L’analisi

Dal Cumbre Vieja ai supervulcani: la cenere che plasma il mondo

Con Marco Brenna, docente presso il dipartimento di geologia dell’Università di Otago (Nuova Zelanda) ed esperto in vulcanologia, parliamo delle recenti eruzioni alle Canarie e di altri affascinanti, pericolosi, vulcani
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Giacomo Butti
11.01.2022 06:00

Ottantacinque giorni di attività, settemila persone sfollate, tremila strutture distrutte, un morto. È questo il bilancio dell’ultima eruzione del Cumbre Vieja, vulcano delle Canarie, che prima di tornare a dormire ha fatto parlare di sé in tutto il mondo per l’inusuale durata e violenza dei suoi «capricci». Mai, secondo i dati a disposizione degli esperti, un’eruzione della «Cima vecchia» si è estesa su un lasso di tempo così lungo. Ma, per quanto spaventoso, l’evento registrato nell’arcipelago spagnolo è ben lungi dall’essere la più estesa tra gli innumerevoli vulcani disseminati nel mondo. Basti pensare che il monte Yasur, situato sull’isola di Tanna (Oceano Pacifico), sta eruttando in maniera praticamente ininterrotta da almeno 247 anni: nel 1774 il suo bagliore sembra abbia funto da guida al celebre esploratore James Cook.

Con Marco Brenna, docente presso il dipartimento di geologia dell’Università di Otago (Nuova Zelanda) ed esperto in vulcanologia, parliamo del caso del Cumbre Vieja e di altri affascinanti, pericolosi, vulcani.

L’eruzione del Cumbre Vieja. / © EPA/Miguel Calero
L’eruzione del Cumbre Vieja. / © EPA/Miguel Calero

Tettonica delle placche ed eruzioni

Per capire l’attività vulcanica (e sismica), è bene prima saperne qualcosa della teoria della tettonica delle placche. Modello condiviso dalla maggior parte degli scienziati, divide la litosfera (parte più esterna del nostro pianeta, con uno spessore che varia fra i 70 e i 113 chilometri e comprendente la crosta terrestre e la parte più esterna del mantello) in una ventina di placche. Queste «galleggiano» come zattere sullo strato meno rigido e fluido subito sottostante: l’astenosfera.

È con l’incessante movimento di queste placche che si spiegano eventi come sismi ed eruzioni vulcaniche, più comuni proprio ai margini di queste «zolle» (fenomeni interplacca) dove avviene il contatto.

© Wikipedia/Fravede11
© Wikipedia/Fravede11

Con Brenna partiamo dalle basi. «Un vulcano non è solamente il cono di roccia che si forma alla superficie terrestre, ma include pure tutto il sistema magmatico che parte dal mantello e attraversa la crosta terrestre», spiega l’esperto. «A dipendenza dei meccanismi che lo producono nel mantello, il magma può essere generato in modo relativamente lento. Per questo i vulcani come il Cumbre Vieja, i cosidetti intraplacca (che non si trovano ai margini di una placca tettonica, ma al suo interno, ndr) eruttano meno frequentemente e tendono ad avere eruzioni minori rispetto ai vulcani delle zone di subduzione tettonica», vale a dire quelli posizionati ai margini, dove una placca tende a scorrere sotto l’altra.

L’eruzione del Cumbre Vieja? Distruttiva, ma non ha posto grossi rischi alla popolazione perché prevedibile

Il vulcanologo procede poi nello spiegare la pericolosità di certe eruzioni: «Esiste tutta una serie di processi di evoluzione magmatica che occorrono in camere a pochi chilometri di profondità. Queste possono arrestare l’ascesa del magma e modificarne la composizione rendendolo più ricco in gas, e quindi più propenso a eruzioni esplosive. Nel caso del Cumbre Vieja il magma è asceso da grande profondità e nell’eruttare era abbastanza fluido. Per questo ha formato fontane e lunghe colate di lava (come succede alle Hawaii). Tali eruzioni, seppur distruttive per ciò che incontrano, non pongono un rischio troppo grande alla popolazione, poiché possono essere previste». E così, in effetti, è stato: «A Cumbre Vieja la sismicità associata all’ascesa del magma dai circa 15 km di profondità era stata rilevata una settimana prima che iniziasse l’eruzione, e le zone interessate erano state evacuate».

A rappresentare un vero pericolo per l’uomo, dunque, sono le eruzioni «anche di piccola scala dove i segni di instabilità, però, sono minori o assenti», sottolinea Brenna. Un esempio? Il vulcanologo cita il caso di Whakaari, vulcano neozelandese la cui eruzione uccise 22 persone nel 2019, lasciando gravemente feriti tutti gli altri 25 presenti al momento sulla sua piccola isola.

