Il personaggio

David Stern, la grande eredità di un visionario

Si è spento a New York lo storico commissario della NBA, in carica per 30 anni - Dan Peterson: «Una persona eccezionale»
David Stern aveva 77 anni. ©AP/Bebeto Matthews
Giona Carcano
02.01.2020 18:40

Vittima il 12 dicembre di un’emorragia cerebrale, si è spento a Manhattan - dov’era nato 77 anni fa - David Stern. Una figura mitica, un pioniere che ha reso grande, globale, la NBA. Ne raccolse i cocci nel 1984, quando diventò commissario del massimo campionato di basket nordamericano. Mise assieme i pezzi di una lega dilaniata da problemi finanziari, fino a renderla trent’anni dopo un prodotto commerciale fra i più ambiti e «spendibili» al mondo.

Per capire meglio chi era Stern e cosa ha rappresentato per l’America della pallacanestro, ci siamo affidati a Dan Peterson, iconico allenatore e commentatore televisivo statunitense da moltissimi anni trapiantato in Italia.

Un pioniere

David Stern fu un visionario. E utilizzò un mezzo all’apparenza semplice per veicolare la lega in giro per il mondo: la televisione. «Prima di assumere il ruolo di commissioner, Stern – avvocato – è stato consulente legale della NBA e poi vice presidente ai tempi di Larry O’Brien» racconta Peterson. «Fu nei primi anni Ottanta, infatti, che Stern diede i diritti televisivi a Bruno Bogarelli per trasmettere alcune partite di NBA in Italia. La mia carriera di commentatore cominciò in quel momento. Ed eravamo i primi a commentare e diffondere dei match di quella lega al di fuori del Nordamerica». Un inizio, il principio di qualcosa di più grande. «Sì, perché Stern vide nella televisione il mezzo per esportare il prodotto della pallacanestro in tutto il mondo» spiega Peterson. «Fu un vero e proprio visionario, con un fiuto unico per gli affari e per lo sport in generale. Una persona dotata di un’intelligenza straordinaria, tant’è che se oggi la NBA è amatissima ovunque, in particolare in un mercato gigantesco come quello cinese, lo dobbiamo a Stern».

David Stern con LeBron James. ©AP/Mark Duncan
David Stern con LeBron James. ©AP/Mark Duncan

Un team non solo sul parquet

David Stern, per tre decenni patron della NBA, non era un accentratore. Si affidava, semplicemente, alle persone giuste. «Un grandissimo lavoratore, instancabile, sapeva arrivare ogni volta prima degli altri» ricorda Dan Peterson. «Il suo segreto? Si attorniava di figure intelligenti, capaci di portargli qualcosa». Il botto, a livello di visibilità, arrivò nel 1992 a Barcellona. Stern, per la prima volta nella storia, aprì la NBA ai Giochi. Venne così composto il famosissimo Dream Team formato, fra gli altri, da Michael Jordan, Larry Bird e Magic Johnson. «Quella fu un’intuizione epocale» commenta il nostro interlocutore. «Permise alla lega nordamericana di acquisire una visibilità planetaria. Tutti volevano vedere in azione la squadra USA». Visibilità, sponsor e soldi. Il mix perfetto per rendere davvero globale un prodotto.

Sull’orlo del fallimento

Oggi, conosciamo una NBA perfetta: una macchina che non si ferma mai, che genera dollari su dollari, capace di sfornare ogni anno un eroe, un giocatore simbolo. Ma non è sempre stato così: prima dello sbarco di David Stern, la lega era in piena crisi. Ed era snobbata dal grande pubblico, che preferiva guardare i campionati di baseball o di football americano. «Stern assunse la carica di commissario nel febbraio del 1984» dice Peterson. «In quegli anni, la lega stava attraversando un lungo periodo di burrasche. Sembra incredibile dirlo oggi, in tempi in cui una franchigia arriva a valere due miliardi di dollari. Eppure all’inizio degli anni Ottanta il basket in Nordamerica non rendeva. Delle 24 squadre che costituivano la NBA, 18 erano sull’orlo del fallimento. Stagione dopo stagione, chiudevano i conti in rosso. Stern ha saputo rovesciare questa tendenza negativa grazie a due idee: il tetto salariale e la vendita dei diritti televisivi del campionato». Una svolta che ha reso la lega una multinazionale dal fatturato mostruoso: circa 8 miliardi di dollari ogni anno.

