L’intervista

«Dieci anni da solo, ma dentro mi sento ancora forte»

Angelo Renzetti si appresta a tagliare il traguardo dei 10 anni alla presidenza del FC Lugano - Il patron bianconero si confida: «Sono entrato in una cosa più grande di me» - IL VIDEO
Angelo Renzetti e le sue passioni: il FC Lugano e l’arte del costruire. ©CdT/Gabriele Putzu

Era il 23 settembre del 2010 quando Angelo Renzetti diventò presidente del Football Club Lugano. Dieci anni dopo, abbiamo incontrato il numero uno bianconero nel suo ufficio, fra cimeli del passato, traguardi e progetti futuri. «Sono entrato in una cosa più grande di me» afferma.

Presidente, partiamo da questa tappa storica: si sarebbe mai immaginato di tagliare un simile traguardo?

«In realtà, ho sempre sperato di trovare qualcuno che mi seguisse in questa esperienza. Di fare una società forte con altre persone. Ho sempre vissuto con questa speranza, anche i risultati ottenuti avrebbero dovuto attirare qualcuno. Mi ero reso subito conto che una cosa del genere non va fatta da solo. Non a caso ero entrato per gradi, con il 20% prima e poi con il 40%. Il mio piano era: guardate, abbiamo ripreso il Lugano e proviamo a riportarlo dove merita. Ho fatto del mio meglio».

Finora, il piano però non ha funzionato: lei è solo.

«E questa è la mia delusione maggiore. Sembra quasi che io voglia essere il capostipite di tutto perché sono sempre da solo, ma è un’immagine fuorviante. Il mio intento non è mai stato quello».

Le sembra che il Ticino sia stato tiepido con lei?

«Non credo, il problema semmai è la mentalità contro cui mi sono scontrato. Me ne sono successe di incredibili, perfino una serie di denunce. Io sono sempre stato visto come un plenipotenziario, però questa cosa non rispecchia né il mio atteggiamento, né la mia personalità, tantomeno il mio ruolo effettivo. Sono solo uno che ha fatto dei miracoli per sostenere tutto questo circo».

Ho sempre sperato di trovare qualcuno che mi seguisse, la maggiore delusione è non averlo trovato

Si aspettava, però, un Ticino più compatto e solidale verso il suo club?

«Faccio un esempio: diamo gratuitamente dei giocatori al Bellinzona, ma ci ritroviamo con delle cause per faccende inesistenti. Come la diatriba legata ai contributi UEFA. Abbiamo una lettera dell’Associazione svizzera di football che ci dà ragione. Noi dobbiamo combattere di continuo e ciò dice tanto della mentalità ticinese. Io per carattere non cerco rivalse, ma certe storie non finiscono mai. L’ultima causa risale a pochi giorni fa. È lo specchio di quello che è il Ticino».

Dieci anni fa, nel suo discorso di intronizzazione, disse: «Mi hanno dato in mano una Ferrari». Che macchina è, ora, il Lugano?

«Quella metafora era data dall’entusiasmo, avevamo una buona squadra e mi sentivo di poter fare bene. E direi che in questi anni abbiamo fatto bene, considerando i mezzi e la mia solitudine. Il nostro non è stato un miracolo, ma di più. Il paragone della macchina non regge più, oramai. Abbiamo fatto tantissimo, senza l’aiuto di nessuno. La riflessione è un’altra: ma questo Ticino si sveglia o no? Il nostro cantone perde in tante, troppe polemiche di retroguardia».

Non è che il calcio non interessa più alla società ticinese? Chi ha la passione investe, gli altri no.

«Le componenti sono diverse: il vecchio Lugano fallito, le infrastrutture vecchie. È un po’ come le malattie: quando te ne arriva addosso una, poi te ne arrivano altre. Il calcio per me è ancora lo sport più seguito, tuttavia per farlo tornare in auge bisogna avere una squadra forte: ti dà risultati e continuità, crea entusiasmo. Anche noi, nel nostro piccolo, abbiamo mosso migliaia di ticinesi per la finale di Coppa».

23 settembre 2010: Angelo Renzetti è il nuovo presidente del Lugano. ©CdT/Archivio
23 settembre 2010: Angelo Renzetti è il nuovo presidente del Lugano. ©CdT/Archivio

In dieci anni, il Lugano sportivamente ha fatto quasi il massimo. Come e dove si può intervenire?

«Anche più del massimo, per come eravamo messi. Mi sono preso dei rischi importanti a livello economico. Del resto, lavoro sulla piazza. Non posso nascondermi. Se il Lugano va male, anche la mia attività ha dei contraccolpi».

E poi c’è la pandemia, che ha complicato tutto.

«Il problema è che non c’è una fine, ma io nel frattempo non posso certo permettermi di far fallire il Lugano. Al massimo, regalerò la società. Senza uno stadio, con tutte le difficoltà, i contratti da onorare, beh, io direi che stiamo dimostrando una grande dignità».

Cosa pesa di più, se ripensa ai suoi dieci anni? I soldi messi o le emozioni provate?

