Bisogna consumare di meno? Cominciamo dalle scarpe
L’emergenza climatica e ambientale spinge il pianeta verso una «rivoluzione verde» necessaria ma che non appare ancora di facile realizzazione. In attesa di costi sostenibili per l’auspicata transizione non ci resta che diminuire i consumi. Sì, ma come? Una piccola preziosa idea ce la suggerisce Claudio Boër (nella foto Putzu sotto), già vicepresidente della SUPSI e Referente per la Sostenibilità del Consiglio della Scuola, che, dopo anni di ricerca, sta intraprendendo un cammino divulgativo in grado di comunicare i concetti più importanti delle scienze che studia in modo assai concreto e comprensibile al vasto pubblico dei non esperti.
Claudio Boër, entriamo subito nel cuore del problema. Come si fa a diminuire i consumi, oggi?
«Dobbiamo essere coscienti del fatto che la nostra civiltà (intesa in senso globale) vive, purtroppo, sul consumismo: più si consuma, più l’economia prospera. Cerco di semplificare al massimo pur sapendo che si rischia di perdere l’essenziale. Da tempo mi batto, e con me anche la SUPSI, per la riduzione degli sprechi soprattutto energetici. Utilizzo un esempio su cui abbiamo lavorato in molti progetti di ricerca applicata e cioè la produzione di scarpe, un tipico prodotto di consumo che quasi ogni essere umano acquista, consuma e butta via (c’è un inizio di riciclaggio che appare qua e là ma è ancora minimo)».
Cosa ci aiuta a capire, in questo ambito, la produzione delle scarpe?
«La produzione attuale delle calzature è quella tipica di massa: le aziende disegnano lo stile della scarpa, ingegnerizzato, fabbricato ed assemblato, infine spedito al negozio che è la meta della lunga catena logistica. Il consumatore entra nel negozio, sceglie e prova il modello che gli piace e lo acquista. Questo è ciò che fanno ogni giorno milioni di consumatori in tutto il mondo. Il risultato è che ogni anno si producono all’incirca 25 miliardi scarpe. Menziono numeri perché quando si parla di sostenibilità senza numeri si rischia di parlare in termini troppo generici, ma i numeri devono anche essere facilmente comprensibili dal pubblico se gli si dice di consumare di meno».
Nel caso specifico?
«Ritorniamo ai 25 miliardi di scarpe ed al negozio: quante scarpe saranno vendute nella stagione o nell’anno? Sì, perché non tutte le scarpe trovano un compratore, un consumatore. Ci sono ricerche, incluse le nostre, che portano a un 20% di scarpe invendute e cioè 5 miliardi. Ammettiamo di diventare tanto bravi da riciclare tutte queste scarpe nuove ed invendute in materiali che possono essere utilizzati in altre applicazioni e cioè seguendo quello che piace tanto oggi e che chiamiamo economia circolare, ma che dire dell’energia utilizzata per fabbricare ed assemblare questi 5 miliardi di scarpe? L’energia una volta consumata non si può riciclare: è andata, finita ed anzi abbiamo immesso nell’atmosfera alcune centinaia di tonnellate di CO2 per qualcosa che il consumatore finale non ha voluto! Ecco dove le cifre sono necessarie, perché sapendo quanta energia è necessaria per produrre una scarpa possiamo anche calcolare l’energia sprecata che corrisponde all’energia prodotta dalla diga della Verzasca in un anno moltiplicato per 25 volte».
Impressionante. Come se ne esce?
«La soluzione a questo problema esiste e consiste nel porre il consumatore non alla fine della catena logistica, o solo in negozio, come vuole la produzione di massa, quando ormai le scarpe sono già fabbricate, ma all’inizio, prima che le scarpe entrino nel ciclo manifatturiero. A questo stadio iniziale la fabbrica saprà esattamente quante scarpe (tra l’altro sinistra e destra possono essere diverse) deve produrre e non ci sarà dell’invenduto. Non ci sarà più energia sprecata, ma verrà impiegata solo quella necessaria per le scarpe che servono e sono richieste dal consumatore. È un cambiamento di paradigma da produzione di massa (Mass Production) a personalizzazione di massa (Mass Customization)».
