Dal Partito agrario all’UDC: una storia politica lunga cent’anni

Il 19 dicembre 1920 veniva fondato il Partito agrario ticinese. Un libro di Carolina Ferrari-Rossini, Marco Marcacci, Oscar Mazzoleni e Fabrizio Mena ricostruisce i cent’anni di vita dell’odierna UDC: Un secolo di storia politica – Dal Partito agrario all’UDC (1920-2020). L’idea è stata di Giovanni Maria Staffieri, già deputato. Lo abbiamo intervistato.
Il libro è stata una scelta coraggiosa: incaricare un gruppo di storici indipendenti, dai partiti e dal partito, di scrivere la storia dell’UDC. Com’è nata l’idea?
«Confermo che il progetto è nato e si è sviluppato in me avvicinandosi il traguardo del centenario del Partito agrario/UDC. Da un lato vi ha influito la personale adesione dal 1966 e permanenza per molti anni quale attivo testimone su diversi fronti politici, continuata ora da attento spettatore. Dall’altro lato la convinzione di voler cogliere l’opportunità della ricorrenza secolare per consegnare alla storia verace, non vulgata o apologetica, la memoria di un partito che ha avuto un ruolo non indifferente nel panorama politico ticinese. A tale scopo, mettendomi a disposizione con compiti unicamente organizzativi, ho esposto circa tre anni or sono all’attuale dirigenza dell’UDC l’idea e il contenuto del progetto assieme all’esigenza di affidarne la realizzazione ad uno o più storici conosciuti per competenza e indipendenza, a salvaguardia della serietà e obiettività dell’opera».
E la risposta qual è stata?
«L’adesione fu unanime ed entusiasta; così mi misi all’opera per la ricerca del o dei redattori idonei, non collegabili al partito, e per raccogliere quanto più materiale inedito fosse possibile, di diversa provenienza, a complemento delle fonti documentarie edite già disponibili, a partire da quello dell’archivio di famiglia con le carte pertinenti che fanno capo a mio nonno avv. Riccardo Staffieri, uno dei fondatori del Partito agrario. Da qui, con la collaborazione dei proff. Fabrizio Mena e Oscar Mazzoleni, è stato formato, assieme a Carolina Ferrari-Rossini e Marco Marcacci, il team ideale per la realizzazione dell’opera, firmati i relativi contratti e data esecuzione al progetto. Piuttosto che di decisione coraggiosa si tratta di una scelta dovuta e mirata in omaggio a quel rispetto della Storia con la s maiuscola che sento profondamente».

Ha temuto in qualche momento che il risultato avrebbe potuto creare disagio nel partito?
«Proprio per gli intenti operativi che ho indicato non mi ha mai sfiorato il pensiero che il risultato avrebbe potuto creare disagio nel partito. Sono pienamente consapevole che la storia di un partito centenario è come una saga famigliare con luci e ombre ripartite su più generazioni e che tocca anche vicende umane, ma ai curatori e ai coautori va riconosciuto l’impegno di aver saputo rendere ben visibili ma non abbaglianti le luci ed evitato con sensibilità e discrezione, pur nella franchezza dei fatti esposti, che le ombre si trasformassero in tenebre conflittuali».
Nella sua introduzione, il coeditore Carlo Danzi non nasconde il disappunto per i termini utilizzati nell’ultima parte del saggio incentrata sulla svolta blocheriana: «Sembra di ascoltare il TG della RSI di Comano». È materia storica ancora calda. Lei come ha reagito?
«Carlo Danzi è stato mio attivo collega di Gran Consiglio dal 1991 al 1995; ha una spiccata personalità e generosità che ha ora concretamente dimostrato attraverso il versamento di un contributo determinante della fondazione che porta il suo nome a beneficio della pubblicazione del libro, di cui è coeditore. Il suo pensiero, che conferma la realtà storica, va senz’altro accolto in omaggio al principio fondamentale, di origine britannica ma universale, che afferma: «Comment is free but facts are sacred». Credo che sia facilmente comprensibile».
Veniamo alla storia centenaria del partito. Le radici affondano nel Ticino della transizione dopo la cosiddetta rivoluzione liberale del 1890, l’intervento di Berna e il passaggio al sistema proporzionale. Ci vollero però trent’anni, archiviata la parentesi nuovamente maggioritaria: il Partito agrario ticinese nacque anche come forza di conciliazione, di superamento della polarizzazione bipartitica e dopo la Grande guerra. Cosa resta di quelle origini?
