Bürgenstock, una conferenza in salita: «È una mediazione politica inedita»
A un mese esatto dall’inizio della conferenza sulla pace in Ucraina del Bürgenstock e all’indomani dell’ultimo attacco frontale del Cremlino sull’opportunità di organizzarla – martedì il ministro degli esteri russo Sergei Lavrov ha definito il vertice svizzero un «ultimatum alla Russia» –, riflettere sull’evento può essere utile per comprenderne il significato. A maggior ragione se si considera che, per ammissione stessa del Consiglio federale, «la Svizzera è convinta che un processo di pace senza la Russia è impensabile». Perché, allora, organizzare un simile incontro di alto livello?
Formalmente l’obiettivo del DFAE è di «fornire una piattaforma di dialogo sui modi per raggiungere una pace globale, giusta e duratura per l’Ucraina basata sul diritto internazionale e sulla Carta delle Nazioni Unite». Una formula apparentemente neutra che solleva, in realtà, numerosi interrogativi. A cominciare dal concetto di «pace giusta».
Crimea e Donbass
«Una pace può davvero essere giusta?». René Schwok, professore di Scienze politiche e diritto internazionale a Ginevra, esorta a leggere la formulazione del DFAE per intero: «Pace giusta per l’Ucraina e fondata sul diritto internazionale». Ossia? «Il riferimento al diritto internazionale implica che l’annessione della Crimea e dei territori russofoni del Donbass debba essere annullata». Un dettaglio, visto l’andamento della guerra sul campo, non da poco. «Il diritto internazionale proibisce l’aggressione e l’occupazione di un Paese e, pertanto, il punto di partenza e di arrivo della conferenza è chiaro». Una premessa che di fatto esclude ogni forma di compromesso a vantaggio del Cremlino su eventuali cessioni delle parti russofone ucraine. Quale conferenza di pace inizia con una premessa di questo tipo? «Dal punto di vista strettamente logico, l’unica soluzione sarebbe che l’Ucraina rinunci spontaneamente a questi territori; altrimenti, si continuerebbe a violare il diritto internazionale».
Un cambio di paradigma
A questo, poi, si aggiunge un’altra premessa altrettanto penalizzante, ossia il fatto che la Russia non è stata invitata. La conferenza è quindi destinata al fallimento? «Non credo. Meglio: non per forza», aggiunge Schwok. «Se i Paesi partecipanti riuscissero effettivamente a definire una tabella di marcia su come coinvolgere entrambe le parti in vista di un futuro processo di pace, non sarebbe un fallimento. Ho però qualche dubbio, visti gli attuali rapporti di forza tra Russia e Ucraina sul campo», osserva ancora Schwok. «È chiaro che un’intesa tra i partecipanti però non basterebbe ancora: occorre trovarlo con la Russia».
Come non tenere conto, poi, del fatto che la Svizzera agli occhi della Russia non è più unPaese neutrale? «In effetti, secondo Lavrov la Svizzera non è più in grado di fornire i buoni uffici tipici della tradizione diplomatica elvetica», chiosa Schwok. Il quale effettivamente intravede nell’agire della Confederazione un passo ulteriore: «Con questa conferenza non offriamo solo uno spazio di dialogo per le grandi potenze, ma anche il quadro politico che le contiene. È una mediazione politica che va oltre i tradizionali buoni uffici. Non ci limitiamo alla buona ospitalità». In un certo senso, stiamo assistendo a un cambio di paradigma nella diplomazia svizzera? «Usciamo da un ruolo tradizionale più modesto e facciamo un passo supplementare verso una presa di posizione relativa». Un’azione che, in qualche modo, secondo l’esperto, ricorda le proposte della Turchia, la quale tuttavia non si pone come attore neutrale, osserva Schwok. «Le proposte della Svizzera si propongono di far avanzare il processo di pace in una direzione». E ancora: «Non ricordo, nella storia della diplomazia svizzera, un esempio analogo». Come spiegare questo passo? Schwok non sa dire se questa scelta sia da mettere in relazione con il dibattito sulla neutralità («essere neutrali non significa essere indifferenti» che fa coppia con la neutralità cooperativa coniata dal «ministro» Ignazio Cassis), ma di certo «non è banale». A questo proposito, l’esperto sottolinea ancora come la conferenza di pace rappresenti anche un passo ulteriore rispetto alla Conferenza di Lugano dello scorso anno: «In quel caso si trattava principalmente di questioni umanitarie, mentre ora ci troviamo più nell’ambito politico. I partecipanti lavoreranno su una road map che dovrebbe fornire spunti per arrivare ai negoziati tra le parti. Se effettivamente si dovesse raggiungere questo traguardo, con un ampio consenso internazionale, la conferenza potrebbe sortire qualche effetto. Ma sono scettico», conclude Schwok. «Storicamente funziona molto raramente e, con Putin al potere sono determinanti i rapporti di forza sul campo».