«L’aspetto emotivo. Alla fine, ho un rapporto particolare con i soldi: non temo di prendere rischi. Vanno e vengono, un imprenditore questi aspetti può gestirli. Aver messo tutto quello che ho messo nel club non è un problema, neppure l’ipotesi di dover cedere la mia società a zero. Per me vale di più quello che ho fatto».

Ha citato le infrastrutture. E qui veniamo al nuovo stadio. Alcuni imprenditori, Artioli e Tarchini, non hanno certo speso parole al miele per il Polo sportivo. Cosa ne pensa?

«Le critiche lasciano il tempo che trovano, il discorso Polo fu fatto anni fa. E nessuno allora disse niente. Idem in seguito, per le tappe successive. Ora, magari, qualcuno si vede scappare il lavoro o il protagonismo legato al progetto. E allora si fanno conferenze stampa, con un tedesco arrivato qui da non si sa da dove che afferma: lo stadio è una porcheria. Un altro, che non ha nemmeno l’abbonamento, dice cosa devi fare. Noi abbiamo lottato, mettendo anche del nostro per sensibilizzare la popolazione tramite i quotidiani. Lugano e il Ticino hanno bisogno di uno stadio. Senza, banalmente, non puoi fare la Super League. E poi c’è il palazzetto. Inoltre, sono state sottaciute alcune verità: la Città paga fior fior di soldi per affittare varie strutture sportive. Qui invece il privato pagherebbe tutto. Faccio un altro esempio: la Città, un domani, dovrà pagare 6 milioni all’anno per ricomprare la parte sportiva del Polo, ma nessuno dice che dall’altra parte incassa i soldi per il diritto di superficie della zona residenziale. Se poi quei 6 milioni li ripaghi in 35 anni e non in 25, arriveresti a spendere ancora meno. È una polemica stucchevole. C’è gente in Consiglio comunale che non legge nemmeno i rapporti commissionali ma fa interrogazioni senza né capo né coda».

Va di moda disegnare la città del futuro, che volto dovrà avere a suo avviso Lugano?

«Spero che Lugano non perda del tutto l’occasione. I fondi delle casse pensioni, a mio avviso, andrebbero sfruttati per finanziare le varie opere. Un po’ come fanno già i privati. Perché non può farlo anche la Città? Lugano può migliorare tantissimo, ma per farlo deve ingegnarsi e lasciar perdere i personalismi e gli egoisimi di imprenditori o politici. Deve interagire in modo funzionale, senza paura. Artioli non ha certo inventato l’acqua calda, ha interagito con fondi e casse pensioni. Ecco, anche la Città può esssere un imprenditore. Addirittura, può essere più forte e ottenere interessi più bassi».

Lei si sente luganese?

«Sì, quando sono fra la gente. Tante persone mi apprezzano, specialmente le donne. Anche anziane. Mi fermano per salutarmi, mi riconoscono. E mi mettono quasi in imbarazzo. La mia figura è ancora più nitida in Svizzera interna. Ma non avrei mai fatto il presidente a Ginevra o a Zurigo. Sono partito in sordina qui, purtroppo mi sono trovato in una situazione più grande di me e da cui è difficile uscirne. Per tanti motivi. Mi piacciono le sfide, questa forse l’ho valutata un po’ male pensando di avere qualcuno dietro».

Chi la ritiene troppo vulcanico e umorale sbaglia? C’è chi dice che lavorare con lei è impossibile: le uscite sui media, il trattamento riservato ai suoi allenatori...

«Sono sempre stato me stesso. In tutto quello che ho fatto. E sì, sicuramente ho dei difetti. Non si tratta però di cattiveria gratuita nei confronti dei tecnici. Se c’è un problema, nasce all’origine e quindi, lo ripeto, dalla decisione di lanciarmi in un’impresa divenuta più grande di me. Un’impresa dalla quale non sono stato in grado di tirarmi fuori. Di qui l’emozionalità che sovente non riesco a trattenere. La controprova, credo, è comunque data dall’opinione positiva dei miei collaboratori, dipendenti di lungo corso, che sanno meglio di chiunque altro quanto impegno ci metto e con quale senso di responsabilità. E ciò senza soffermarsi più di tanto su cosa dichiaro ai giornali in merito a questo o a quell’altro allenatore».

Non accetterei mai di far fallire il Lugano, al Massimo sarò costretto a regalare la società

A proposito di allenatori che hanno segnato il suo decennio alla presidenza. Ci sono aneddoti ed episodi che, a ripensarli adesso, la fanno sorridere?

«Più che sorridere fanno riflettere. E tanto. Perché spesso, in pubblico, emerge un tipo di persona. Ma poi, dietro, si cela un mondo fatto di paure e insicurezze. In generale, non mi pento di alcuna scelta presa a livello di guida tecnica. D’altronde, i soldi arrivano dalle mie tasche, le emozioni sono mie, le responsabilità anche, così come il dover rendere conto a tutti. Insomma, è evidente che la sensibilità del sottoscritto sia particolare. Quando guardo una partita vedo tutto. E non mi sfugge quanto succede in spogliatoio. Parlo anche di comportamenti inaspettati e inaccettabili, come l’allenatore che spegne la luce nello spogliatoio e fa il suo show o quello che si ferma all’autogrill e dice ai giocatori di prendere tutto quello che vogliono perché paga la società. Alla luce di queste cose, poi, sento di aver sbagliato io. Un allenatore con i suoi atteggiamenti – spesso narcisistici - dà il colore alla squadra. Un aspetto che non posso permettermi di sottovalutare».

