Sestante

«Coi geroglifici vi racconto il pensiero degli antichi egizi»

L’esperta Primavera Fisogni ha pubblicato un saggio sulla loro filosofia
Un passaggio dentro il Tempio di Seti I ad Abido, in Egitto. © Shutterstock
Carlo Silini
16.11.2019 09:36

Quando parliamo dei filosofi più antichi pensiamo ai greci. E gli egizi, dove li mettiamo? Primavera Fisogni (nella foto sotto), giornalista de La Provincia di Como e filosofa teoretica è autrice del saggio Nel segno del pensiero. Come pensavano gli antichi egiziani. Un’indagine filosofica (Santelli ed.). L’abbiamo intervistata.

Cominciamo da qui: come le è venuto in mente di scrivere un libro sul pensiero egizio, un argomento pressoché inesplorato?

«Ho iniziato a pensare a questa ricerca anni fa, leggendo la Stele di Irtysen, conservata al Museo del Louvre, XI dinastia (2033-1982 aC). Lo scriba e funzionario multitasking fornisce il “primo” curriculum vitae della storia, indicando le sue competenze. Dice anzitutto: “iw rḫ.kw sštȝ n mdw-ntr”, cioè “Io conosco i segreti dei geroglifici”. Un passaggio decisivo per sostenere che gli antichi egiziani avevano una precisa consapevolezza dell’uso critico e teoretico della ragione. La nozione di astratto era poi molto presente agli antichi abitatori di Kemet, il nome proprio dell’Egitto faraonico (letteralmente: nero / terra nera; “km’’ è un bilittero indicante la scaglia del coccodrillo). Veniva espressa di solito attraverso il rotolo di papiro usato come determinativo, in fondo alla parola».

Nell’introduzione al suo saggio il professor Paolo Bernardini solleva la questione dell’origine della filosofia. La si fa discendere agli antichi greci. E gli egizi?

«Il pensiero egiziano antico è del tutto trascurato dalle storie della filosofia. Evidente retaggio dell’interpretazione di Hegel, la dimenticanza è stata poi acuita da Jaspers nonostante i Greci fossero consapevoli del valore teoretico delle scuole egiziane in età ellenistica. Soltanto nella metà degli anni ’70, grazie a pensatori come Théophile Obenga, si riaprono i giochi. Ma il limite degli African Studies è di voler trovare, a tutti i costi, nel pensiero egiziano antico una primogenitura della filosofia classica».

E invece?

«Non è così: la filosofia è solo greca. Dall’Egitto antico promana una lezione di forte stimolo per il pensiero di oggi».

Per esempio?

«Mi limito a trasmettere alcune intuizioni colte e argomentate alla luce dei testi egizi, soprattutto originari del Medio Regno (come la storia di Sanahat o Sinuhe) o diffusi in quel periodo aureo. A partire dall’idea che fare è vedere».

La filosofia è solo greca, ma dall’Antico Egitto promana una lezione per il pensiero di oggi

Cioè?

«Per indicare l’attività non troviamo una mano o un braccio, ma l’occhio non truccato (“irt’’). Il verbo fare/agire è “iri’’. A mio giudizio questo è sintomo di una comprensione teoretica, finissima, dell’atto umano: in altre parole, gli antichi egiziani coglievano nel fare il pensiero che orienta l’azione. È una straordinaria anticipazione del concetto di intenzione, ignoto anche ad Aristotele, come ha tematizzato Gem Anscombe, l’allieva preferita di Wittgenstein, nel suo “Intention” (1957)”. Poi c’è il concetto di conoscenza».

Come viene espresso?