La droga

I conti in rosso, sì. Ma nei primi anni Ottanta uno dei grandi problemi della NBA era la droga, in particolare la cocaina. «All’epoca si diceva che il 75% dei giocatori di basket del massimo campionato nordamericano consumasse droga» spiega Peterson. «Stern prese sul serio la questione, istituendo prima di chiunque altro nel mondo dello sport ferree regole anti droga, ripulendo l’immagine sia dei giocatori, sia delle squadre. Non solo: diede un codice di abbigliamento. Staff e ragazzi dovevano presentarsi in giacca e cravatta. Basta con le tute e i jeans. Bisognava vestirsi come uomini d’affari». Professionismo in tutto e per tutto: questo, in due parole, il pensiero di Stern.

L’incontro

Dan Peterson racconta in seguito un aneddoto personale. «Nel 2009, assieme a Dino Meneghin, ci recammo a New York per parlare con i tre italiani della NBA: Bargnani, Belinelli e Gallinari. Il giorno dopo fissammo un incontro con Stern. Ebbene, David ci accolse nel suo ufficio con un’umiltà mai vista. Eravamo dei perfetti sconosciuti ma lui ci chiese ‘‘cosa posso fare per voi?’’. Era una persona che sapeva ascoltare gli altri».

Le tappe della NBA sotto la guida di David Stern

La cocaina

Durante i primi anni Ottanta, il basket nordamericano aveva un problema chiamato droga. Cocaina in particolare. Nel 1980 il Los Angeles Times rivelò che molti giocatori della NBA facevano uso di droghe. Una piaga gravissima. David Stern cercò di arginare il fenomeno imponendo controlli regole ferree. La «vittima» simbolo dell’operazione di pulizia fu Micheal Ray Richardson, guardia dei Nets: nel 1986 venne bandito per sempre dalla NBA dopo tre controlli positivi alla droga. Il campionato, sempre quell’anno, fu funestato dalla morte per overdose di cocaina di Len Bias, un giovanissimo cestista appena ingaggiato dai Celtics.

L’espansione commerciale

Nei primi anni sotto la gestione Stern, la NBA versava in condizioni critiche a livello finanziario. Molte franchigie che oggi valgono miliardi di dollari, un tempo erano sull’orlo del fallimento ed erano perennemente in perdita. Per risolvere la situazione, Stern puntò moltissimo sull’immagine della lega nel mondo. Vennero ingaggiati giocatori provenienti dall’estero, in particolare dall’ex blocco sovietico. Ecco allora lo sbarco di Drazen Petrovic, Vlade Divac, Sarunas Marciulionis. L’Europa, allora, cominciò a guardare con crescente interesse alla NBA. Fino a farne il punto di riferimento. Contemporaneamente all’apertura oltre Atlantico, Stern propose di aumentare le partite di esibizione. In Asia, specialmente. In Giappone, nel 1990, venne disputata la prima partita di NBA al di fuori dai confini nordamericani. Celebre, come ricorda il New York Times, una frase di Pat Williams, all’epoca general manager degli Orlando Magic: «David Stern non sarà felice finché non vedrà, passeggiando per Pechino, un bambino con un cappello di una squadra di NBA». E proprio la Cina, oggi, è uno dei principali mercati commerciali della lega.

Barcellona, 1992

La vera scommessa, David Stern la vinse nel 1992, quando costituì quello che in seguito venne chiamato Dream Team. Per la prima volta, giocatori professionisti della NBA parteciparono ai Giochi olimpici di Barcellona. E la nazionale americana, composta – fra gli altri – da Michael Jordan, Larry Bird e Magic Johnson vinse a mani basse la medaglia d’oro. L’evento portò agli occhi del mondo intero le favolose magie dei cestisti NBA. L’interesse nei confronti della lega nordamericana diventò planetario.

Una gallina dalle uova d’oro

Negli anni, la NBA è diventata una delle leghe professionistiche più seguite e amate del mondo. Sono state fondate nuove squadre (oggi sono 30, suddivise in due division) e la macchina della lega ha cominciato a generare moltissimi soldi. A tutto vantaggio delle franchigie. Nel 2018, secondo Forbes, i New York Knicks avevano un valore commerciale di 4 miliardi di dollari, mentre i Los Angeles Lakers di 3,8 miliardi. Nella Top5 delle squadre più ricche ci sono anche i Golden State Warriors (3,5 miliardi), i Chicago Bulls (2,9 miliardi) e i Boston Celtics (2,8 miliardi). La media del valore di tutte le 30 franchigie NBA si aggira sui 2 miliardi. Nel 2018, il fatturato della lega si aggirava attorno agli 8 miliardi di dollari. Nella stagione 2016-2017 è stato siglato un accordo con TNT ed ESPN per la vendita dei diritti televisivi pari a 24 miliardi di dollari.