Reportage da Gerusalemme

Due giorni in più di tregua, ma Netanyahu spegne le illusioni

Israele e Hamas hanno trovato un accordo per prolungare la pausa umanitaria - In vista nuovi scambi di ostaggi e detenuti - Il premier ha però chiarito che non intende abbandonare gli obiettivi: distruggere l’organizzazione terroristica e liberare tutti i prigionieri israeliani
© EPA/CHRISTOPHE PETIT TESSON
27.11.2023 19:45

Alla fine, per altri due giorni non risuoneranno le armi a Gaza. Il Qatar ha annunciato che, grazie anche alla sua mediazione, oltre a quella egiziana, è stato raggiunto un accordo per prolungare di altri due giorni la tregua umanitaria nella Striscia. Il raggiungimento dell’accordo è stato confermato anche dalla Casa Bianca. «Speriamo di vedere le pause prolungate ulteriormente, e ciò dipenderà dal rilascio di più ostaggi da parte di Hamas», ha detto il portavoce del Consiglio di sicurezza nazionale John Kirby. I combattimenti saranno sospesi dunque almeno per altri due giorni, durante i quali verranno rilasciati altri 10 ostaggi israeliani e liberati 30 detenuti palestinesi al giorno.

Motivazioni diverse

Le motivazioni per prolungare la tregua sono ovviamente molto diverse per le due parti. Se da un lato per Israele l’obiettivo finale resta poter sradicare Hamas, altri due giorni di tregua costituiscono indubbiamente un’occasione irrinunciabile per riportare a casa più ostaggi. Del resto la pressione delle famiglie che chiedono a gran voce che la priorità sia questa, si fa sentire. Per Hamas significa invece riprendere fiato, riorganizzarsi (cosa che preoccupa non poco Israele), oltre a ottenere la liberazione di un maggior numero di prigionieri palestinesi dalle carceri israeliane.

I primi quattro giorni di tregua, non senza intoppi, hanno dimostrato che si può continuare lungo questa strada e che il meccanismo, tutto sommato, funziona, anche se con accuse reciproche di violazioni. Il portavoce del governo israeliano, Eilon Levy, ha del resto ricordato che nella Striscia ci sono ancora 184 israeliani in ostaggio di Hamas; ostaggi che vanno liberati e restituiti alle loro famiglie. Il segretario generale della NATO, Jens Stoltenberg, ha detto che è necessario che la sospensione dei combattimenti a Gaza venga prolungata per consentire l’arrivo di maggiori aiuti e il rilascio degli ostaggi detenuti dai terroristi nella Striscia.

L’invito di Guterres

E c’è chi spera che la tregua possa presto significare la fine delle ostilità. «Abbiamo chiesto che questa tregua si trasformi in un cessate il fuoco umanitario a lungo termine», ha detto la direttrice per le comunicazioni dell’UNRWA, Juliette Touma. «A Gaza è tutto chiuso: negozi, farmacie, non si trova nulla, la situazione è insostenibile. Sebbene l’assistenza umanitaria sia fondamentale e salvi vite umane, non sarà sufficiente nel medio e lungo termine». Dello stesso avviso, il segretario generale delle Nazioni Unite, Antonio Guterres, il quale spinge per un cessate il fuoco umanitario completo anziché per una tregua temporanea, affermando che «la catastrofe umanitaria a Gaza sta peggiorando di giorno in giorno». Ma l’ipotesi di un cessate il fuoco definitivo non sembra, almeno al momento, minimamente contemplata da Israele. Il primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, ha infatti ribadito al presidente degli Stati Uniti, Joe Biden, di essere disponibile a estendere l’attuale tregua ma che, una volta terminata, l’operazione di terra dell’esercito riprenderà a pieno regime. «Abbiamo portato a casa un gruppo di ostaggi, bambini e donne, e insieme a tutta la nazione mi commuovo nel profondo del mio cuore vedendo le famiglie riunite», ha detto Netanyahu. «Ma alla fine della tregua riprenderemo pieni poteri per centrare i nostri obiettivi: distruggere Hamas, garantire che Gaza non ritorni quella che era e, naturalmente, liberare tutti i nostri ostaggi. Non abbiamo altra scelta».