«La domanda contiene un’analisi corretta sull’origine del Partito agrario anche e propriamente quale sintesi ideologica e conciliativa dei due grandi partiti storici dell’epoca, quello liberale radicale e quello conservatore democratico, fatalmente e permanentemente avversari; ne abbiamo avuto recentemente ancora dimostrazione. Di quelle origini rimangono validi lo spirito e l’esempio dei fondatori (per tutti: Gaetano Donini, Francesco Cattaneo e Riccardo Staffieri), permeato di sano patriottismo ispirato da ideali di libertà e di federalismo. Non può essere dimenticato il fatto che allora essi sacrificarono tutti la propria brillante e avviata carriera politica e di magistrati nei rispettivi partiti storici di appartenenza per creare una nuova realtà di interesse pubblico nella quale credevano fermamente. Dunque amor di patria, di libertà e di federalismo sono valori sempre attuali e irrinunciabili».
Una seconda lunga fase fu quella dopo l’uscita dal Consiglio di Stato nel 1927 fino al Sessantotto e alla sua coda. Il PAT fu una forza d’opposizione che vinse alcune battaglie, prima fra tutte quella contro la legge urbanistica. Fu anche una fase di logoramento? Il libro parla di «traversata del deserto».
«Svolgere con continuità e con coerenza una politica di opposizione costruttiva non è sempre pagante in termini elettorali, anzi. Ma bisogna prescindere da questa realtà, superarla e continuare a macinare il grano separandolo dal loglio, ma soprattutto riformarsi e rinnovarsi profondamente e progressivamente. Alla fine il tempo è galantuomo: «gutta cavat lapidem», la goccia scava la pietra, specie in presenza del mondo globalizzato e disumano che viviamo, dove il cittadino elettore si ribella operando libere scelte di opinione, indipendenti e sorprendenti. Scelte che sfuggono alla logica desueta di quei partiti che non hanno preso in considerazione seriamente e tempestivamente il proprio rinnovamento e si trovano ora ad operare una inderogabile rifondazione oppure a percorrere mestamente il viale del tramonto».
Nel 1971 la svolta. I mutamenti sociali indussero il partito a cambiare nome: UDC. Lo fece del resto anche il Partito conservatore che divenne PPD. Come visse quella transizione?
«Ho accennato a rinnovamento e riforma del partito, indispensabili per non perdere il contatto con il paese reale che cambia e segnatamente con l’elettorato. Un passo importante in questa direzione fu nel 1971 la decisione di attribuire un nuovo e più pertinente nome al partito, che mi vide protagonista nella veste di giovane segretario cantonale del «Partito agrario e ceto medio». Mi ero reso conto che con quest’ultima denominazione non si andava nel tempo da nessuna parte e posi il quesito agli organi competenti cantonali e federali proponendo tre nomi fra i quali venne scelto «Unione democratica di centro», approvato dalla Direttiva e dal Comitato cantonale e infine accolto dopo vivace discussione dalla maggioranza dei delegati al Congresso straordinario di Bellinzona il 24 gennaio 1971, dove con «centro» era evidentemente inteso il ceto medio e non una posizione ideologica».
Il cambiamento non fu però premiante. Elettoralmente l’UDC raggiunse il 3,3% nel 1983 (c’era la crisi delle finanze cantonali) e poi scese addirittura fino all’1,2% nel 1995. Cos’era mancato in quegli anni?
«Il cambiamento di nome permise al partito di vivere e di sopravvivere. La deputazione in Gran Consiglio si dimostrò sempre molto attenta ed attiva anche se ad un certo punto si ridusse ad un lumicino. In quegli anni critici per l’esistenza del partito si soffriva la pressione esterna dell’area politica che ruotava attorno a «Gazzetta Ticinese» e all’Alleanza liberi e svizzeri e che si pensava, non senza ragione, che intendesse introdursi gradatamente nell’UDC per assumerne le redini, snaturandone così la filosofia originaria, specie attraverso la penetrazione nella gestione economica e politica del periodico «Il Paese», storica pubblicazione ufficiale del Partito agrario e dell’UDC».
Ne nacquero tensioni interne non da poco: cosa capitò?
