. Se poi arriverà la neve, meglio ancora, un po’ ci conto. Sul calendario l’inverno comincia solo il 21, ma ormai ci siamo. E del resto il 21 dicembre, nel momento del solstizio invernale, ecco che impercettibilmente il buio, che era andato crescendo ogni giorno accorciando sempre più la luce, già comincerà a diminuire e invece la luce riprenderà lentamente a rinascere. Proprio da questo continuo rivolgimento cosmico e ciclico fra buio e luce si originano le antichissime celebrazioni ancestrali, celtiche, pagane, per chiedere e festeggiare il ritorno della luce che rinasce, e poi seguirà l’innesto rituale del Natale cristiano che celebra la nascita del Dio bambino, incarnato nell’umano. E dunque quello è il tempo in cui (chi con la fede, tutti comunque per istintiva tenerezza) si celebra il mistero della nascita, quella della luce e quella della vita, ovvero di tutto.
L’inverno sfida l’uomo e il suo ingegno, molto più delle altre stagioni, e lo ha sempre indotto a difendersene, sin da quando senza legna da bruciare e pellicce e lana con cui coprirsi, si moriva. D’estate si poteva dormire nei prati sotto il cielo stellato, d’inverno ci si stringeva attorno a un fuoco sotto un tetto. L’inverno, proprio per questo, è stato sempre anche la stagione in cui il gelo bianco dell’esterno dava valore all’alone di luce e al caldo salvifico dell’interno. Già nella notte dei tempi, davanti al fuoco, mentre fuori infuriavano bufere di neve, si raccontavano storie, fra incanto e paura, nelle lunghe veglie nascevano miti e fiabe. Qualcosa di quell’antico sostare immaginoso davanti a fuochi e bivacchi è rimasto dentro l’impasto umano. Ho abbastanza anni (e inverni) sulle spalle per ricordare i racconti di mia nonna e di una mia prozia, entrambe morte a poco meno di cent’anni, entrambe di infanzia contadina in valle di Blenio: esse narravano a me bambino di quando, sospeso il lavoro nei campi coperti di neve, con le notti che cominciavano alle cinque del pomeriggio, per risparmiare la preziosa legna (l’unica energia, allora, altro che elettricità, petrolio, gas) la gente si radunava in gruppi plurifamiliari accanto a un unico focolare o meglio ancora nel tepore naturale delle stalle (il fiato dell’asino e del bue di duemila anni fa a Betlemme rinnovato dalle placide mucche di fine Ottocento…). Lì, mi raccontavano, si narravano storie allegre e paurose, spesso alcuni giovanotti dall’esterno lanciavano ululati dal buio gelido per spaventare le ragazze poi entravano e facevano un po’ gli spacconi e un po’ i timidi innamorati. Nascevano persino fidanzamenti. E quanti pettegolezzi, fiabe, maldicenze e bellezze, e anche rosari e preghiere. Ma l’inverno fu anche sempre la stagione in cui l’uomo, in generale, doveva affrontare la dura natura ghiacciata con estro e ingegno: tenere aperte strade e valichi, affrontare carestie e malattie aggravate dal freddo, riscaldare i luoghi dove sopravvivere: le caverne, le capanne, le case di sassi, legno e paglia. L’inverno ha sempre influenzato e anche travolto le imprese di uomini, eserciti e popoli (basti solo pensare alle disfatte di Napoleone e di Hitler nel gelo devastante dell’inverno russo). D’inverno, come detto, per sopravvivere c’era bisogno della legna, che spesso valeva come oro, vitale. L’energia era solo quella ed era appena fuori casa. Ma bisognava prepararla d’estate, come formiche. E certi boschi erano solo dei padroni e così altri boschi erano messi in comune (nelle nostre regioni alpine e prealpine le “vicinanze”, i patriziati). L’inverno ha insomma sempre sfidato l’uomo: si lottava. Da qui la vivezza dell’alternanza fra la durezza della natura gelata e il richiamo rassicurante del tepore salvifico («Qui non si sente altro che il caldo buono, sto con le quattro capriole di fumo del focolare»: Giuseppe Ungaretti in “Natale”). Esiste davvero una intimità dell’inverno sociale e affettivo che ha qualcosa di ancestrale: «Il silenzio attorno, noi al caldo di un fuoco acceso. È la storia millenaria di una natura che trattiene il respiro», scrive Alessandro Vanoli in un bel saggio proprio su quella stagione: “Inverno, il racconto dell’attesa”). Ha ragione la Lara del romanzo “Il dottor Zivago” di Boris Pasternak quando dice a una sua amica, in un pomeriggio di neve turbinosa: «Vieni da me a bere un tè. È bello, quando nevica, stare dentro, al caldo, a parlare di cose intelligenti». Buon inverno ai lettori di questo foglio che vola nel freddo.