L'analisi

Beppe Grillo e la rivoluzione a metà dei 5 Stelle: storia di un fallimento politico

A diciassette anni dal primo «Vaffa Day» la parabola del grillismo sembra essere definitivamente tramontata – Le riflessioni dei politologi Piergiorgio Corbetta e Davide Vittori
Beppe Grillo in uno dei primi "Vaffa Day". ©ANSA
Dario Campione
27.11.2024 06:00

Tre date, una storia: 8 settembre 2007, il primo «Vaffa Day»; 4 ottobre 2009, la nascita del Movimento 5 Stelle (M5S); 24 novembre 2024, il giorno in cui Beppe Grillo è stato «espulso» dalla guida della sua creatura. Diciassette anni. Dentro i quali la politica e la democrazia italiane, e non solo, hanno vissuto un’autentica rivoluzione. Culturale e organizzativa. Una rivoluzione rimasta, però, alla fine, totalmente incompiuta. Nonostante l’impatto iniziale, soprattutto quello elettorale, fosse stato tanto inatteso quanto deflagrante.

Che cosa è veramente accaduto in questi 17 anni? Che cosa è stato il M5S? E che cosa insegna la sua parabola, fulminea nell’ascesa e altrettanto repentina nella caduta?

La crisi della rappresentatività

Piergiorgio Corbetta, già ordinario di Metodologia delle scienze sociali all’Università di Bologna, ha scritto due libri sul M5S, entrambi editi da Il Mulino (Il partito di Grillo, nel 2013, insieme con Elisabetta Gualmini, e M5S. Come cambia il partito di Grillo, nel 2017), ed è tra coloro che più a fondo hanno analizzato i tratti costitutivi del Movimento.

«Unitamente all’esperienza berlusconiana, ma in modo più originale, il M5S ha rappresentato, a mio parere, la più importante novità nella politica italiana degli ultimi decenni - dice Corbetta al Corriere del Ticino - Si parla molto delle crisi che stanno colpendo il mondo occidentale, e in particolare, giustamente della crisi ambientale e climatica, e si discute del problema drammatico delle guerre. Ma troppo poco ci si occupa della crisi della democrazia rappresentativa: il tema, centrale, sul quale è nato il Movimento 5 Stelle. Ormai, ovunque nel mondo occidentale, il rapporto tra rappresentanti e rappresentati si è scollato, le classi politiche rappresentano solo sé stesse, e l’indicatore più chiaro, più evidente, più assoluto di questo scollamento è la partecipazione elettorale. I 5 Stelle, con i loro slogan, si erano collocati su questo nervo centrale della democrazia: penso all’uno vale uno, al no alla classe politica professionale, al limite dei due mandati».

Rilanciando i referendum, con la selezione diretta dei candidati attraverso le «parlamentarie», o insistendo sulle proposte di legge di iniziativa popolare, il M5S «si era poi sforzato di mettere in piedi una serie di meccanismi partecipativi proprio per tentare di affrontare il principale problema delle democrazie rappresentative. Avevano ragione. Ma hanno fallito». I motivi di questo fallimento sono molti, dice ancora Corbetta. Il primo, e forse decisivo, è stata la morte di Gianroberto Casaleggio. Il teorico della democrazia su Internet. «Sin dalla loro nascita, i 5 Stelle hanno avuto due teste: una, razionale, Casaleggio. L’altra impulsiva, estroversa, Beppe Grillo. Dopo la morte di Casaleggio, Grillo si è trovato solo. Formidabile comunicatore, privo però della personalità di leader politico. Il secondo motivo del fallimento è un difetto di fondo del populismo, il quale non può essere istituzionalizzato, pena il suo esaurimento, la sua sparizione, la sua fine».

Oltre a ipotizzare forme nuove di partecipazione, il M5S ha teorizzato anche il superamento delle categorie otto-novecentesche della politica: destra e sinistra. Un altro tentativo di radicale cambiamento, finito però con l’approdo al campo progressista e quindi con il ritorno a sinistra.

«Credo che sia stata una presa di coscienza della realtà - sottolinea Corbetta - destra e sinistra esistono tuttora e sono categorie ideologiche valide, non superate. Ragionare di politica fuori dalle categorie sinistra a destra significa rinunciare a una bussola potente e utile. Personalmente, non riesco a trovare un’alternativa che aiuti a leggere il mondo con la stessa efficacia».