Immagino che ciò che vale per le scarpe, valga per moltissimi altri prodotti.
«Esatto. Ci sono tanti, tantissimi prodotti di consumo che sprecano energia perché fabbricati e “spinti (push)” sul mercato sperando di trovare un compratore. Questo spreco potrebbe essere eliminato se si entrasse nella logica del “tirare (pull)” dove è il compratore che tira la produzione dei prodotti, scelti prima che siano fabbricati. Allora sì che possiamo dire all’acquirente di consumare meno, ma perché gli offriamo la possibilità di scegliere prima di consumare. In effetti, lo spreco di energia è fatto dal produttore: è il produttore che deve poter fornire questa scelta al consumatore e non viceversa».
Come si possono spingere i produttori a questa rivoluzione copernicana del paradigma di produzione?
«Penso che a questo livello urga anche e soprattutto una decisione politica: sono i nostri dirigenti che devono dire ai produttori “smettetela di sprecare energia il cui onere ricade sul contribuente. Adattatevi e offrite ai consumatori delle scelte consapevoli esenti da sprechi!”. Discorso ipotetico? Ingenuo? Io non credo: eleggiamo i nostri rappresentanti affinché prendano delle decisioni che toccano in modo concreto il modo di fare sostenibilità».
Quali altri esempi si potrebbero fare per illustrare il concetto?
«Gli abiti e l’automobile, ad esempio. Partiamo dagli abiti, che sono un altro progetto di consumo che riguarda tutti quanti noi. Eppure, nell’industria dell’abbigliamento ciò che non viene venduto, stando ai ricercatori tedeschi, è il 40%. Bisogna dire che però c’è almeno un Paese al mondo che ha cercato di sistemare questa faccenda».
Quale?
«La Francia, il Paese della haute couture del prêt-à-porter. Macron, proprio nell’intento di ridurre gli sprechi, si è reso conto di quanti capi vengono buttati via. C’è stato lo scandalo dell’H&M che prendevaa tutto l’invenduto e alla fine della stagione lo bruciava. Non lo rivendevano perché il marchio è legato al prezzo. Ci sono i saldi, ma restano confinati entro certi limiti. La Francia ha perciò introdotto una legge per ridurre questi sprechi nell’abbigliamento. Lo ha fatto in modo furbo. Prima di emettere le leggi ha chiesto ai principali CEO dell’industria dell’abbigliamento francese di discutere tutti insieme intorno a un tavolo come farlo».
E l’automobile?
«L’automobile è nata con la prima rivoluzione industriale. Ma per un bel po’ non era accessibile a tutti. A un certo punto è arrivato Ford che ha avuto un’idea: che anche i suoi operai potessero permettersi di averne una con tre o quattro mesi di salario. L’ha fatto, sì. Ma a quel punto l’auto era uguale per tutti. All’inizio mica c’era la possibilità di scegliere il colore, per dire: erano tutte nere. Perché l’ingegner Ford aveva scoperto che il colore nero era quello che si seccava più rapidamente nella linea di montaggio. Poi, poco alla volta, il prodotto auto si è evoluto e oggi possiamo averlo in moltissime varianti. Questa è un’evoluzione verso i bisogni dei clienti».
Ma siamo ancora lontani dall’auto customizzata (customizzare, spiega la Treccani, significa «adattare un prodotto, un bene o un servizio, mediante appositi interventi di personalizzazione, alle esigenze e alle aspettative del cliente»)...
«È vero. Ma alcuni progetti europei hanno cercato di farlo e si va in quella direzione. Certo, non è come fare un paio di scarpe. Anche la progettazione delle auto, banalmente la loro forma, può incidere in modo determinante sui consumi».
In che modo?
«Faccio un esempio. Oggi noi abbiamo molte auto che sono simili a un SUV. Rappresentano il 50 per cento del mercato. Trent’anni fa i venditori di auto vendevano secondo il cosiddetto coefficiente CX, cioè il coefficiente di penetrazione nell’aria. Più il coefficiente era basso, più risparmiavi sulla benzina. Oggi non se ne parla quasi più. Come mai? Perché devono vendere le loro belle auto grosse e poco aerodinamiche e quindi dispendiose».