Il caso di Hila

Restano però ancora alcuni punti interrogativi e diverse questioni irrisolte. Il nodo centrale sembra rimanere proprio quello legato agli ostaggi. Dal lato israeliano, alcuni conti non tornano. Non è chiaro il motivo per il quale, ad esempio, non siano stati rilasciati finora alcuni bambini. La paura che serpeggia è che Hamas non sappia dove si trovino tutti i prigionieri o, peggio, che alcuni potrebbero essere stati uccisi. Resta aperto poi il mistero legato alla sorte di Raya Rotem. In base agli accordi iniziali sulla tregua, i figli minori non avrebbero dovuto essere separati dalle loro madri. Così non è stato per Hila Rotem, la ragazzina di tredici anni che dopo ore e ore di attesa, sabato sera, è stata liberata, ma senza sua madre. Non si sa la donna che fine abbia fatto. Hila ha dichiarato che lei e sua madre sono state sempre insieme sin dal 7 ottobre e sono state separate, senza motivo, solo un paio di giorni prima della sua liberazione. Israele ha puntato il dito contro Hamas, parlando di violazione degli accordi. L’organizzazione che governa Gaza invece contesta a Israele di aver seguito, nella liberazione dei prigionieri palestinesi, un criterio diverso da quello richiesto. Hamas infatti voleva che venisse seguito il criterio dell’anzianità, liberando cioè per primi i prigionieri in carcere da più tempo. Cosa che invece Israele non avrebbe fatto.

Il ruolo decisivo del Qatar, il grande mediatore

Se la guerra tra Israele e Hamas sta portando morte e distruzione c’è qualcuno che ne sta indirettamente beneficiando, quantomeno in termini di immagine. Sulla scena internazionale è il Qatar che si sta imponendo nel suo ruolo di mediatore. Spesso criticato per i suoi legami con le organizzazioni terroristiche, per le sue politiche di sfruttamento dei lavoratori, ha trovato la chiave del successo in una strategia multilaterale. Non a caso il Qatar ospita sul proprio suolo una grande base militare americana, Al Udeid Air Base, un’altra grande base turca, ma anche l’ufficio politico di Hamas, organizzazione che finanzia per centinaia di milioni di dollari. È anche partner dell’Iran, con il quale condivide il più grande giacimento di gas al mondo, ed è stato al centro di un embargo di diversi anni dai diversi Paesi del golfo. Ma ha avuto anche l’intelligenza di non opporsi a Israele, con cui i rapporti commerciali sono stabili sin dal 1996. «Il Qatar è uno dei pochi Paesi ad avere buone relazioni con l’Autorità nazionale palestinese, con Hamas e con Israele, e questo ne fa un importante mediatore», ha dichiarato Mehran Kamrava, docente alla Georgetown University del Qatar. Il Qatar è quindi ascoltato, allo stato attuale, sia da Hamas che da Israele, che ne sta apprezzando l’opera di mediazione. Il consigliere per la sicurezza nazionale israeliano, Tzachi Hangbi, ha definito «cruciali» gli sforzi diplomatici del Qatar, un Paese che per Israele è ormai «parte essenziale nel facilitare la soluzione di delicate questioni umanitarie». Parole trovate eccessive da alcuni, che non dimenticano come, senza il sostegno economico del Qatar, Hamas non avrebbe avuto la forza di mettere in atto tutto quello che è successo il 7 ottobre scorso. E infatti, quando tutto sarà finito, secondo alcuni analisti, il Qatar dovrà scegliere in maniera più netta da che parte stare o comunque, per non perdere il consenso acquisito, cominciare a prendere maggiormente le distanze da Hamas. Il ruolo di mediatore internazionale del Qatar non è però cosa del tutto nuova. Nel 2008, quando Hezbollah prese il controllo delle principali infrastrutture in Libano, fu proprio la mediazione del Qatar a evitare che il Paese piombasse in una guerra civile, facendo addivenire le parti a un accordo che fu, non a caso, siglato proprio a Doha. E tra Gaza e Israele, il Qatar era già intervenuto nel 2014, ma soprattutto nel 2021, favorendo le evacuazioni dei cittadini stranieri.

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