«Questo conflitto interno, che vogliamo oggi felicemente superato anche se non scordato, sfociò nel 1989 nella dolorosa separazione del giornale dal partito. Strategicamente, ne faccio ammenda, fu una mossa infelice e inopportuna, sia pure giustificata dalla preoccupazione legittima di evitare al partito una deriva autoritaria incompatibile con gli ideali delle sue origini. Ma essa fu anche salutare perché condusse ad un chiarimento dei ruoli che permise nei tempi successivi di ricucire i rapporti tra i liberals agrari e i nuovi conservatori emergenti, nonché di accogliere nel partito altri esponenti qui migrati da diversi lidi politici».

Poi c’è stata la rinascita, nonostante la presenza della Lega, con la svolta blocheriana nel 1998, che lei non condivise, perlomeno non pienamente. A conti fatti e col senno di poi, fu una svolta salutare, opportuna, necessaria?
«La «svolta blocheriana» fu un evento politico globale che investì l’intera Svizzera; io non la condividevo nella forma, eccessivamente aggressiva e semplicistica, ma la accettavo criticamente nella sostanza, perché operava in presa diretta senza la mediazione di sterili perifrasi. All’inizio di questo fenomeno erano tempi grigi per l’UDC ticinese ma, nonostante il calo allarmante dei risultati elettorali e in presenza di un andirivieni più o meno convinto di new entries da altri partiti, l’essere riusciti a trasmettere intatto il nucleo ardente dello spirito dei fondatori ha permesso di ricostruire gradatamente nel tempo - grazie anche all’effetto moltiplicatore blocheriano nell’ambito elvetico e alla collaborazione real-politica con la dilagante Lega dei ticinesi - una compagine sempre più motivata e coesa sul fronte politico ticinese ad ogni livello».
Arriviamo così agli straordinari successi elettorali del 2019: un consigliere nazionale e soprattutto un consigliere agli Stati. Se lo sarebbe mai immaginato?
«Certamente, fino alla vigilia delle elezioni federali dello scorso anno, era inimmaginabile l’esito positivamente travolgente dell’UDC ticinese, addirittura in controtendenza nei confronti dell’UDC degli altri cantoni. Questo effetto si è ulteriormente consolidato quest’anno con la nomina del nuovo senatore Marco Chiesa a presidente del partito svizzero. Siamo davanti a situazioni cariche di prestigiosi riconoscimenti ma anche di gravose responsabilità riguardo alla gestione della cosa pubblica in questo periodo di latente emergenza pandemica, che necessita dell’intervento di lucide, solide e coraggiose energie politiche che credo non difettino ai nostri giovani parlamentari federali e cantonali».
La ricostruzione storica fatta nel libro secondo lei quali pregi ha?
«La ricostruzione storica degli autori, ai quali rivolgo il mio riconoscente pensiero, ha anzitutto il pregio di essere antologica, ossia di investire senza soluzione di continuità l’intero periodo secolare di esistenza del partito attraverso l’analisi delle fonti edite ma soprattutto di quelle inedite, acquisite e oggettivamente valorizzate senza omissioni o esclusioni intenzionali. Questo volume è da considerarsi un’opera pionieristica nel campo della storiografia partitica ticinese che, pur disponendo di una miriade di pubblicazioni sui partiti, era finora priva di studi organici completi sui singoli partiti. Da qui l’auspicio che il presente lavoro funga da apripista metodologico in questo settore della storia non vulgata».
E sui contenuti veri e propri?
«Un secondo importante merito del libro è quello di aver dettagliatamente studiato per la prima volta e svelato la lunga e laboriosa genesi che ha condotto il 19 dicembre 1920, esattamente cento anni or sono, alla meditata fondazione del Partito agrario ticinese, nonché di averne puntualmente contestualizzato le vicende con quelle della politica cantonale e federale. Infine, ma non da ultimo, il merito di aver indicato tutte le fonti utili per ogni ulteriore eventuale approfondimento che sicuramente non mancherà».
E quali difetti ha riscontrato, se ve ne sono?
«A questo punto sarei stolto se mi mettessi ad elencare dei presunti difetti dell’opera».
Dovesse dare un voto al lavoro degli storici?
«Il voto sul suo complesso sarà quello che, non ne ho dubbio, gli verrà attribuito dal successo editoriale».
*già deputato in Gran Consiglio e segretario cantonale dell’UDC