Si sa quanto petrolio in più richiedano auto di quel genere?
«Certo. Noi l’abbiamo calcolato: tra il 10 e il 20% in più di un’auto col coefficiente CX basso. Significa che ci sono venti o trenta superpetroliere che solcano i mari del mondo, solo per supportare il design dei SUV».
Ma un fabbricante d’auto potrebbe obiettare che produce auto seguendo la domanda dei potenziali clienti.
«Sì, ma è proprio a quel livello che potrebbe agire la politica. In Germania si sta iniziando. Molti movimenti sostengono che il cliente vuole comprare certe auto perché sono i produttori a offrirgliele. Se il produttore non le offre il cliente segue, perché non lo trova più».
Torniamo alla sua tesi iniziale: lei chiede di rovesciare il sistema di produzione. Ma come si fa a partire dalla domanda e non dall’offerta? Come si fa, in altre parole, a creare un negozio personalizzato che funzioni?
«Sono stato project leader di un enorme progetto europeo che va in questa direzione, con sei calzaturifici sparsi in tutta Europa, tra cui uno qui in Svizzera, la Bally. L’idea era già conosciuta prima, ma non si sapeva ancora come fare con l’on demand. È bello dire: metto il cliente all’inizio della produzione, ma come si fa?».
Appunto.
«Beh, nel caso delle scarpe comincio col dire che lo stile della scarpa, non ci son santi, deve farlo lo stilista. Ma, al di là di questo dato di fatto, noi abbiamo fatto ciò che si fa con le fotocopiatrici 3D. Abbiamo fatto uno scan 3D dei piedi sviluppando varie tecnologie. In pratica uno entra nel negozio e trova un modello di scarpe che gli piace, dopo entra in una cabina dove uno scanner prende una fotografia volumetrica dei due piedi per fabbricare la scarpa in quello stile. Questi dati vengono mandati istantaneamente alla fabbrica che poi stabilisce entro quanto tempo il tuo paio di scarpe (sinistra e destra, perché i piedi sono diversi tra di loro) può essere pronto. Dieci giorni, una settimana? Puoi aspettare? È questo il grosso cambiamento rispetto ad oggi. Inoltre, devi pagare senza portarti via le scarpe subito. Le potrai ritirare nel negozio o fartele spedire a casa. Ma c’è di buono che quelle scarpe saranno effettivamente perfette per i tuoi piedi (con tutto quello che ciò comporta a livello di salute e di postura, per esempio) e che non ci sarà una sovrapproduzione e quindi enormi sprechi. Da notare che in questo modo si può garantire al 100% la soddisfazione del cliente».
Si riducono i consumi, certo. Ma economicamente è sostenibile?
«Sì. Funziona, abbiamo fatto tutti i calcoli. La personalizzazione, qui, non è quella che faceva il ciabattino di una volta e che costava molto cara. Qui è una personalizzazione fatta per la massa. Invece di avere lotti di produzione di cento scarpe uguali, qui puoi avere un lotto di produzione di cento scarpe diverse allo stesso prezzo. Il costo di produzione e di assemblaggio della scarpa è poco più elevato. Ma in compenso non hai più degli stock in magazzino. E non ti servono più grossi spazi nei negozi».
Torniamo alla transizione verde.
«Daccordo e allora mi chiedo perché in Ticino utilizziamo ancora così poco i tetti per realizzare i pannelli solari. Siamo nel cantone più soleggiato della Svizzera e abbiamo meno pannelli degli altri cantoni».
Forse perché sono ancora troppo costosi ?
«Fino a un certo punto. Per il privato il problema economico sta nell’investimento iniziale. Ma se si considera che i pannelli hanno una vita di trent’anni, i costi vengono ammortizzati. Chiaro che i politici dovrebbero convincere le banche, compresa la Banca nazionale svizzera, a dare dei prestiti a tasso zero. Quello è un modo i cui politica, finanza ed economia possono facilmente collaborare».