«C’è un verbo, “r’’ḫ, che indica “aver fatto esperienza”. Ma l’uso attivo, chiaramente teoretico, e talune espressioni (“m ˁȝ ib.k ḥr rḫ.k’’: non gonfiarti per la tua conoscenza, massima 52 di Ptahhotep) avallano la tessitura teoretica. Tuttavia proprio il “fare esperienza”, presente in espressioni come “rḫ nsw(t)” (“in familiarità con il sovrano”) aiutano a comprendere la complessità di questo verbo nelle lingue semitiche. Pensiamo a yada ebraico e al calco greco nel Vangelo di Luca, quando Maria dice all’Angelo “non conosco uomo” (“lo yadatti ish” in ebraico). Un altro verbo di conoscenza è c’è ḫmt, il cui senso – un andare dentro tipico dell’intuire, un conoscere penetrativo, concettuale – è immediatamente esplicitato dal segno del fallo eretto (“mty’’ ), a cui fa riferimento un’area semantica anche cognitiva, riferita allo stare davanti e alla acutezza. Questa idea è associata anche all’ambito del sapere appreso tramite l’insegnamento, che nell’Antico Egitto si dà a vedere come la massa critica più significativa delle competenze personali».

Tra i testi antichi ce n’è uno che l’ha colpita più degli altri?

«Più d’uno, ma per la questione del metodo citerei il papiro chirurgico Edwin Smith (1500 a. C.) che adombra la presenza di un metodo a fondamento della pratica medico-chirurgica, fattore decisivo per inquadrare anche il pensiero egiziano antico, in particolare per valutare la finezza della grana teoretica».

Siamo agli albori del metodo scientifico?

«I chirurghi di Kemet si muovono in un ambito molto lontano dall’idea moderna di scienza, ma erano certamente ottimi fenomenologi e il loro approccio alle patologie seguiva, intuitivamente, le linee maestre di quell’approccio: osservazione, analisi e conclusioni, mettendo tra parentesi pregiudizi e andando ai tratti essenziali del problema. Non c’è, nel testo preso in esame, esemplarmente di riferimento dei 48 casi studiati, un termine che possa tradursi con “metodo”. Tuttavia “šsˁ.w’’ , traducibile con “istruzioni” rimanda all’area semantica dell’accuratezza critica».

Una curiosità: come si scrive, con i geroglifici?

«Viene reso dalla testa di un’antilope (parola che si legge appunto “šsˁ.w’’ nella sua forma completa ), e rinvia al termine “šsr’’, indicante sia il grano sia la freccia. Due riferimenti all’ambito del contare e della “puntualità” che si intrecciano in una tessitura concettuale riferibile al ragionamento e all’uso della mente in modo rigoroso. Lo vediamo, ad esempio, nel secondo celebre testo medico dell’Antico Egitto, il Papiro Ebers (riga 48,1), dove ci si imbatte in formule come la seguente:“šsr(w) mȝˁ ḥḥ n sp’’»

Che significa?

«Potremmo tradurla come “Istruzioni vere da un milione di anni”, ma non sembra inappropriata neanche l’ipotesi di un “Metodo che ha avuto successo da un milione di anni” (Nederhof), perché viene seguita una strada precisa per ottenere la guarigione, consistente nell’osservazione dei sintomi, nella somministrazione di un rimedio e nel ricorso ad eventuali preghiere agli dei. Un percorso logico coerente, che in ambito matematico si fa ancora più asciutto e teoretico, attraverso la formula “tp-ḥsb’’ , resa graficamente dal segno di una testa umana e da un elemento traducibile come “contare”».

Scusi l’impertinenza, ma noi conosciamo gli antichi egizi quasi solo attraverso i loro monumenti funebri e le mummie...

«Siamo abituati a “leggere” la visione del mondo egiziana antica in chiave funebre, oscura, notturna. Cerco di mostrare al lettore come invece fosse l’opposto. Il famoso “Libro dei morti”, insieme di formule da applicare nell’aldilà, è in realtà (“rȝ mdȝ.t n.t pri.t m hrw’’) o Formule per andare fuori di giorno (“rȝ.w n.w pri.t m hrw’’)».

