Iran

Cento giorni senza Mahsa Amini

Tra gli slogan urlati per strada, «stupro in prigione: è menzionato nel Corano?» – Per la prima volta, la Corte suprema dell’Iran ha accolto il ricorso di un cittadino condannato a morte
Un manifestante a Lisbona. © KEYSTONE (EPA/ANTONIO PEDRO SANTOS)
Jenny Covelli
25.12.2022 14:43

Sono trascorsi 100 giorni da quel 16 settembre, quando Mahsa Amini, 22 anni, originaria del Kurdistan iraniano, è morta a Teheran dopo essere stata arrestata dalla polizia religiosa per non avere indossato correttamente il velo islamico come prescritto dalle leggi iraniane. Morta per un capello fuori posto. Da allora le proteste hanno riempito il Paese. Una rivolta che si è trasformata in una sfida aperta al regime degli ayatollah e che è stata spesso definita «la rivoluzione delle donne». Donne che sono state incoronate «eroi dell'anno» dalla rivista Time. Protagoniste indiscusse della ribellione, vivono una vita che è sempre più «in contrasto» con il messaggio ideologico della Repubblica islamica. Attirando l'attenzione (e la dichiarata solidarietà) del mondo intero.

In migliaia, ieri, sono scesi per strada per celebrare il 100. giorno. Un urlo collettivo che invoca la caduta della teocrazia al potere. Tra gli slogan, «stupro in prigione: è menzionato nel Corano?». Aveva infatti solo 14 anni Masooumeh, la ragazza prelevata con la forza dagli uomini della sicurezza della Repubblica islamica perché, mentre si trovava a scuola a Teheran, si era tolta l’hijab per protesta, partecipando alle proteste. Gli attivisti iraniani hanno spiegato che la studentessa è stata identificata grazie alle registrazioni delle telecamere di sorveglianza a scuola. Dopo essere stata posta in custodia, era stata trasferita in ospedale dove sono state rilevate gravi lacerazioni vaginali a seguito delle quali è morta. Lo ha denunciato il direttore della ong, con sede a New York, Center for Human Rights in Iran. Inoltre, la madre della vittima sarebbe scomparsa dopo avere rivelato di voler rendere pubblico quanto accaduto a Masooumeh.

Stupri e torture nelle carceri

L’Iran Human Rights Monitor, una ong con sede a Londra, ha denunciato l'uso sistematico degli stupri nelle carceri, sia sulle donne che sugli uomini. Una pratica perversa per «rieducare», utilizzata durante la Rivoluzione Verde, nelle proteste del 2019 e tuttora. Un rapporto di Amnesty International del 2020 conferma che lo stupro è un metodo di tortura e di repressione molto utilizzato, oltre ai pestaggi, l’isolamento, il waterboarding e l’elettroshock. «Fonti primarie hanno raccontato che inquirenti e guardie perpetravano violenze sessuali sui detenuti. Li denudavano, facevano perquisizioni invasive per umiliarli, usavano spray al peperoncino sui genitali ed elettroshock ai testicoli. I prigionieri uomini venivano violentati attraverso la penetrazione con vari strumenti, tra cui bottiglie», si legge sul rapporto.

Le università non mollano

Ieri i manifestanti sono scesi in strada in diverse città, Teheran, Karaj, Bandar Abbas, Isfahan, Mashhad. Qualcun altro gridava slogan dalle finestre: «Lui (il leader Ali Khamenei, ndr) si definisce il leader dei musulmani del mondo, ma è servitore della Russia e della Cina». Anche gli studenti hanno organizzato raduni contro l'espulsione di alcuni compagni dall'università e dai dormitori per la loro partecipazione alle proteste. La polizia ha anche chiuso il grande centro commerciale di Mehr-o-Mah, vicino a Qom, per aver permesso alle donne senza velo di entrare nei negozi.

Secondo l'agenzia degli attivisti per i Diritti Umani iraniana Hrana, sono quasi 18.500 le persone arrestate da quando sono iniziate le proteste. Durante le dimostrazioni hanno perso la vita 506 persone, tra cui 69 minori e 66 membri delle forze di sicurezza.

I numeri raccolti dalla CNN

Stando alla CNN, sarebbero un centinaio gli iraniani che rischiano attualmente la pena capitale, tra cui anche dei minorenni. I dati ufficiali parlano di almeno 43 detenuti a rischio. Tra loro, Farzad e Farhad Tahazade, 23 e 24 anni. La madre ha diffuso un video per chiedere il loro rilascio. Nel solo tribunale regionale del Khuzestan, 23 persone sono state accusate di reati punibili con la morte. A Karaj, cinque iraniani rischiano l'esecuzione.

Tra loro c'è il 21.enne curdo-iraniano Mohammad Mehdi Karami, la cui famiglia ha lanciato un appello. «Sono Mashallah Karami, padre di Mohammad Mehdi Karami», dice il padre nel video diffuso sui social, seduto a gambe incrociate su un tappeto e affiancato dalla moglie. L'uomo descrive suo figlio come un «campione di karate» che ha vinto competizioni nazionali ed è stato un membro della Nazionale. «Chiedo rispettosamente alla magistratura, vi prego per favore, vi chiedo di rimuovere la pena di morte dal caso di mio figlio». Appello ripetuto dalla moglie. Secondo Amnesty International, Karami è una delle cinque persone condannate a morte per l'aggressione mortale a un membro della milizia Basij durante una cerimonia funebre per un manifestante nella città di Karaj. La condanna sarebbe stata emessa «dopo l'inizio di un processo di gruppo iniquo e accelerato, che non aveva alcuna somiglianza con un procedimento giudiziario significativo».

Revocata la condanna a morte di Saman Yasin

Un altro detenuto, Saman Yasin, 27 anni, artista e rapper di origini curde, ha tentato il suicidio in carcere. Ma ieri è arrivata una buona notizia. Per la prima volta, la Corte suprema dell’Iran ha accolto il ricorso di un cittadino condannato a morte per accuse legate alle proteste. E si tratta proprio di Saman Yasin, che era stato condannato alla pena capitale per avere criticato il regime sui social mostrando il suo sostegno verso i manifestanti, per avere dato fuoco a un cestino della spazzatura e per avere sparato in aria tre volte mentre partecipava a una manifestazioni, dove avrebbe tentato di uccidere un agente. Un’altra accusa riguarda le sue «canzoni rivoluzionarie». La madre, in un video condiviso pochi giorni fa sui social, ha chiesto aiuto per ottenere la sua scarcerazione: «In quale mondo avete visto una persona cara perdere la vita per della spazzatura?».

L’agenzia giudiziaria statale Mizan ha fatto sapere che nella sentenza i giudici hanno evidenziato delle incongruenze nelle motivazioni della condanna e per questo hanno rinviato il caso al tribunale ordinario perché venga riesaminato.

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