Arte come denuncia contro la distruzione della «sacra» natura
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Robert Smithson, uno dei maggiori protagonisti della cosiddetta Land Art, in tutta la sua breve esistenza (1938-1973) combatté contro l’ingombrante primato dell’uomo sulla storia, dell’individuo sulla natura. Per lui, tutta la civiltà occidentale era diventata troppo antropocentrica, troppo impegnata in fatti esclusivamente umani e nei suoi esclusivi interessi, legandosi eccessivamente al culto dell’io, alla divinizzazione della personalità. Come Picasso, come Matisse, Smithson non credeva nel progresso, non credeva nella storia e nel suo ingannevole movimento uniridezionale, secondo la banale immagine di una freccia che viaggia necessariamente verso una meta positiva e felice. Al contraio il loro pensiero era fermamente immanentistico, concreto, antievoluzionistico.
Allargare i confini di un universo variegato
E dunque se l’arte è soprattutto comunicazione di un’emozione, un’esperienza, in una forma insieme rappresentativa e libera, realistica e simbolica, perché non allargarne i confini in un universo molto più ampio e variegato? Perché limitarsi ad una semplice superficie bidimensionale? Percorrendo la misura di un quadro, possiamo superare la sua dimensione, possiamo andare oltre, al di là. Attraverso un taglio (Lucio Fontana) oltrepassiamo la tela tradizionale. Le nostre gambe ripercorrono strade, sentieri, prati, boschi, colline. «L’opera d’arte non è più la rappresentazione pittorica di un paesaggio, bensì il paesaggio stesso». (Gerry Schum).
I motivi più profondi dell’ecologia
In Europa più di un secolo dopo i grandi pittori come Turner, Constable, Friedrich, Courbet, tanti sono tornati ad ispirarsi direttamente alla natura, in due direzioni principali: da una parte sposando i motivi più profondi dei primi ecologisti, in un’arte soprattutto come denuncia verso le varie e drammatiche forme d’inquinamento: Joseph Beuys, Mirella Bentivoglio, Daniele De Lonti, Olafur Eliasson, Ernesto Neto, Michelangelo Pistoletto, Laura Viale; dall’altra come pura contemplazione della natura stessa: Alberto Burri, Gianni Caravaggio, Richard Long, Hamish Fulton, Mario Giacomelli, Piero Gilardi, Richard Long, David Nash, Giuseppe Penone, Alessandro Piangiamore; o in un gioco costruttivo, sempre molto rispettoso dei vari ambienti naturalistici, come in Cristo e Jeanne-Claude, Andy Goldsworthy e Arcangelo Sassolino.
Joseph Beuys, il pioniere
In Europa, Joseph Beuys fu il primo che a partire dai suoi oggetti-sculture-installazioni degli anni ’60, sposò le più profonde ragioni ecologiste. La sua opera più nota ed emblematica per l’edizione di «Documenta» a Kassel del 1982 è fatta di .7000 querce. Un grande triangolo di settemila pietre di basalto, situato di fronte al museo Federiciano, ciascuna acquistabile in cambio di una quercia, al fine di piantare e costruire un grande bosco, «in un grande rito collettivo». Rapporto ed equilibrio fondamentale, approfondito più tardi da Michelangelo Pistoletto con le sue varie declinazioni e versioni de Il Terzo Paradiso (a partire dal 2003) nella volontà di ricondurre l’artificio, cioè la scienza, la tecnologia, al rispetto della natura, ad nuovo equilibrio con la madre Terra. E poi: la riscoperta di un incontro diretto con le forme della natura e la semplice luce (Bentivoglio, Burri, Eliasson, Giacomelli, Nash, Viale); il fascino di una lunga camminata nel cuore del paesaggio; la realtà e la visione del contatto concreto, non mediato con le primordiali presenze della terra. Fino alle vaste forme intrecciate di Ernesto Neto che recuperano la vita spirituale di tribù primitive e il senso più alto dello sciamanesimo.
