La giornata

Auschwitz, ottant'anni di memoria

Presente oggi alla celebrazione della liberazione anche Karin Keller-Sutter - La presidente della Confederazione ha accompagnato i fratelli Popper, la cui infanzia è stata segnata dal passaggio in tre diversi campi di concentramento
© Keystone/BEATRICE DEVENES
Paolo Galli
27.01.2025 20:30

Alfred Popper aveva dodici anni, allora. Suo fratello Rudolf dieci. Entrarono ad Auschwitz il 31 ottobre del 1944. Oggi vi sono tornati per celebrare l’ottantesimo anniversario della liberazione del campo di concentramento da parte dell’Armata Rossa. «Ricorderemo sempre che è stato il soldato sovietico a schiacciare il male terribile e totale», ha infatti ricordato il presidente russo Vladimir Putin. Lui non c’era, oggi ad Auschwitz, evidentemente. C’era però, tra tanti altri leader mondiali, Karin Keller-Sutter. La presidente della Confederazione ha accompagnato nella visita proprio i fratelli Popper. Ricordare ciò che sembra impossibile dimenticare. «I crimini nazisti erano così mostruosi e disumani. Chi l’ha sperimentato non potrà mai liberarsene», ha spiegato lo stesso Alfred Popper nei giorni scorsi in un’intervista alla NZZ. A proposito di Memoria, suo fratello Rudolf aggiungeva: «Come sopravvissuti, sentiamo l’obbligo nei confronti dei milioni di vittime innocenti uccise di parlare apertamente degli orrori che i nazisti e i loro aiutanti ci hanno inflitto. È nostra responsabilità».

Il senso di colpa

I fratellini Popper vennero catapultati nell’inferno di Auschwitz dopo un’infanzia spensierata vissuta a Praga. Spensierata fino al marzo del 1939, quando i tedeschi occuparono il loro Paese. Il padre conduceva un’azienda con contatti globali nell’industria chimica, un’azienda considerata fondamentale proprio per la guerra. Per questo motivo, la famiglia rimase a Praga e venne espulsa soltanto nel 1943, nel campo di raccolta e smistamento di Theresienstadt. Da lì, una lunga attesa fino alla deportazione, fino ad Auschwitz. Decisiva fu proprio l’«utilità» del padre per lo scopo dei nazisti. L’Armata Rossa però, a quel punto, incombeva. E a gennaio Rudolf, Alfred e il padre vennero mandati nella cosiddetta marcia della morte. Riuscirono a sopravvivere anche a quella, fino a Mauthausen. Da un campo di concentramento all’altro, insomma. Il terzo fu fatale al padre. Le truppe americane liberarono Mauthausen il 5 maggio del 1945. I fratellini ritrovarono la mamma dopo altre mille peripezie. Ritrovarono anche la Cecoslovacchia, che si trasformò in fretta in un nuovo luogo ostile. A quel punto adulti, Alfred e Rudolf la lasciarono nel 1968 e si trasferirono a Zurigo, trovando entrambi lavoro al Politecnico. Nella bella intervista, già citata, alla NZZ, il più giovane, Rudolf, che oggi ha 90 anni, ammette: «Portiamo dentro di noi un senso di colpa, il senso di colpa per la sopravvivenza. Perché noi siamo sopravvissuti e gli altri no?».

Le voci scompaiono

«Ai sopravvissuti, alcuni dei quali mi accompagnano, dobbiamo il massimo rispetto», ha sottolineato Karin Keller-Sutter nel suo messaggio. «Dopo aver sopportato tante sofferenze, hanno dovuto ricostruire le loro vite, spesso con il dolore per la perdita dei propri cari. Le loro testimonianze, che commuovono e illuminano, hanno un valore inestimabile. Di fronte a distorsioni, approssimazioni e mistificazioni, amplificate dai social media, queste testimonianze riportano i fatti così come li hanno vissuti». Tuttavia, ha aggiunto la presidente della Confederazione, la cerchia dei sopravvissuti si restringe ogni anno, e le voci di testimonianza che ci collegano direttamente alla realtà storica scompaiono. E allora «dobbiamo raddoppiare i nostri sforzi nel campo dell’educazione per mantenere viva la memoria dell’Olocausto, soprattutto tra le giovani generazioni».

