Donald Trump e lo spettro dei dazi
Gli obiettivi di politica economica di Donald Trump affrontano i problemi della realtà americana: l’esplosione delle diseguaglianze, il cronico deficit della bilancia commerciale e un deficit pubblico le cui proporzioni stanno diventando insostenibili. Per cercare di risolverli il presidente eletto punta sulla conferma del taglio delle tasse varato durante il primo mandato con l’aggiunta di nuovi provvedimenti, il controllo dell’immigrazione con la deportazione nei Paesi di origine dei migranti illegali e infine i dazi doganali. La combinazione di queste misure rischia di far crescere l’inflazione e danneggiare un’economia apparentemente in piena forma. Ma Donald Trump la pensa diversamente: gli squilibri americani sono dovuti alla globalizzazione che penalizza gli Stati Uniti. Quindi l’introduzione di dazi doganali diventa il perno centrale della politica di Trump.
Come ha scritto l’autore della politica commerciale dell’amministrazione, Robert Lighthizer, in un’economia globale «i Paesi che continuano ad avere un surplus della bilancia commerciale sono i veri protezionisti, quelli che hanno perenni disavanzi, come gli Stati Uniti, sono le vittime delle loro politiche industriali (predatorie) tese ad aumentare le esportazioni». Robert Lighthizer non nega la teoria economica secondo cui il deficit commerciale corrisponde alla differenza tra gli investimenti di un Paese e il suo tasso di risparmio, ma sostiene che la causa di questo fenomeno è inversa: è il rosso della bilancia commerciale a deprimere il tasso di risparmio. A sostegno di questa tesi ricorda che oggi gli stranieri posseggono attività negli Stati Uniti di ben 22.000 miliardi di dollari maggiori di quelle che posseggono gli americani all’estero. Pure l’esplosione delle disuguaglianze ha la medesima causa. Il futuro rappresentante commerciale dell’amministrazione ricorda che l’1% più benestante dei cittadini americani ha una ricchezza maggiore del successivo 60% e ciò per la prima volta negli ultimi 60 anni. Inoltre, secondo Robert Lighthizer, i dazi non producono inflazione, come ha dimostrato la loro introduzione durante il primo mandato di Donald Trump.
Sul mondo aleggia dunque lo spettro di dazi di almeno il 10% su tutte le esportazioni negli Stati Uniti con un trattamento «di favore» per l’export cinese che verrebbe colpito con un’aliquota minima del 60%. Alcuni sostengono che non bisogna spaventarsi troppo, poiché Donald Trump userà questa minaccia nelle trattative per ottenere altri obiettivi.
A mio parere vi è più di un motivo per dubitarne. Sta di fatto che dazi del 10% su tutte le importazioni non sarebbero un disastro per la Svizzera e per l’Europa. Infatti il loro impatto sarebbe simile a una rivalutazione del franco e dell’euro di pari entità. L’esperienza elvetica mostra che è una prova che si può superare, anche perché contemporaneamente provocherebbe un rialzo del dollaro. Appaiono però prevedibili misure di rappresaglia dei Paesi colpiti dai dazi, come accadde nel 1930 con la legge americana chiamata Smoot-Hawley. Allora le reazioni e le controreazioni provocarono una forte diminuzione del commercio internazionale e, secondo molti economisti, furono una causa della Grande depressione degli anni Trenta. Il protezionismo è infatti un’arma da maneggiare con grande cautela: funziona per quei Paesi (soprattutto emergenti o in via di sviluppo) che vogliono salvaguardare dalla concorrenza estera settori industriali nella prima fase di sviluppo, altrimenti causa guai. I dazi contro Pechino, che potrebbero raggiungere il 100%, provocherebbero sicuramente un ulteriore peggioramento delle relazioni tra le due potenze e accelererebbero la delocalizzazione delle industrie cinesi nei Paesi del Sud-Est asiatico e in Messico per aggirare le misure americane.
In conclusione, la politica economica di Donald Trump tesa ad invertire il declino degli Stati Uniti è una grande sfida, che avrà riflessi positivi e negativi in tutto il mondo, quindi anche sul nostro Paese. Ma il successo non è certo.