Una rivoluzione artistica
Credo che i protagonisti della Land Art, e tra questi Richard Long ed Hamish Fulton, a partire dalla fine degli anni ’60 del secolo scorso, abbiano compiuto una «rivoluzione» artistica molto bella e molto grande, non inferiore a quella operata - più di cento anni fa - dagli artisti impressionisti. Rinunciando ai mezzi di rappresentazione tradizionali; allontanandosi dalle ombre dei luoghi chiusi, trascorrendo dalle esatte geometrie della mente alle felici fantasie dell’istinto. Avvicinandosi sempre di più alla realtà, la concretezza della natura.
L’avvicinarsi il più possibile alle forme della terra: l’erba, i legni, le pietre, il fango, l’acqua, con grande rispetto giocando con esse (Beuys, Burri, Long, Nash, Neto, Penone, Viale), o rinunciando a qualsiasi mutazione (Fulton). Il camminare come gesto, azione, coscienza, forma, pensiero; alla riscoperta primordiale della nostra identità più profonda e antica, semplice e arcaica. Lo spogliarsi di tutte le protesi tecnologiche, per il ritorno alla comunione col tutto. Oppure, come in Sassolino, usare le più forti e sofisticate macchine tecnologiche per esaltare, paradossalmente, i fatti naturali. L’essere elementare, la primordialità, la purezza delle pietre. Il materiale più semplice utilizzato nella maniera più semplice. Il cerchio, l’ellisse, la linea. Il cerchio delle pietre, ispirato ad alcune costruzioni arcaiche, primitive, come simbolo di difesa e preghiera, centralità e liturgia. Una lunga camminata, anche di molti giorni, per re-incontrare la presenza della natura, per immergersi nell’elemento fondamentale che, in parte, abbiamo dimenticato. Il camminare come arte: corpo, fisicità, respiro, vita. L’uomo che passa, che trascorre da un luogo all’altro: ora con la volontà di non toccare, non modificare nessuna cosa (Fulton), annullando totalmente il proprio io creativo, il proprio ego; ora mutando il meno possibile, testimoniando soltanto con una linea, un’ellisse, un cerchio di pietre o di legni o di cenere, documentati da una fotografia e, quasi sempre, subito dopo risistemati nella loro posizione originaria (Long).
Arte come svuotamento dell’ambizione del fare. La realtà, il simbolo di un’esperienza come cancellazione dell’Hybris (vanità) creativa. Un’arte che ci rivela, direttamente, l’immenso fascino della natura. Il ritorno ad un ideale stato di pre-coscienza. Un altro inglese, Andy Goldsworthy, lavorando direttamente con gli elementi naturali: l’acqua, il ghiaccio, la neve; le pietre, i rami, le foglie, con le sole mani, senza l’aiuto di nessuna attrezzatura particolare (in gesti opposti a quelli di Sassolino), dà vita a sculture e forme per lo più effimere, che appaiono e scompaiono, che sono e non sono: come le nuvole, la musica, le stelle. Con un grande rispetto per le cose del creato.
La pura contemplazione
Si potrebbe concludere con una ipotetica, possibile immagine: il gesto più profondo dell’arte di Beuys, Eliasson, Long, Nash, Neto, Fulton, Viale e altri, equivale alla metamorfosi di una celebre metamorfosi: una olimpica, inedita figura di Apollo - ancora più luminoso - che rinunciando all’inseguimento di Dafne, rinuncia alla caccia, alla corsa, alla possibile e sognata conquista; alla stessa speculazione, a favore della pura, assoluta contemplazione - e lo stormire delle foglie del lauro si fa ancora più chiaro e musicale. Infine, secondo le bellissime parole di Albert Einstein, quel sacro sentire come «dietro qualsiasi cosa che può essere sperimentata c’è qualcosa che la nostra mente non può cogliere del tutto e la cui bellezza e sublimità ci raggiunge solo indirettamente, come un debole riflesso» (The world as I see it, Citadel Pr, London, 2006, p.84). Il religioso riflesso dei boschi, delle brughiere, delle pietre, delle valli, delle montagne. Il religioso mistero del sacro tempio della natura.