Il caso

Catastrofi naturali, c'è dark tourism dopo l’alluvione in Mesolcina?

Intervista a Claudio Visentin, docente al Master di Turismo Internazionale dell’USI: «È essenziale non essere di intralcio a chi sta conducendo operazioni di soccorso e che le persone ricevano tutto l’aiuto di cui hanno bisogno»
© CdT/ Chiara Zocchetti
10.07.2024 19:00

«Ci sono ancora troppi curiosi e turisti nelle zone colpite dall'alluvione che complicano i lavori di ripristino. Queste persone, oltre a ostacolare i lavori, mettono inoltre in pericolo loro stesse e gli operai sui cantieri. Per questa ragione la Polizia cantonale è presente nelle aree colpite dove ha la possibilità di prendere provvedimenti». Queste parole di lunedì di Philippe Sundermann, responsabile comunicazione dello Stato Maggiore Regione Moesa, mostrano come le persone siano attratte da luoghi legati a tragedie, disastri naturali e più ampiamente dalla morte. Questa è più comunemente la definizione di dark tourism. Per capirne di più, per capire in particolare che cosa spinga le persone a visitare posti di sofferenza, ci siamo rivolti a Claudio Visentin, docente al Master di Turismo Internazionale dell’USI.

Professore, quali sono le ragioni che portano le persone a recarsi sui posti delle tragedie per curiosare, scattare foto e fare video? Ad esempio, come quando in autostrada ci sono gli incidenti e la gente si ferma a guardare.
«È un termine che è già entrato nell’uso corrente da quasi una ventina d’anni e si parla abitualmente di dark tourism. Molti studiosi pensano sia una caratteristica fondamentale dell’animo umano. Ovviamente pone delle implicazioni etiche, ma ricordiamo che la curiosità non implica approvazione. Quello che voglio dire è che quando vediamo un incidente autostradale ne siamo irresistibilmente attratti, ma questo non implica che siamo contenti che sia successo. Quindi la maggior parte delle persone "sane", pur essendo dispiaciute che sia avvenuta una tragedia, sentono l’attrazione, una certa curiosità per i luoghi di tragedia, dove comunque sono avvenute delle cose importanti, sono avvenuti fatti di cui tutti parlano. Quindi, in estrema sintesi, siamo inclini a pensare che sia un aspetto fondamentale dell’animo umano - e parliamo di dark tourism -, ma sottolineiamo il fatto che non implica necessariamente morbosità o approvazione. È proprio un impulso molto naturale».

Perché la gente sente la necessità di immortalare i luoghi dove sono avvenute delle disgrazie?
«Perché il luogo dove avviene un grande evento, un evento di cui tutti parlano, si carica di un’aurea speciale, diventa un luogo di cui si parla e quindi inevitabilmente finisce per dettare un’attrazione. Hiroshima è una destinazione molto visitata in Giappone, nessuno è contento di quello che è successo, però la tragedia che è avvenuta lì carica quel luogo di significati particolari. Io sono stato, per esempio, a Sarajevo dove è stato ucciso Francesco Ferdinando, all’angolo della strada dove viene ucciso il principe ereditario d’Austria scatenando una guerra che costa dieci milioni di morti. E devo dire che ero irresistibilmente attratto dal fatto di andare a vedere questo luogo, dove è avvenuta la scintilla di un incendio tanto enorme. Il meccanismo è questo: quando succede un evento tragico il luogo si carica di un interesse che magari prima non aveva».

È essenziale non essere di intralcio a chi sta conducendo operazioni di soccorso. Quando c’è una tragedia bisogna preoccuparsi che le persone ricevano tutto l’aiuto di cui hanno bisogno e non c’è certo bisogno di curiosi

A questo proposito, secondo lei esiste un confine tra semplice curiosità e «dark tourism» oppure le due cose vanno insieme?
«Il confine, evidentemente, c’è. Non deve diventare morbosa, non deve diventare una forma di compiacimento. Più che il problema in sé della definizione, c’è un problema di gestione. Essenziale è non essere di intralcio a chi sta conducendo operazioni di soccorso. Quando c’è una tragedia bisogna preoccuparsi che le persone ricevano tutto l’aiuto di cui hanno bisogno e non c’è certo bisogno di curiosi. E quindi quella è una salda soglia che va rispettata e che va protetta: lasciare il campo libero ai soccorritori e non avere nessuna compiacenza per chi è mosso solo dalla curiosità. Dopo di che, il mondo è complicato. In Vallemaggia, per esempio, i danni sono concentrati in una zona, ma nelle altre invitano i turisti a tornare, perché il turismo aiuta la vita in valle. Dopo il terremoto in Marocco il turismo si è completamente bloccato ma gli stessi marocchini invitavano a tornare perché di turismo vivono e quindi, senza turismo, al terremoto e alle rovine si aggiungeva la fame».

Quindi, quali sono le raccomandazioni?
«La prima è di accettare che questo è un fenomeno naturale ma senza compiacimenti e senza aspetti morbosi. Punto due, non recarsi sui luoghi delle disgrazie quando sono in corso i soccorsi per non intralciare l’opera dei soccorritori. Punto tre, chiedere alle popolazioni dei luoghi stessi. Se le persone che vivono in quei luoghi hanno piacere che i visitatori tornino, perché magari danno una parola di conforto e perché aiutano l’economia locale, allora si può andare, magari anche prima di quello che si sarebbe pensato. In questo caso la comunità locale è il vero referente a cui bisognerebbe fare capo».

Concludendo, il caso più specifico della Mesolcina può essere considerato un fenomeno di «dark tourism»?
«Sì, le catastrofi naturali sono senza dubbio una forma di dark tourism. Ovviamente c’è un turismo più marcatamente dark e un turismo diciamo grigio, laddove è avvenuta una tragedia ma non di portata epocale. Quindi le catastrofi naturali sono indubbiamente una forma di dark tourism. Ovviamente, poi, ciascuno deciderà quanto dark, quanto scuro. È chiaro che non è paragonabile, ad esempio, ad Auschwitz, dove pure vanno milioni di turisti ogni anno».