Come eravamo prima di Netflix?

Dieci anni. Tanti ne sono passati dalla prima, primissima produzione originale di Netflix. Da allora molto è cambiato. Anzi, tutto. Sia nel confezionamento di quelli che, un tempo, chiamavamo telefilm sia nelle nostre abitudini. Prima, ad esempio, avevamo idea di cosa fosse il binge drinking ma non sapevamo nulla del binge watching (ovvero, citiamo da Wikipedia, la visione di diversi episodi consecutivamente, senza soste).
Il successo, quello vero, arrivò nel 2013. Merito di House of Cards, serie ideata da Beau Willimon incentrata sugli intrighi dentro e fuori la Casa Bianca. Poteva vantare nientepopodimeno che David Fincher quale produttore esecutivo e regista dei primi due episodi, oltre a un cast stellare composto da Robin Wright e Kevin Spacey. Urca. Fu lì, insomma, che Netflix entrò davvero nell’industria dell’intrattenimento e comprese il suo ruolo. Il primo vagito, tuttavia, è un altro. Si chiama Lilyhammer e racconta le vicende di un boss newyorkese in Norvegia. Mettete assieme i Soprano e i salmoni, mettiamola così, e avrete un’idea del prodotto concepito nel 2012. «A guardare indietro Lilyhammer non è stata forse la scelta più ortodossa per la nostra prima serie» ha scritto Ted Sarandos, co-CEO di Netflix, nel commemorare l’anniversario. «Ma ha funzionato perché era una storia fortemente locale che poteva essere condivisa con tutto il mondo. Da allora abbiamo visto tantissime grandiose storie locali risuonare in persone di altri paesi e altre culture: serie e film ambientati ovunque e raccontati in qualsiasi lingua».
Il dominio della televisione
Prima di Netflix, beh, le grandi serie americane erano appannaggio dei grossi network e, in seconda battuta, dei canali via cavo come HBO o AMC. Quando Lilyhammer, tutto fuorché memorabile, mise il naso fuori dalla finestra la gente guardava (e parlava di) Breaking Bad, Mad Men, Justified, Sons of Anarchy e, ovviamente, Game of Thrones. Dieci anni dopo, l’orizzonte si è rovesciato e – sebbene attaccata da altre piattaforme – è Netflix a dettare le regole. E a creare chiacchiericcio, ad immagine della nuova campagna pubblicitaria e quel tudum divenuto oramai iconico. Un balzo enorme, se pensiamo proprio a Lilyhammer e al suo tono ora decadente ora invece raffazzonato. «Ci sono storie, e poi ci sono storie così originali da essere capaci di sorprenderci» recita il comunicato legato all’ultima campagna. «Perché non le abbiamo mai sentite prima, perché ci vengono raccontate in un modo diverso o anche perché pensavamo che nessuno le avrebbe mai raccontate. Solo queste vengono riconosciute dagli stessi spettatori in modo inequivocabile come Storie Netflix. Storie che «hanno portato Netflix nella vita di ogni giorno e nella cultura pop».
Viene da chiedersi, nel 2022, perché Netflix a suo tempo scelse quella serie per lanciarsi nel mondo dell’intrattenimento. A maggior ragione pensando agli altri progetti. Fra cui House of Cards, appunto. Nel 2011, a marzo, Netflix comprese che per attirare nuovi abbonati non bastava avere un buon catalogo di film e serie altrui. Doveva proporne di proprie e, affinché avvenisse la transizione, assunse il citato David Fincher per lavorare su House of Cards, usando come base la serie della BBC andata in onda in Inghilterra. I tempi di lavorazione furono lunghi. Nell’attesa, Netflix scelse di uscire con Lilyhammer in coppia con l’emittente pubblica norvegese.
Dal nulla agli Oscar
Rispetto alla concorrenza tradizionale, le televisioni, Netflix aveva e ha un vantaggio straordinario: l’analisi degli utenti attraverso tonnellate e tonnellate di dati. Pensateci. La grande N sa tutto di noi. Sa cosa guardiamo, quando, quante volte, cosa potrebbe piacerci e milioni di altre cose. Può, con una certa sicurezza, commissionare una nuova serie e cucirla su misura per una determinata fascia di spettatori. Consapevole che sì, a meno di clamorosi scossoni sarà un successo. Dieci anni fa, va da sé, questa tecnologia era molto più rudimentale e grezza. Quale algoritmo suggerirebbe, per lanciare una vera e propria rivoluzione, una serie come Lilyhammer? Ecco.
Netflix, ad ogni modo, non solo superò il primo esame ma – nel 2013 – mise le mani sul primo Emmy con House of Cards. Fu quella, a ben vedere, la pietra angolare su cui l’azienda costruì un impero. Un rovesciamento di cornici e valori in piena regola. Snobbato, trattato alla stregua di un banalissimo sito web, Netflix si guadagnò l’ingresso nel salotto televisivo. Di più, continuò ad attirare e attrarre professionisti. Attori, registi, produttori. Prese il meglio, promettendo di restituire il meglio agli utenti. Agli Emmy del 2021, Netflix si è aggiudicato 44 statuette. Ovviamente, sono arrivate soddisfazioni anche sul fronte Oscar. Nel 2022, fra i migliori film, ce ne sono due con la N: Don’t Look Up e The Power of the Dog, per tacere de È stata la mano di Dio di Sorrentino fra le migliori pellicole straniere (battuta scontata: Netflix non si è disunito). Il Guardian, scherzando, ha scritto: «L’unico modo per Netflix di vincere un premio quando propose Lilyhammer sarebbe stato attraverso una nuova categoria, ‘‘la premessa più insoddisfacente’’». Severo. Ma giusto.
Andreotti e la concorrenza
Il potere logora chi non ce l’ha, diceva Giulio Andreotti. Il successo di Netflix, negli anni, ha spinto al limite la concorrenza. O, meglio, l’ha spinta a riorganizzarsi attorno allo streaming. Nel 2012, pagare un servizio online per guardare film e serie tv poteva sembrare un azzardo o, ancora, una stranezza. Oggi, tutti i principali attori televisivi e cinematografici hanno una piattaforma. E ognuna ha svariate frecce al proprio arco: Disney+ può contare sull’universo Marvel e Star Wars, Apple TV spopola grazie alle commedie, HBO Max punta sull’effetto nostalgia con Friends e Sex and the City. Il vantaggio competitivo di Netflix, dicono gli esperti, si è esaurito. La sua ascesa, ora, è contrastata da avversari altrettanto potenti. Ma per chi era partito da zero, anzi sottozero considerando l’ambientazione norvegese, questa ennesima sfida assomiglia di più a una passeggiata di salute.