Il vulcano Whakaari (White Island). / © Shutterstock
Il vulcano Whakaari (White Island). / © Shutterstock

Gli esempi sono diversi. In Giappone, nel 2014, il vulcano Ontake aveva ucciso 63 persone: «Singole esplosioni durate pochi minuti nelle quali sono morti parecchi turisti ed escursionisti».

Brenna parla poi dei vulcani indonesiani: «Causano molto spesso vittime con eruzioni esplosive che generano flussi piroclastici (’’nube’’ ardente composta da materiale magmatico e gas ad alte temperature)». Più spesso di quanto si possa pensare, la densità demografica attorno a questi vulcani è alta, e «anche se la popolazione è al corrente dell’eruzione, spesso dipende per il sostentamento da zone in prossimità del vulcano ed è quindi solo una questione di tempo prima che succedano incidenti». «Sono diversi», conclude l’esperto, «i fattori che possono rendere un vulcano pericoloso, ma principalmente, con l’aumentare di viscosità e contenuto di gas, magma e lava, cresce il rischio di eruzioni esplosive e catastrofiche».

I più pericolosi

A Brenna chiediamo poi quali siano i vulcani più pericolosi. A contare è spesso la già citata densità demografica. Per ovvie ragioni, «i vulcani in prossimità di centri abitati pongono rischi maggiori. Per esempio un’eruzione del Fuijiyama potrebbe coprire Tokyo con diversi centimetri di cenere vulcanica. Nonostante il nome, questa cenere è densa come roccia e può quindi causare il collasso di tetti e altre strutture, senza parlare dell’impatto su linee elettriche (la cenere è conduttiva), vie di comunicazione, e agricoltura (la cenere è tossica). Altre zone vulcaniche densamente popolate includono l’America centrale, l’Indonesia e le Filippine, l’Africa centrale. In Europa, la zona a maggiore rischio è Napoli dove la popolazione è molto densa nei Campi Flegrei e sulle pendici del Vesuvio».

Attività vulcanica a Yellowstone. / © Shutterstock
Attività vulcanica a Yellowstone. / © Shutterstock

E i famosi supervulcani, così spesso al centro di documentari e film? «Se si vuole parlare delle eruzioni più pericolose in assoluto allora i “supervulcani” sono certamente i candidati migliori. Questo termine si riferisce ai vulcani a caldera, come lo Yellowstone (USA), il Taupo (Nuova Zelanda) o i Campi Flegrei. Questi non sono caratterizzati da classici coni vulcanici, ma da grandi depressioni formatesi quando la crosta terrestre collassa entro una camera magmatica superficiale. Tale processo libera volumi enormi di magma, fino a centinaia o migliaia di chilometri cubici coprendo e obliterando vaste aree con parecchi metri di cenere e pomici, formando una roccia chiamata ignimbrite». Un esempio? «L’eruzione del Taupo circa 1800 anni fa devastò completamente un’area dell’isola del nord neozelandese equivalente alla nostra Svizzera tedesca». In termini della storia geologica terrestre, specifica poi l’esperto, «i fenomeni vulcanici più distruttivi sono le grandi province ignee. Questi eventi possono coprire aree grandi quanto mezza Europa con chilometri di roccia e avrebbero un impatto climatico catastrofico. Tali eventi sono stati associati a estinzioni di massa del passato».

Cenere e clima

L’impatto di un’eruzione vulcanica può però non limitarsi alla devastazione portata sulla superficie terrestre. Le colonne eruttive (insieme di frammenti di magma, ceneri e gas) possono seriamente modificare la qualità dell’aria e portare a forti cambiamenti climatici. «L’impatto di un vulcano sul clima», spiega Brenna, «dipende anche dalla composizione del magma. Maggiori sono viscosità e contenuto di gas, e più alte possono essere le colonne eruttive. Il magma basaltico del Cumbre Vieja è generalmente fluido e le sue colonne eruttive variano dunque tra i due e quattro chilometri d’altezza». La diffusione di gas e la ricaduta di cenere, nel suo caso, «sono quindi localizzate».

Se le colonne eruttive raggiungono la stratosfera, la cenere può rimanere sospesa per parecchi anni, causando un raffreddamento globale

Se invece le colonne eruttive toccano la stratosfera (a più di 10 chilometri d’altitudine), «l’impatto è maggiore, con circolazione di gas e cenere su scala globale». Qui, la circolazione delle correnti «rallenta la ricaduta di cenere, che può rimanere sospesa per parecchi anni, causando un raffreddamento globale. In termini di gas, il Cumbre Vieja ha rilasciato circa 2 milioni di tonnellate di biossido di zolfo, equivalente alla produzione annua di una decina di centrali a carbone. Un impatto relativamente basso sul clima».