Come cambia la povertà in Ticino: «Il sostegno economico non basta»
Povertà è una parola difficile. Da pronunciare. E da gestire. La povertà evoca scenari avvilenti, tormentati, straordinari. E inconsueti. Soprattutto in territori che non sono abituati a guardare in faccia il dolore. Il Ticino è uno di questi luoghi. Una società ricca, aperta, operosa. Ma non del tutto al riparo dal problema della fatica di vivere. Le cifre e le statistiche (non aggiornate e ferme al 2018) dicono che una percentuale ampia dei cittadini ticinesi, tra il 7 e l’8%, vive in condizioni di «povertà reddituale». Non ce la fa, insomma, a tirare avanti con il poco che guadagna. Aggiungono, le statistiche, che senza l’aiuto dello Stato, questo 7% abbondante di indigenti raddoppierebbe, fino a sfiorare il 15%.
Un nemico insidioso
La povertà è anche una condizione che cambia nel tempo. Un nemico difficile da affrontare, dicono tutti coloro che si occupano direttamente del problema. «Se dovessi definirla - dice al CdT Stefano Frisoli, direttore della Caritas Ticino - userei il termine complessità. Ormai, lo osserviamo da anni, non tutto è inquadrabile in modo semplice e schematico come si faceva una volta. Le situazioni sono molto diverse l’una dall’altra. E il sistema di welfare soffre di fronte a questa fluidità. Le risposte, pure importanti, spesso sono troppo rigide o basate su un modello che non ha piena corrispondenza con la realtà».
Il tema è «sicuramente economico - dice ancora Frisoli - ma non solo. La pressione sui redditi c’è, è evidente, basta pensare ai continui aumenti dei premi di cassa malati. Tuttavia, la povertà ha volti sconosciuti: quelli di chi non riesce ad avere solidità e vive nell’incertezza; di chi non è accettato o si sente respinto; di chi a 50 anni perde il lavoro e non sa rilanciarsi; di chi diventa povero relazionalmente e, nel lungo termine, precipita nell’isolamento. Condizione, quest’ultima, aggravata dall’atteggiamento di chiusura di una società sempre più polarizzata e individualistica».
E allora, insiste il direttore della Caritas, sarebbe necessario in primo luogo «il riconoscimento sociale delle nuove fragilità, delle nuove povertà. E, di concerto, l’individuazione di percorsi e di modalità di intervento che meglio possano rispondere a questi bisogni. Ancora oggi, troppo spesso quando si parla di povertà si pensa soprattutto all’indigenza, che però da noi è una questione relativa. È difficile che qualcuno, in Ticino, muoia di fame. È molto più facile, invece, che muoia di solitudine, di marginalità».
Frisoli riconosce l’importanza dell’azione del pubblico, così come la persistenza di un sentimento di solidarietà «tuttora molto forte, come ha dimostrato il caso dei profughi ucraini». Ma insiste sulla necessità di «andare oltre le statistiche, di ripensare le modalità di intervento. Il nostro modello di welfare disperde forse troppe risorse. Credo che servirebbe una logica più sistemica: dovremmo rivisitare schemi che attualmente non sono adeguati al contesto sociale. E mi spingo a dire che serve un momento di discussione nel quale, invece di trovare ricette puntuali, siano tematizzate le questioni vere. Stati generali in cui far emergere i problemi nella loro complessità».
Situazione di stress
Nel Rapporto sociale USTAT di fine 2023 (sempre con dati riferiti al 2018) si legge che, in Ticino, gli «adulti soli con minori» sono, per più di un motivo, la categoria sociale più a rischio, avendo «un tasso di povertà reddituale assoluta» e «un’intensità e una persistenza in povertà» più elevati rispetto a tutti gli altri cittadini.
Nulla sembra essere cambiato da qualche anno a questa parte. Anzi, la situazione potrebbe essersi persino aggravata. Se è vero, come sostiene Alessia Di Dio, coordinatrice dell’associazione ticinese delle famiglie monoparentali e ricostituite (ATFMR), che «negli ultimi 4 anni le richieste di aiuto al nostro sportello si sono quintuplicate».
Nel nostro cantone, aggiunge Di Dio, «una famiglia monoparentale su 3 è in povertà assoluta». E questo, nonostante l’aiuto della socialità statale. Il sostegno economico è quindi essenziale. Anche se dovrebbe essere affiancato da un supporto morale. Perché molte famiglie monoparentali, sottolinea Alessia Di Dio, vivono una costante situazione di stress. «Spesso, i magri redditi provengono da fonti distinte: un piccolo salario, gli assegni familiari di base o integrativi, gli alimenti dell’altro genitore non sempre puntuali, l’assistenza». Uno “spezzatino” che «accresce la sensazione di instabilità, con conseguenze pesanti».
A fine anno, dice con una battuta amara la coordinatrice di ATFMR, «vediamo molte madri esaurite, stanche, avvilite». Anche questa è povertà. Povertà interiore. «Mi riferisco al dubbio costante di non farcela, alla precarietà come condizione continua, alla paura degli imprevisti. Per le famiglie monoparentali - dice ancora Alessia Di Dio - nel nostro cantone ci sono interessanti strumenti di aiuto, quali gli assegni di prima infanzia e integrativi, ma bisognerebbe pensare anche ad altro. Soprattutto a rompere il possibile isolamento, a garantire a tutte le famiglie l’accessibilità alle attività culturali e del tempo libero, allo sport o al sostegno scolastico. A cogliere, insomma, tutti i bisogni, non soltanto quelli materiali».
Cambio di paradigma
Lo sguardo sulla povertà di Stevens Crameri, presidente dell’associazione ticinese degli asili nido (ATAN), è a largo raggio. Crameri è infatti direttore di una casa anziani nell’Alto Vedeggio ed è attivo anche nel comitato ticinese di Soccorso d’inverno. «Molte cose sono cambiate o stanno cambiando - dice Crameri al CdT - non si può più parlare di povertà soltanto facendo riferimento al reddito. Ormai è altrettanto centrale l’aspetto sociale del fenomeno, che colpisce tutti: gli adulti che perdono il lavoro, gli anziani soli, le famiglie monoparentali, i giovani, in aumento, che non concludono la formazione. Povertà non significa soltanto guadagnare poco. Vuol dire anche vivere in abitazioni inadeguate, rinunciare volontariamente all’assistenza sanitaria, isolarsi».
Cambiare gli schemi è l’indicazione del presidente di ATAN. «Non pensare soltanto ad aiuti finanziari, pure importanti ed essenziali, ma dare risposte di inclusione. Il Soccorso d’inverno, ad esempio, favorisce la socializzazione dei bambini permettendo loro di partecipare alle attività sportive. Ma inclusione significa pure ridurre i costi della sanità, dare più opportunità di accesso ai servizi, costruire reti di solidarietà più solide, canalizzare meglio le risorse, favorire l’accesso alla formazione».
La conseguenza più drammatica della nuova povertà, conclude Crameri, è la crescita della solitudine. «Negli ultimi anni c’è stato un notevole aumento delle richieste di aiuto al Soccorso d’inverno, le più disparate: da chi fa fatica a pagare la cassa malati e le imposte a chi ha una famiglia da mantenere e non ce la fa. Chi ha problemi spesso si allontana dalla società. Per pudore, perché ha vergogna o teme di essere giudicato. Ma io dico: nascondersi non serve».