Preservare la testimonianza

Il presidente polacco Andrzej Duda, ad Auschwitz, si è concentrato, a sua volta, nel suo discorso, proprio su una sofferenza eterna, quella dei morti e quella dei sopravvissuti, in qualche modo costretti al ricordo e responsabilizzati del racconto. «Quanto accaduto è qualcosa senza precedenti nella storia dell’umanità. Possa il ricordo di tutti gli assassinati continuare a vivere, possa il ricordo di tutti i morti continuare a vivere, possa il ricordo di tutti coloro che soffrono continuare a vivere». Il suo Paese è chiamato a conservare i luoghi come Auschwitz «per preservare la memoria, per mantenerla viva, affinché la gente ricordi sempre. Noi polacchi siamo i custodi della memoria oggi e abbiamo la missione di preservare la testimonianza».

L’ascesa di chi esclude

«Il crimine dell’Olocausto non deve mai più ripetersi, ma purtroppo il ricordo dell’Olocausto sta gradualmente svanendo. E il male, che cerca di distruggere la vita di intere nazioni, permane ancora nel mondo». Volodymyr Zelensky, pure presente ad Auschwitz, ha utilizzato Telegram per collegare il ricordo all’attualità. Il presidente ucraino ha proseguito: «Dobbiamo tutti lottare per la vita e ricordare che l’indifferenza è un fertilizzante per il male. Dobbiamo superare l’odio che genera abusi e omicidi. Non dobbiamo permettere l’amnesia. E questa è la missione di tutti: fare di tutto affinché il male non vinca». Lo stesso, in fondo, ha fatto pure Karin Keller-Sutter, quando ha aperto il suo pensiero a un oggi particolarmente complesso. «Visto come in passato l’antisemitismo ha portato ai peggiori crimini, la sua attuale recrudescenza, anche in Svizzera, inquieta. Ed è preoccupante anche l’ascesa in diversi Paesi di correnti politiche che sostengono l’esclusione in nome di un concetto di superiorità. I valori democratici di tolleranza, rispetto reciproco e convivenza sono incompatibili con le espressioni di odio basate su razza, etnia, religione o orientamento sessuale. A tal proposito, è in corso di elaborazione una strategia nazionale contro il razzismo e l’antisemitismo, che proporrà un piano d’azione in vari settori per prevenire e contrastare meglio questi flagelli».

Il ruolo delle istituzioni

Da lì al ruolo delle istituzioni, il collegamento è breve ma fondamentale. «Il diritto internazionale e le istituzioni multilaterali, come le Nazioni Unite, hanno ricevuto il mandato di prevenire il ripetersi di crimini di massa. Tuttavia, le fondamenta di questo sistema sono ora messe in discussione. Certo, questo ordine mondiale ha conosciuto fallimenti, ma ha anche consentito di progredire e arginare i conflitti. Le crescenti e ripetute violazioni del diritto internazionale umanitario in molti dei conflitti odierni dovrebbero semmai rappresentare un campanello d’allarme. Per arginare la violenza arbitraria che colpisce soprattutto i civili, è necessario che tutti gli Stati rispettino un quadro normativo comune, così come le istituzioni internazionali responsabili della sua attuazione». E quindi, la conclusione, necessaria: «Lo spirito di resilienza dei sopravvissuti dovrebbe ispirarci a dare il meglio di noi stessi, convinti dell’uguale valore e della dignità intrinseca di ogni essere umano: esattamente il contrario di ciò che rappresenta il campo di Auschwitz».