«Donerò questi soldi all'Ucraina»: che fine hanno fatto i miliardi di Abramovich?

Marzo 2022. Era passata solamente una manciata di giorni dall'inizio dell'invasione russa dell'Ucraina. Ma le prime sanzioni imposte dall'Occidente cominciavano a fare effetto. Fra le prime, illustri, vittime delle misure prese contro cittadini russi vicini a Putin, l'allora proprietario del Chelsea, il miliardario Roman Abramovich. Era bastata, appunto, questa manciata di giorni perché Abramovich si ritrovasse, all'improvviso, a dover cedere il club acquistato quasi vent'anni prima. Parte del ricavato – avevano stabilito insieme Abramovich e il governo inglese, che aveva dato il proprio via libera all'acquisizione da parte di una cordata formata da Todd Boehly, Clearlake Capital, Mark Walter e Hansjörg Wyss –, doveva essere inviato a Kiev, per aiutare le vittime della guerra in Ucraina. Doveva. Sono passati due anni, ma i miliardi dell'acquisizione rimangono bloccati nel Regno Unito. E oggi, alla Camera dei Lord, i membri della commissione inglese per gli affari europei hanno definito «incomprensibile» la situazione.
La vendita
Facciamo un passo indietro: raccontiamo la vendita. Immediatamente dopo l'invasione dell'Ucraina – era il 2 marzo – Abramovich aveva confermato ufficialmente l'intenzione di vendere il club. Ma qualche giorno dopo, finito nella lista degli oligarchi sanzionati perché vicini al Cremlino, il miliardario aveva visto l'opzione trasformarsi in un obbligo. Abramovich, secondo quanto stabilito dalla Premier League il 12 marzo, non poteva più essere proprietario di una squadra inglese. La cessione alla già citata cordata, allora, era arrivata a maggio, conclusa ufficialmente dopo il via libera del governo britannico. Un via libera sudato, vista la capillarità dei controlli effettuati sulla destinazione dei fondi: neppure una sterlina doveva finire nelle tasche di Abramovich.
Lo stesso Abramovich, come detto, aveva insistito perché il ricavato andasse alle vittime della guerra in Ucraina. Due miliardi e mezzo di sterline: 2,73 miliardi di franchi al cambio odierno. E arriviamo, dunque, ad oggi. Finito in un conto bancario britannico, il denaro è pronto per essere inviato in Ucraina da oltre un anno e mezzo. Eppure, rimane lì: bloccato – svela il rapporto odierno della commissione britannica – da una querelle fra Abramovich e il governo inglese su come esattamente il patrimonio possa essere speso.
«Incomprensibile»
Persone vicine ad Abramovich, riporta il Guardian, hanno detto che l'accordo era che il denaro sarebbe dovuto andare a «tutte le vittime del conflitto in Ucraina e alle sue conseguenze», mentre i ministri insistevano che doveva essere speso esclusivamente per scopi umanitari in Ucraina «e non per altre cause legate all'Ucraina». A specificarlo, nel corso dell'incontro con la commissione, lo stesso ministro degli Esteri David Cameron. Ma alla Camera dei Lord, la spiegazione non è bastata. E diversi deputati hanno criticato il governo per non aver trovato comunque un accordo con l'ex proprietario del Chelsea. Peter Ricketts, ex consigliere di David Cameron per la sicurezza nazionale e presidente della commissione, ha dichiarato: «È incomprensibile che due anni dopo l'accordo tra Abramovich e il governo non sia stato ancora attuato». Il rapporto, citato dal Guardian, aggiunge: «La promessa non mantenuta fatta da Abramovich al momento della vendita del Chelsea FC si riflette negativamente su di lui e sul governo per non aver spinto per un impegno più vincolante. Esortiamo il governo a utilizzare tutte le leve legali disponibili per risolvere rapidamente questa impasse, in modo che l'Ucraina possa ricevere gli aiuti tanto necessari, promessi e attesi da tempo».
Sullo sfondo, la preoccupazione britannica per un ipotetico Trump 2.0: Washington continuerà a finanziare gli sforzi bellici, in caso dell'elezione del tycoon? Il rapporto dei Lords avverte: «Una stretta cooperazione tra Regno Unito e Unione Europea per garantire la continuità di un sufficiente supporto militare all'Ucraina sarebbe di particolare importanza nel caso di un cambiamento di politica da parte di una futura amministrazione statunitense».