Cosa si può dire dell’antropologia egizia antica?

«A mio modo di vedere la voce umana – “hrw’’ – è la chiave di comprensione dell’antropologia egizia antica. Intreccia la vita all’eternità. Il defunto che aveva passato la pesatura del cuore era detto “giusto di voce” (“m3ˁ- hrw’’): generalmente questa espressione viene sottostimata, spesso ridotta a un acronimo (g.d.v.). La voce, in realtà, è il fattore energetico e dinamico alla base delle trasformazioni (“prw’’), come si evince dall’incipit delle formule del “Libro dei morti”, espresse dalla parola “r’’ (3), indicante la bocca e rinviante alla voce. La voce svolge il ruolo di “maat’’, il principio creatore/ordinatore. La lezione egiziana integra, a giudizio di chi scrive, le conclusioni della pragmatica enunciazionale, sviluppo anglosassone – negli anni ’80 – della teoria degli atti linguistici».

Lo spunto e l’autrice

«Questo libro nasce da una frustrazione. Non esiste un manuale filosofico divulgativo, per non specialisti, dedicato al modo in cui pensavano gli antichi egiziani prima dell’età ellenistica». Parola di Primavera Fisogni, giornalista de La Provincia di Como e filosofa teoretica, nonché autrice di un saggio affascinante: Nel segno del pensiero. Come pensavano gli antichi egiziani. Un’indagine filosofica, da poco pubblicato da Santelli editore. In precedenza Primavera Fisogni aveva affrontato con varie pubblicazioni il problema del terrorismo e del jihadismo dal punto di vista filosofico e nel 2017 con Cartoline dall’inferno. Fenomenologia del male nello Stato Islamico (Tralerighe libri) ha vinto il Premio Nabokov per la saggistica. La filosofa, tuttavia, coltiva anche la passione per gli antichi egizi: non solo insegnando a decodificare i geroglifici ma pubblicando regolarmente su Instagram le sue «pillole» di pensiero egiziano.

Il libro

Dimenticato dai manuali di filosofia, ridotto a qualche nota a margine, il pensiero dell’Antico Egitto si presenta come una miniera di suggestioni ancora da portare alla luce, sempre che si lascino da parte le categorie filosofiche classiche e ci si metta in ascolto dei testi originali. È questa la sfida di «Nel segno del pensiero», in cui l’autrice si avventura in uno scavo sui generis nei testi classici dell’antico Kemet, per lo più relativi al Medio Regno, per condurre un personalissimo carotaggio in alcuni ambiti precisi: l’uso del mondo, attraverso la conoscenza e l’agire; il modo in cui gli egizi guardavano alla condizione umana; la pulsione alla vita, anche oltre l’esistenza biologica; la continua ricerca di equilibrio per comporre le dissonanze caotiche continuamente in agguato.

La sorpresa

«Pensare all’antico Egitto come patria di una qualsivoglia “filosofia”», scrive nella prefazione l’accademico dei Lincei Paolo L. Bernardini, «mette i brividi. Consolidati dall’insegnamento scolastico, rafforzati dalle severe ammonizioni degli storici della filosofia – come il compianto Giovanni Reale (1931-2014) qui ricordato da Primavera Fisogni – i nostri pregiudizi circa “l’inizio del pensiero”, inteso come pensiero autonomo dalla religione, svincolato da ogni teologia, dotato di una propria validita etsi deus non daretur, sono duri a morire. E riguardano senz’altro anche la millenaria civiltà egizia. Esclusa da tutto ciò».

