Letteratura

Con Dacia Maraini nella Sicilia del Settecento

Il nuovo romanzo epistolare della scrittrice italiana esplora attraverso un espediente narrativo le complicate vicende di un triangolo amoroso durante l’epidemia di peste che colpì la città di Messina intorno alla metà del XVIII secolo
Dacia Maraini è da tempo tra le più apprezzate scrittrici italiane nel mondo.
Renato Martinoni
Renato Martinoni
15.09.2020 10:16

Dacia Maraini vive a Roma ed è sentimentalmente legata alla Toscana, memore degli anni della giovinezza e patria del padre (che in realtà era italo-svizzero). Ma nella sua narrativa la Sicilia, l’isola della madre, occupa uno spazio assai particolare. Un posto mitico, amatissimo, per la natura, le tradizioni, la storia, e anche aspramente criticato: per come il Male (in particolare la mafia) ne ha irrimediabilmente avvelenato il tessuto umano. Bagheria (1995) riflette il bisogno della scrittrice di denunciare pubblicamente le complicità e le derive criminali del mondo siciliano; La lunga vita di Marianna Ucria (1990) unisce invece una sensibilità tutta femminile, nel guardare le cose, al fascino impareggiabile di un’epoca, il Settecento, e di una geografia, quella mediterranea, descritte in pagine memorabili. Da quest’ultimo romanzo era rimasta esclusa una parte troppo cresciuta per poter stare accanto alle vicende della donna sordomuta. Un lungo capitolo dedicato a un’epidemia di peste che colpisce Messina a metà Settecento quando il morbo, arrivato attraverso il mare, si diffonde nella città e nei suoi dintorni. Un’epidemia, non una pandemia, come quella che ci ha colpiti in questi mesi, complici, più che la Cina, osserva l’autrice, gli attacchi continui agli equilibri ecologici frutto della dissennatezza dell’uomo.

Un’amicizia sincera

Fuggendo dalla peste due donne, amiche fin dalla prima giovinezza, si scrivono dai luoghi di villeggiatura dove si sono rifugiate. Hanno molte cose in comune, Agata e Annuzza. L’amicizia, innanzitutto. Un’amicizia profonda, sincera, inossidabile. Poi, ecco il nodo centrale, il fatto di essere entrambe innamorate dello stesso uomo, Girolamo: marito di una e padre della loro figlia; oggetto del desiderio, un desiderio non solo platonico, per l’altra. «In fondo», dice una, «tutte e due vogliamo il bene di Girolamo e il nostro bene dipende da lui». «Non è gelosia», aggiunge l’altra: come potrei essere gelosa di una sorella come te? È il sentimento della perdita e dell’abbandono». «Sarà la nostra amicizia nella sua gioiosa sacralità a trattenermi sulla soglia del dolore e della gelosia», conclude la prima. C’è tutta la materia per suscitare uno scandalo o per arrivare a un finale truculento. Questo breve romanzo, epistolare e utopico, parte da un movente: il vuoto imposto dall’epidemia che almeno apre le porte al tempo delle letture, all’amore per le letterature straniere, ai dialoghi, all’osservazione minuta dei luoghi, fra realtà e sogno, e la loro registrazione quasi diaristica di chi osserva le cose con discrezione. In bilico costante, non fra decenza e indecenza, ma fra l’amore, il dovere e i sacri vincoli di un rapporto solidale e sincero. Sono lettere che riportano in luce le fasi e le occasioni dell’amicizia, che cercano consolazione per fare fronte alla gramezza dei tempi. Sullo sfondo, a Messina e a Palermo, si intravvedono i luoghi della malattia e della tragedia, del disordine e della perdita dei valori. In primo piano la riscoperta delle piccole cose quotidiane, fra gioco trasognato e una leggerezza tutta settecentesca, insieme all’intimità di un mondo minuto fatto di poco, di una quotidianità apparentemente banale, dove la piccola storia prende il posto di quella grande, dove le pagine bianche continuano a riempirsi con delicatezza di elementi (frutti, dolciumi, vini), di colori, di profumi e di sapori leggeri. Come vuole il gusto dell’epoca.

Intreccio equilibrato

Nessun esito tragico porta con sé questo intreccio complicato dal fatto che l’uomo, marito e amante, ricambia non senza distacco i due amori. Tutto si nutre di un dialogo epistolare, pacato e affettuoso, ancorché non privo di ferite e di cicatrici, incorniciato dal dramma della peste e delle morti lontane. Ne esce un messaggio: si può e si deve reagire di fronte alle calamità (e ai bombardamenti mediatici che il Covid ha prodotto) con la riscoperta e la rivalutazione delle «piccole cose», briciole di saggezza in una storia potenzialmente esplosiva. Pensano le giovani rivali: «l’amicizia è un solo spirito che abita in due corpi». Il titolo della storia, Trio, rinvia inevitabilmente a un triangolo perverso d’amore. Invece, il triangolo è «armonico». Oltre che un invito all’equilibrio sentimentale, è un inno all’amicizia. Doppiamente benefico, specie in tempi calamitosi di morte e di dolore. «L’amicizia deve essere più forte dell’amore», si legge in un rovesciamento di valori per nulla consolidati. Perché «l’amicizia è eterna». Mentre «l’amore è fragile, delicato, destinato a morire giovane».

L'intervista

Signora Maraini, immersa com’è in non poche contraddizioni, la Sicilia continua ad affascinarla ...

«La Sicilia è parte della mia vita. La mia adolescenza l’ho vissuta fra Palermo e Bagheria. Conservo dei bellissimi ricordi, soprattutto delle luci, dei colori, degli odori e dei sapori. Tornandoci adesso non trovo più niente di quelle emozioni, peccato. La Sicilia è stata devastata e trasformata, soprattutto dal punto di vista paesaggistico, in maniera dolorosa. Quelle emozioni le sento e le vivo quando metto in moto la memoria. Questo romanzo nasce da una costola di Marianna Ucria. Ho utilizzato il materiale che avevo trovato mentre scrivevo sulla sordomuta palermitana. L’epoca è la stessa e l’ambiente lo stesso».

Come ha vissuto il tempo della pandemia?

«Ho sofferto di angoscia nel vedere le immagini dei tanti malati negli ospedali e dei tanti morti seppelliti in fosse comuni. Sono visioni che creano ferite nell’immaginazione interiore. Non è facile convivere con tante scene di morte».

La pandemia ci obbliga a fermarci e a riflettere. La storia di questa singolare amicizia vuol essere un invito a vivere diversamente la vita?

«Certamente la pandemia di oggi mi ha fatto pensare a quella di cui avevo letto quando scrivevo Marianna. Ogni racconto, però, parte da radici profonde e spesso sconosciute allo stesso autore».