Discorso diverso, invece, si può fare sulla democrazia digitale, individuata come la grande speranza della partecipazione allargata e di massa. «Alla fine, si è capito che la democrazia digitale può avere esiti diversi. Può essere strumento innovativo formidabile per ampliare la partecipazione, ma può anche dare voce al risentimento popolare, diventare meccanismo attorno al quale si coagula e si rafforza in modo esponenziale una protesta sociale rozza, inconcludente, tutta di pancia. Il risentimento sociale, appunto. Dentro cui prevale unicamente il dato distruttivo».

Il peso della normalizzazione

Davide Vittori, ricercatore e docente di Politica comparata al Centre d’Étude de la Vie politique (CEVIPOL) dell’Université Libre de Bruxelles, ha scritto nel 2020 Il valore di uno. Il Movimento 5 Stelle e l’esperimento della democrazia diretta (Luiss University Press). «Dal punto di vista dell’organizzazione partitica, l’idea che sia possibile una partecipazione diretta dei cittadini attraverso piattaforme digitali non è stata inventata dal Movimento 5 Stelle - dice Vittori al Corriere del Ticino - quanto piuttosto portata da Grillo e Casaleggio su una scala nuova. Credo che tutti i partiti interessati a una partecipazione più o meno diretta dei cittadini dovranno passare, in futuro, da quel canale, settato dal M5S e diventato, per questo, un precedente. Non saprei dire se irrinunciabile o meno, ma sicuramente importante». E tuttavia, «la piattaforma digitale che doveva essere un simbolo per chiunque avesse voluto adottarla, mi riferisco a Rousseau, in realtà è fallita».

L’esperimento, spiega Vittori, «è stato infatti radicale. All’inizio, ha creato e suscitato molto interesse, soprattutto per la novità che rappresentava, e ha quindi anche attivato gli iscritti. Ma, come evidenzia bene la letteratura scientifica, quando si chiede ai cittadini di mobilitarsi continuamente, il tasso di partecipazione inizia a diminuire, specie se, così come accaduto nel caso del M5S, si comincia a votare su questioni meno rilevanti o marginali».

Alla stanchezza dei militanti, continua il politologo dell’Università di Bruxelles, si sono uniti poi altri due fattori. «Il primo è che questo esperimento è stato molto verticale o, meglio, verticista. Dall’accoppiata Grillo-Casaleggio all’accoppiata Grillo-Casaleggio figlio, fino allo scontro finale Grillo-Conte, tutte queste procedure democratiche sono state dettate dall’alto. Il coinvolgimento degli iscritti era limitato al loro voto su cose decise dalla dirigenza. È mancato un reale processo di coinvolgimento dei cittadini, se non per un determinato e breve periodo di tempo. Il secondo fattore è stato il verticismo della gestione del partito: dentro il Movimento 5 Stelle, il dibattito tra orientamenti diversi è stato azzerato, sin dall’inizio. Lo stesso Grillo ha sempre detto che non avrebbe tollerato deviazioni dalla linea politica sua e di Casaleggio. Questo, in prima battuta, era stato accettato, visti anche i successi elettorali. Ma dopo le prime sconfitte, tanto a livello locale quanto a livello regionale o nazionale, i malumori e la frustrazione sono cresciuti: per l’assenza di canali di espressione del dissenso e per la conseguente impossibilità di poter parlare liberamente».

Ideologicamente, dice Vittori, «da forza liberatrice, da strumento di democratizzazione, Internet è diventato nel tempo nient’altro che un espediente per creare economie di scala. Perché far votare alle primarie in presenza costa moltissimo. Far votare online costa praticamente nulla».

Insieme a questo, sul declino del modello M5S ha pesato enormemente pure la «normalizzazione del partito. Le posizioni simboliche che identificavano il Movimento e lo ponevano fuori dalle organizzazioni partitiche tradizionali sono venute meno. Luigi Di Maio e Antonio Conte hanno eliminato tutte quelle parti più innovative e rivoluzionarie che il M5 S presentava alla propria nascita. E il Movimento è diventato semplicemente un altro partito, come accaduto in Spagna nel caso di Podemos».