Il caso

«Basta ammazzare delfini, il governo danese intervenga»

Natalie Maspoli Taylor, direttrice di Sea Shepherd Svizzera, interviene a gamba tesa dopo la mattanza di cetacei avvenuta domenica alle Isole Faroe: «Ci sono troppe contraddizioni in questa storia, il discorso della tradizione e del sostentamento della popolazione non regge»
© AP/Sea Shepherd
Marcello Pelizzari
15.09.2021 19:12

Una mattanza. O, se preferite, una strage. Lo suggeriscono le immagini. Crude, crudissime. Lo dicono i numeri. Quasi millecinquecento delfini ammazzati. Per diletto. Anzi, per tradizione. Il fattaccio è avvenuto domenica alle isole Faroe, un arcipelago a governo autonomo ma dipendente dal Regno di Danimarca. La notizia, va da sé, ha fatto il giro del mondo. Sea Shepherd, da anni impegnato per fermare la caccia in mare aperto, non ha usato giri di parole: «È la più grande uccisione di delfini o globicefali della storia faroese».

La caccia ai cetacei, chiamata Grindadráp, è perfettamente legale. Di più, è un evento molto sentito lassù. Tant’è che gli abitanti del posto si radunano per assistere all’uccisione degli animali. Quindi, si dividono la carne. Tradizione, appunto. Ma a che prezzo? La polemica sta infiammando i social. E perfino alle Faroe c’è chi si è detto indignato. Anche perché la caccia di domenica, ribadisce Sea Shepherd, sarebbe stata effettuata da persone prive della necessaria licenza. Molti delfini, addirittura, sono stati investiti dalle barche e trucidati dalle eliche dei motori. Una festa quantomeno macabra. «E dire che alcune di queste specie sono protette in Europa» ci racconta Natalie Maspoli Taylor, direttrice di Sea Shepherd per la Svizzera. «Poi sì, è vero, ogni anno alle Faroe è possibile uccidere un determinato numero di delfini. Perché, dicono, fa parte della tradizione e perché questi animali sono fonte di cibo per la popolazione».

© Sea Shepherd
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Né normale né sostenibile
A colpire è sì il numero, 1.428 per la precisione, ma soprattutto il modo: i delfini sono stati condotti verso acque poco profonde e, in seguito, trucidati. «C’erano state molte discussioni – prosegue Maspoli Taylor – circa l’opportunità o meno di organizzare questa caccia domenica. Da una parte, perché questa specie solitamente non viene cacciata e, dall’altra, perché il gruppo era davvero grandissimo. Oltre millequattrocento esemplari. In passato ci sono state altre mattanze, fino a ottocento capi». Mai, però, c’era stata una simile violenza.

Maspoli Taylor snocciola dati, numeri e fatti con estrema chiarezza. C’è spazio, tuttavia, anche per le emozioni. Possibile, chiediamo alla direttrice, che alle Faroe non riescano a smarcarsi da abitudini così ancestrali? «Ci risulta che pochi, pochissimi abitanti del luogo abbiano alzato la voce» la risposta. «Parliamo di una popolazione ristretta, fra l’altro molto unita. Eventi simili contribuiscono proprio alla coesione. Chi, magari, osa dire qualcosa contro la Grindadráp rischia di avere ripercussioni in termini di lavoro e relazioni famigliari. L’accento viene continuamente posto sul concetto di tradizione, eppure queste carni non si mangiano quasi più. Non possiamo più parlare di sopravvivenza della popolazione, ecco. L’unico attore che può intervenire, onestamente, è il governo danese. Simili mattanze vanno assolutamente vietate».

A proposito di cibo e sopravvivenza, la nostra interlocutrice chiarisce: «Io alle Faroe sono stata diverse volte. E nei supermercati si trova qualsiasi cosa. Perciò, come dicevo, il discorso di ammazzare cetacei per il sostentamento della popolazione non regge. Il problema principale, diciamo, è che simili tradizioni vengono tramandate di generazione in generazione. A un evento come quello di domenica vengono portati anche i bambini. I quali, beh, già in tenera età assistono a simili scene». E le considerano normali. «Alle Faroe le generazioni più giovani crescono con determinate convinzioni. Ma uccidere delfini non è né naturale né sostenibile».

Ci sono popolazioni che vivono in luoghi remoti del pianeta e che, per sopravvivere, devono uccidere foche o altri animali. Ma qui è diverso

La pesca intensiva
La caccia ai cetacei, dicevamo, è ancora legale alle Faroe. Per quanto strettamente regolamentata, spesso sfugge al controllo delle autorità. Come domenica e, purtroppo, come in molti altri casi. «La carne di cetacei, per dire, non potrebbe essere venduta ma va condivisa fra i cacciatori e le loro famiglie. E invece, siamo a conoscenza di episodi in cui la carne è stata effettivamente venduta. Ci sono tante contraddizioni. Ci sono popolazioni che vivono in luoghi remoti del pianeta e che, per sopravvivere, devono uccidere foche o altri animali. Ma qui è diverso. Di più, siamo nel periodo della migrazione e diverse femmine di delfino sono in attesa. C’è una foto in cui si vede un piccolo intrappolato nel grembo della madre. Di fronte a simili scene, beh, perdonatemi ma non c’è nulla di sostenibile».