I risultati parlano chiaro: una finale di Coppa, due qualificazioni all’Europa League e una permanenza stabile nel calcio che conta. Dal punto di vista sportivo rammaricarsi suona quasi paradossale. O non è così?

«Se c’è un rammarico è quello di aver dovuto accettare e ingoiare troppi compromessi. Colpa della nostra scarsa forza economica e, di riflesso, di un’immagine in parte poco attrattiva. Di conseguenza ci siamo visti obbligati a lasciar partire dei giocatori, perdendo il treno per ingaggiarne altri. Alioski è stato ceduto per 4 milioni di sterline, a noi però ne è rimasto in tasca uno. Di più: ho avuto la possibilità di prendere Nsame, al quale avevo avanzato una offerta congrua; il Servette però voleva i soldi subito, soldi che non in quel momento non avevamo. Poi, ancora, non ho problemi ad ammettere alcuni errori. Su tutti, l’acquisto di Janko. Al di là delle deludenti prestazioni sportive, era un’operazione fuori dalle nostre corde finanziarie e della quale paghiamo tutt’ora lo scotto. In quel momento avevamo però paura di retrocedere».

Che Lugano vedremo in questa stagione? C’è chi vede la sua squadra agli avamposti.

«È un pronostico che non condivido. Molto dipenderà dalle partite in calendario fino a Natale. Sarà questo spezzone di stagione a dire quale sarà il campionato del Lugano. Rispetto al passato comunque intravedo alcune criticità. Solitamente eravamo in grado di disporre di due giocatori per ruolo. Ora invece rischiamo addirittura di dover rinunciare ad alcuni titolari per poter sopravvivere. Perciò saranno vitali le partite iniziali, con il gruppo non ancora intaccato dal mercato».

Con due giocatori di livello per ruolo si chiede mai cosa avrebbe fatto Zeman?

«Quando prendi Zeman devi ragionare sulla sua filosofia di gioco. E in fondo è facile, perché è un allenatore che ha un solo schema e un chiaro ideale di giocatore. Purtroppo, noi l’abbiamo ingaggiato all’ultimo momento e da neopromossi. Con tutti i deficit del caso dunque per accontentare le idee di Zdenek. Eppure penso che a Cornaredo si siano viste delle belle partite, come tra l’altro dimostrano i 500 spettatori in più di media rispetto alle stagioni successive».

Ad Angelo Renzetti quanto pesa non avere un trofeo in bacheca?

«Sarebbe stato bellissimo conquistare la Coppa Svizzera nel 2016, ovvio. Probabilmente un successo avrebbe anche cambiato la vita del Lugano. Detto ciò, tenuto conto delle nostre condizioni ero talmente felice di aver raggiunto l’atto finale che i patimenti per la sconfitta sono passati in secondo piano. Sembra assurdo, ma io sono fatto così: a interessarmi è più il cammino, non la meta. L’Europa League? Il discorso è simile, sì. Anche se per quanto riguarda le due esperienze continentali il dispiacere più grande è legato all’impossibilità di giocare a Cornaredo. Agli occhi del Ticino il club avrebbe assunto un’immagine diversa».

Abbiamo parlato degli allenatori. E i giocatori? Ha uno o più pupilli?

«Invero sono affezionato alla maggior parte di loro. Al di là di alcune piccole diatribe, tutti sanno quanto mi piaccia Bottani. Ma tra gli ultimi arrivati potrei fare altri nomi. Maric, ad esempio, è stato sin qui eccezionale, dando grande stabilità alla squadra. Credo che in futuro potrà dare tanto al club e più in generale al Ticino calcistico. Come Sulmoni d’altronde, un’altra persona esemplare. Gli unici giocatori che non apprezzo molto sono quelli che mi accorgo essere solo di passaggio».

Angelo Renzetti come vede i prossimi 10 anni del FC Lugano? E in che misura pensa o spera di poter essere ancora coinvolto a livello societario?

«Dieci anni sono tanti. E la situazione attuale non è per nulla semplice. Se però trovassi una persona disposta ad aiutarmi ripartirei con lo spirito dei primi giorni. Gli obiettivi da raggiungere, infatti, non mancano. E non sono lontanissimi. Il nuovo stadio, ovviamente, come pure una posizione di classifica importante, nei primi cinque, campionato dopo campionato. Il tutto, magari, riuscendo a non piegarsi ai compromessi di cui dicevo. Per come ho interpretato questi dieci anni di presidenza, vissuti con passione ed emozione, mi sento veramente forte dentro. Purtroppo però ho il sasso ma non la bisaccia. Non sono né Davide né Golia. Ecco perché ora spero di portare a termine le discussioni in corso con alcuni potenziali partner».