Benvenuti al «Grand Hotel Abkhazia»

Palazzi abbandonati, quasi sbriciolati (perfino nella capitale Sukhumi), le spiagge frequentate dai russi che ci vengono a frotte - come noi si va a Rimini, villaggi semivuoti e poi verdi prati dove razzolano galline e pascolano mucche, o grufolano i maiali. È un paradiso decaduto quello vistato di recente dalla nostra fotoreporter Chiara Zocchetti, autrice degli scatti pubblicati in questa pagina. Il posto è l’Abkhazia, un Paese «che non esiste», visto che si tratta di un territorio caucasico sospeso: rivendicato dalla Georgia, si proclama indipendente da quel Paese nel 1994 e oggi sono pochissimi gli Stati che lo riconoscono come tale: la Russia, il Venezuela, il Nicaragua e – ultimo in ordine di tempo - la Siria, in un tributo al suo più grande mecenate degli ultimi anni: Mosca, appunto. Perché poi, di fatto, l’Abkhazia può essere considerata un protettorato russo.

Ferite di guerra
La regione confina a nord con la Russia, a est e sud-est con la Georgia (il territorio conteso) e si affaccia a ovest e sud-ovest sul Mar Nero. Incastonata tra le cime vertiginose del Caucaso Maggiore e la distesa del mare, l’Abkhazia è bellissima: qualcuno l’ha addirittura descritta come «i tropici dell’ex Unione Sovietica». Poi ci si è messa la guerra e tutto è andato a rotoli. La regione ha ingaggiato una guerra cruenta per l’indipendenza contro la Georgia, che ha raggiunto l’apice nel 1992-1993. Violenze significative si sono registrate anche nel 2008, in parallelo con la guerra in Ossezia del Sud, e nel 2012. L’Abkhazia ne soffre ancora oggi a, ma ne soffre persino di più la Georgia. Perché gli abkhazi erano una minoranza nella regione già prima della guerra e lo restano oggi, pur avendo dimezzato la popolazione georgiana durante il conflitto. Nel ’92-’93 tra i 10.000 e i 30.000 georgiani furono uccisi dai separatisti abkhazi, dai mercenari stranieri e dalle forze della Federazione russa. Nel frattempo, l’abkhazo, lingua specifica nonché cavallo di battaglia della propaganda separatista, ha lasciato campo libero al russo.

Il peso di Mosca
Inutile, quindi, dire che qui la Russia ha un peso specifico enorme: già dal 1992 aveva una presenza militare sia in Abkhazia che in Ossezia del Sud come forza d’interposizione su mandato internazionale. Poi Mosca è intervenuta a tutta forza sbaragliando i georgiani ed arrivando ad occupare una larga parte del territorio, sino a poche decine di chilometri da Tbilisi. La guerra è finita, le tensioni no.
Nel 2017 la regione ha chiuso quasi tutti i valichi di frontiera con la Georgia (sopra: uno dei valichi abbandonati), rendendo ancor più complicata la vita quotidiana dei suoi abitanti. I valichi sono considerati «confine internazionale» dalle autorità abkhaze e «linea di confine amministrativa» dal governo georgiano. I cittadini si ritrovano quindi indipendenti, ma senza un passaporto utile riconosciuto dagli altri Paesi. Sono «liberi» (in realtà quasi annessi alla Russia) e autodeterminati, ma isolatissimi. Emblema dell’isolamento è l’aeroporto della capitale, in gran parte abbandonato dai tempi della guerra. Anche se il 30 luglio Sukhumi ha annunciato l’intenzione di riaprirlo ai viaggi internazionali.
Le istituzioni sono fragili, come dimostrano le recenti vicissitudini elettorali: in maggio la campagna per le presidenziali è stata guastata dall’avvelenamento di Aslan Bzhania, il principale sfidante del presidente Khajimba.

Gli edifici sventrati
Ciò che si può vedere in Abkhazia oggi è uno spettacolo di desolata bellezza. Le città sono piuttosto tranquille in alta stagione, quando arrivano i turisti russi. Ma presentano «un mix di edifici sventrati dalla guerra e abbandonati, sanatori sovietici e strutture metalliche traballanti in riva al mare», come scriveva di recente una blogger di ritorno da quei luoghi. C’è molta povertà, il confine con la Georgia è del tutto devastato dalle bombe e in alcune zone dell’entroterra si segnala il pericolo di mine antiuomo inesplose. Un posto dove tutto può ancora esplodere, insomma.