A Natalie Maspoli Taylor lanciamo una provocazione: se la notizia ha guadagnato le prime pagine dei giornali è (anche) perché il delfino, in fondo, è un animale cui tutti siamo affezionati. Come il panda. Pensiamo a film e serie tv che avevano come protagonista questo cetaceo. Se ad essere trucidati fossero stati altri animali, l’indignazione sarebbe stata uguale? Di nuovo, quanti altri eventi di questo tipo avvengono nei nostri mari e oceani? E perché non se ne parla? Mettiamo un attimo da parte i delfini e concentriamoci sul problema della pesca industriale e intensiva. Una questione reale che, incredibilmente, sta passando quasi sottotraccia se escludiamo un documentario, Seaspiracy. «C’è il problema della pesca industriale e c’è il problema della pesca illegale. Sea Shepherd è confrontata da anni con questi temi. E da anni sta sensibilizzando le autorità. Parliamo di fenomeni che avvengono lontano dagli occhi e, di riflesso, dal cuore. Ma riguardano tutti noi. Quel documentario, ad ogni modo, ha sortito gli effetti sperati. In molti ci hanno scritto, affermando di aver subito deciso di non mangiare più pesce. I mari si stanno svuotando. Continuamente. Sempre di più».

La pesca intensiva, in effetti, sta avendo un impatto devastante sull’ecosistema marino. «E non avete idea di quante specie rimangano impigliate nelle reti e vengano quindi catturate per errore. Squali, razze e via discorrendo. Siamo arrivati a una sorta di punto di non ritorno. Non abbiamo più il controllo di ciò che sta succedendo in Asia. E di pesce, appunto, non ce n’è quasi più. Poi, attenzione: siamo tutti coinvolti. Tante navi che praticano la pesca intensiva sono europee».

C’è questa grande promessa dell’ONU, che intende proteggere almeno il 30% delle acque, ma ora come ora non riusciamo nemmeno a raggiungere l’1%

Il mare è troppo vasto
I controlli, considerando la vastità di mari e oceani, sono rari. Le azioni di contrasto, di conseguenza, risultano poco efficaci. «In Liberia, assieme alle autorità locali, tempo fa avevamo fermato un peschereccio di proprietà spagnola ma con bandiera panamense. Aveva una regolare licenza per pescare tonno, ma a bordo c’era una fabbrica segreta per produrre olio di squalo». La pesca intensiva e quella illegale, fra l’altro, ammazzano i piccoli pescatori locali. Quelli che, per intenderci, vivono di ciò che dà loro il mare. «Diverse popolazioni africane si sono ritrovate senza più pesce da mangiare» rileva Maspoli Taylor. «Senza più pesce e, quindi, senza lavoro. Tanti senegalesi si sono visti costretti a emigrare per questo motivo».

Un lumicino di speranza, però, sembrerebbe esserci. L’Unione internazionale per la conservazione della natura recentemente ha affermato che alcune specie di tonno a rischio estinzione stanno tornando a ripopolare i mari. «Io non sarei così ottimista riguardo ai tonni» afferma la direttrice di Sea Shepherd. «Ci sono alcune specie che, come detto, sono praticamente estinte. Tant’è che in Giappone, dove peraltro il delfino viene cacciato proprio come alle Faroe poiché si ritiene che mangi troppo pesce e rovini l’attività dei pescatori, diversi produttori hanno già cominciato a congelare alcuni esemplari pinna blu perché, una volta che questa specie sarà davvero estinta, potranno rivenderli a prezzi milionari. C’è questa grande promessa dell’ONU, che intende proteggere almeno il 30% delle acque, ma ora come ora non riusciamo nemmeno a raggiungere l’1%. Il problema, ripeto, è gravissimo. Sempre più specie di pesci e sempre più cetacei rischiano l’estinzione».

La lotta continua
La conclusione è allo stesso tempo dolce e amara. A Maspoli Taylor chiediamo se non sopraggiunga, dopo tanti anni di lotta, un po’ di rassegnazione. «In realtà no, la passione aumenta» ci confida. «Sono stata alle Faroe e poi in Giappone, dove i delfini sono considerati nemici degli umani e dove noi, come Sea Shepherd, non possiamo più entrare. A livello emotivo sì, simili mattanze fanno male e rappresentano una sconfitta. Però, ecco, fra i giovani c’è sempre più sensibilità verso queste tematiche. La speranza, insomma, c’è. Deve esserci. Sempre. Al momento, è evidente, non siamo messi bene. Ma nel nostro piccolo abbiamo conquistato molto: in Liberia, ad esempio, i pescatori locali sono tornati a pescare. E c’è più pesce di prima. Siamo in una situazione critica, eppure gli oceani possono riprendersi facilmente e velocemente. Ci vorrebbe, questo sì, più pressione politica e ci vorrebbe una maggiore consapevolezza fra i cittadini. Ognuno di noi, anche solo nella scelta dei cibi da consumare, può fare la differenza».