IL MISTERO DELLE TESTE DI RISERVA

Esiste un’idea di progresso nell’antico Egitto? Secondo Primavera Fisogni «una questione aperta, nella civiltà egizia, risiede nella capacità di far fronte alle “perturbazioni”. Contrariamente a quanto si pensa, la millenaria storia di Kemet è stata tutto fuorché stabile. C’è una dialettica del nuovo basata non sul superamento di un’antitesi, ma nella ri-creazione della “prima volta” ( ‘‘sp tpy’’), secondo un modello che rimanda al ciclico – ma non circolare – riproporsi degli eventi. Lo scarabeo, ḫ ‘‘pr’’, ne è il paradigma, mentre il dinamismo tra ‘‘isft/maat’’ (caos/ordine), ad ogni livello, compreso quello più elevato del faraone, ne costituisce la cornice di riferimento».

Nel saggio della nostra interlocutrice si parla del nome, quale espressione dell’identità personale in vita e in morte. «Nell’Esodo il faraone non viene mai nominato. Nella letteratura critica, questa scelta viene letta nel solco di una narrazione sapienziale/teologica della vicenda. In realtà, citando per nome le 2 levatrici che disobbedirono agli ordini del faraone, gli Ebrei – senza dubbio al corrente del valore speciale di “sintesi” del nome per gli egiziani – consegnavano al non-essere e svuotavano sul piano ontologico la potenza del sovrano. Non nominarlo era annientarlo, ridurlo a nulla».

Non manca qualche curiosità. Nelle pagine di antropologia, per esempio, si affronta il mistero delle «teste di riserva» che nella IV e agli inizi della V dinastia si trovavano nell’anticamera delle mastabe. Misterioso che avessero le orecchie scalpellate, oltre ad altri segni di ingiurie.

«La mia spiegazione è desunta dai testi letterari. La testa di riserva supportava il defunto, ma non essendo il defunto bensì la sua ‘‘twt ‘nh’’ – la sua immagine vivente, potenzialmente attiva – poteva tranquillamente usurpare il morto. Ora, nelle massime di Ptahotep si legge un chiaro riferimento al fatto che chi non sente, non agisce. Ho dunque trovato, nei testi, una risposta che considero assai plausibile per spiegare un enigma fino ad ora non risolvibile. E scrivo che il defunto si trovasse a fronteggiare un altro sé il quale, nell’udirne le parole e le formule, poteva magari usurparle. Perciò occorreva mettersi in sicurezza. Come? La mia ipotesi, almeno per quanto riguarda le orecchie, la cui mutilazione era forse il tratto più ricorrente è la seguente: intervenendo su di esse con lo scalpello si isolava la testa di riserva/statua vivente, impedendole di sentire e, quindi, di agire. In questo caso l’associazione tra le due azioni è suggerita dall’Insegnamento di Ptahhotep. Alla riga 529 leggiamo, infatti, ’’come lo stolto che non sente, egli non può fare nulla”».

In un certo senso, tutte le forme di spregio dei monumenti in pietra, perpetrate nell’Egitto dei faraoni, sono connotate da una carica simbolica comprensibile soltanto se si tiene presente il presupposto della vitalità del manufatto.

DI COSA SIAMO FATTI?

L’Occidente, con infinite varianti, ha culturalmente stabilito che l’uomo è composto di corpo e anima. E gli antichi egizi?

«Tra ka (spirito), ba (anima sensitiva), akh (corpo spiritualizzato), corpo biologico (ẖt), cadavere e ombra šwt sembra regnare grande confusione», ci spiega Primavera Fisogni. «In realtà, siamo in presenza di una visione sistemica, perfettamente in linea con i presupposti della General System Theory: le parti sono in realtà sistemi, in continua interazione, il cui esito è dato da proprietà sistemiche di II tipo. L’unità personale delle varie componenti, riassunta nel nome (’’rn’’) è appunto una proprietà di questo genere. Ogni dinamica sistemica richiede una “centratura”: ecco spiegata la centralità del corpo mummiforme, alla base di ogni dinamica post mortem. Sostengo, nel capitolo su ’’ba’’ e ’’ka’’ un’idea originale: è sempre il corpo personale, nella sua dimensione anche materica la condizione trascendentale dell’immortalità dell’anima».